Viviamo in tempi di piccole “narrazioni”, praticamente bugie messe come toppa su una realtà ingestibile. Se ne usano in tutti gli scenari e, ovviamente, soprattutto in quelli politici.
Quelle sull’economia e le borse sono le più facili da propagare, visto che ben pochi ci capiscono qualcosa e quei pochi, in genere, sono profumatamente pagati proprio per stendere il canovaccio narrativo più rassicurante.
Il crollo improvviso di Wall Street ha come sempre “sorpreso” tutti, in primo luogo gli “esperti”, che invece da mesi – o anni – ci raccontavano che questo era il migliore dei mondi possibili. La crescita economica dei paesi più industrializzati è asfittica (solo inserendo nel conteggio statistico le attività delle multinazionali all’estero o l’economia illegale Usa e Europa possono dirsi “in crescita”), ma non fa niente: le borse correvano da almeno quattro anni senza che nessuno si preoccupasse più di vedere il legame tra speculazione ed economia reale; i salari erano fermi o in diminuzione (in Occidente), dunque l’inflazione era domata; le banche centrali iniettavano liquidità a strafottere per rianimare il circuito dell’economia, salvare le banche private e favorire un briciolo di crescita.
Era diventato “normale” un mondo che stava in piedi grazie a “misure non convenzionali” delle principali autorità monetarie e all’“austerità” nei bilanci pubblici dell’Eurozona (ma non degli Usa). Così “normale” che nessun manuale di macroeconomia aveva mai descritto uno scenario simile. Invece di indagarlo, e vederne le criticità nascoste, si è preferito assumerlo come (nuovo) modello standard.
Ora fioccano le pseudo-spiegazioni, che partono inevitabilmente dalla descrizione dello scoppio di una “bolla”. Contrariamente a dieci anni fa, però, la “bolla” non si era gonfiata in un anfratto secondario, ancorché molto irrelato, del sistema finanziario (i tristemente famosi “mutui subprime” statunitensi, concessi senza garanzie salariali e/o patrimoniali). Era davanti agli occhi di tutti: le banche centrali “stampavano moneta” da prestare a tasso zero nella speranza che fluisse verso l’economia reale. Ma tutta questa “liquidità” correva verso l’investimento finanziario puro, principalmente borsistico ma non solo (l’esplosione del mercato delle criptomonete non sarebbe stato possibile senza una eccesso spropositato di liquidità in circolazione a costo irrisorio).
L’esplosione era solo questione di tempo, insomma, e se ne conosceva anche la dinamica: tutto sarebbe venuto giù quando le banche centrali principali (Fed Usa, Bce, Bank of England e Bank o Japan, oltre a quella cinese) avrebbero preso la via del ritorno alla vera normalità di mercato: un tasso di interesse sopra lo zero, un’inflazione intorno al 2%, ecc.
Tutto così certo che proprio il governatore della Fed, Janet Yellen, e Mario Draghi hanno procrastinato la scadenza più a lungo possibile. La Yellen è addirittura arrivata alla fine del suo mandato con appena un paio di mini-ritocchi al tasso base (oggi oscillante tra l’1,25 e l’1,50%), preoccupata solo di non provocare scossoni ingestibili. Ora alla Fed c’è Jerome Powell, insediato da appena due giorni, ma non gli si può attribuire nessuna colpa: non ha ancora fatto nulla...
Ma è bastato che ci fosse un cambio di facce per generare incertezza, improvvisamente, su quali potranno essere le prossime mosse; sicuramente sulla via del rialzo graduale dei tassi (l’azzeramento del quantitative easing era ormai alle spalle).
Il calo del 4,6% di Wall Street – ma si era arrivati ieri pomeriggio a quasi l’8% – in una sola giornata non si vedeva da sette anni. Idem per le perdite che subito dopo – per questioni di fuso orario – hanno subito le borse asiatiche, poi quelle europee (non stranamente queste ultime stanno beneficiando dell’atteso “rimbalzo” di Wall Street, tra qualche ora, come di solito accade dopo perdite sanguinose).
Le spiegazioni, dicevamo, sono tutte molto “tecniche”, senza alcun respiro globale. Si accenna alla “bolla”, ed anche agli algoritmi che guidano potenti computer a decidere – in un nanosecondo – di vendere o acquistare titoli. Non è in fondo la prima volta che il “pilota automatico” programmato dalle banche genera movimenti a spirale verso il basso (memorabile il “venerdì nero” del 1987, con perdite medie del 23%), ma nonostante tutti gli affinamenti informatici – gli automatismi sono ora molto più “cauti” – non si è trovato ancora il giusto bilanciamento. Promettono un più massiccio intervento della presunta “intelligenza artificiale”, dunque problemi ancora più grossi.
Sotto accusa anche la scelta di Trump di abbassare le tasse ai più ricchi (la flat tax ha sempre questo unico effetto), ma forse ha fatto più paura il modesto recupero salariale fatto registrare negli Stati Uniti: +2,9%, dopo anni di arretramento generalizzato. Se i salari crescono, è il ragionamento classico, sta per ripartire l’inflazione e quindi il rallentamento della “crescita” (perché a quel punto i tassi di interesse prendono anch’essi a salire, aumentando il costo del denaro e scoraggiando gli investimenti produttivi).
Nessuno sa dire cosa accadrà. E quindi parte la nuova versione della solita “narrazione”: una “correzione” era necessaria, addirittura “salutare”. Ma è solo una correzione, per quanto drastica, o l’inizio di un nuovo “bagno di sangue”?
Non stateli a sentire. Non lo sanno perché non possono saperlo. La loro visione macroeconomica prevede “l’equilibrio”, non la crisi. E la crisi che dura da dieci anni, tamponata col metadone della liquidità pompata nelle vene del sistema, ha scelto Wall Street – come sempre – per ricordarci che non è passata affatto. Anzi, si è fatta un po’ più immensa.
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