Si apre oggi a Kuwait City la conferenza internazionale per la
ricostruzione dell’Iraq, organizzata dallo stesso Iraq, Kuwait, Onu, Ue e
Banca Mondiale. L’incontro durerà tre giorni, fino al 14 febbraio, e
vedrà la partecipazione di delegazioni da 70 paesi, organizzazioni
internazionali e i rappresentanti di 1.850 aziende da tutto il mondo.
Il focus sarà incentrato su energia, comunicazioni e trasporti,
costruzioni e tutela dell’ambiente, fa sapere Ali Mohammed Thunayan al
Ghanim, presidente della Camera di commercio del Kuwait. Che aggiunge:
da Banca Mondiale e Stati ci si attendono gli investimenti necessari a
lanciare i progetti delle aziende private che ricostruiranno un paese in
guerra permanente da decenni.
“Non penso ci siano altre parti del mondo con simili
opportunità di investimento”, è il commento di Ziad Badr, responsabile
per l’Iraq dell’Internazional Finance Corporation, presente in Kuwait. È
così. Sul tavolo c’è molto, un piatto ricchissimo: 100 miliardi di
dollari di danni sono stati stimati solo per le zone devastate
dall’occupazione islamista e dalla guerra allo Stato Islamico.
L’ovest, dunque, e il nord del paese, a cui vanno aggiunte però
infrastrutture carenti in tutto l’Iraq, mai ricostruite dopo l'invasione
statunitense del 2003. A fronte di miliardi di dollari
piovuti su Baghdad, il denaro – come dimostrato da rapporti
istituzionali e internazionali – è evaporato, incanalato nei rivoli
della corruzione (l’Iraq è ai primissimi posti nella poco onorevole
classifica dei paesi dove la corruzione è maggiore) e mai destinato a
progetti di ricostruzione e sviluppo.
Ora aziende straniere e Stati hanno tra le mani un tesoro: centinaia
di miliardi di dollari per risollevare un paese dove intere città sono
state danneggiate dalla guerra, quartieri spazzati via dalle bombe
dell’aviazione statunitense e dalle violenze dello Stato Islamico,
milioni di sfollati mai rientrati a casa, reti idriche ed elettriche
malfunzionanti o interamente da ricostruire. Tutti buchi per i quali
l’Iraq ha formulato già 157 progetti di investimento, pubblicati una
settimana fa dall’Iraqi National Investment Commission, che da oggi
presenterà alla conferenza di Kuwait City: aeroporti, trasporti,
agricoltura, petrolchimico, ricostruzione di case, scuole, ospedali,
strade, reti di telecomunicazioni.
Alla base starà un Fondo di ricostruzione che sarà gestito
direttamente dal governo di Baghdad, lo stesso che alla fine dello
scorso anno per bocca del primo ministro al-Abadi diede per sconfitto lo
Stato Islamico e stimato almeno 100 miliardi di dollari di danni. Una
somma ingente che attira. Non è un caso che la Banca Mondiale
sia tra le promotrici della conferenza che si apre oggi. Perché se è
vero che la priorità – almeno dal punto di vista dei civili – è la
ricostruzione di città e villaggi e il rientro dei 5 milioni di sfollati
stimati, ad interessare le aziende private che gravitano intorno ai
governi sono le ricchissime risorse petrolifere del paese. È lo
stesso governo iracheno a stimare in almeno 30 miliardi di dollari
l’ammontare necessario per progetti strategici nel settore energetico.
In prima fila ci sarà anche l’Italia, già presente
sul campo non solo nel Kurdistan iracheno dove forma unità dei
peshmerga, ma anche alla periferia di Mosul dove i soldati di Roma si
occupano della sicurezza della diga, la cui ricostruzione è stata
appaltata all’italiana Trevi. Sentito da Agenzia Nova,
l’ambasciatore a Baghdad Pasquino ha specificato che “la partecipazione
italiana non sarà solo a livello governativo, ma vedrà presenti anche le
organizzazioni non governative e una quindicina di aziende già operanti
in Iraq. In particolare nei settori delle infrastrutture e
dell’energia (costruzione di oleodotti e raffinerie, ampliamento delle
aree esplorate e sviluppo del settore del gas), nel restauro e la tutela
del patrimonio iracheno.
Chi invece non dovrebbe versare contanti sono gli Stati Uniti: lo
scorso giovedì funzionari dell’amministrazione hanno detto alla Reuters
che gli Usa non intendono contribuire con denaro alla conferenza di
Kuwait City né annunceranno in quell’occasione contributi particolari.
Al contrario, aggiungono, contribuiranno a investimenti privati e ad aiuti ai paesi vicini – leggi il Golfo – per ridurre l’influenza iraniana nel paese.
Insomma, Washington non intende girare fondi a Baghdad per
ricostruire un paese devastato ma sosterrà aziende private che lo
facciano. Con un occhio, anzi una mano, su Riyadh che attraverso i
propri investimenti sappia garantirsi la sua fetta di influenza
politica.
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