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01/02/2018

Pure “il manifesto” si arruolò tra i dietrologi da quattro soldi.

Al Manifesto triste y solitario final, l’anomalia che non c’è più.

Di seguito il testo integrale dell’articolo che segna la liquidazione definitiva della storia di un giornale che – caso unico – era nato sull’onda della contestazione operaia e studentesca della fine degli anni sessanta e che pur facendo, nel corso dei decenni, cambiamenti anche sostanziali, di linea e cultura politica, aveva, tuttavia, mantenuto lo stesso nome e pure quella ostinata testatina (“quotidiano comunista”) che però, già da molto tempo, non trovava più conferma in nessuno dei testi pubblicati dalla redazione.

In verità quella rottura si era già consumata quasi sei anni fa, quando nel 2012, una delle fondatrici della storica testata, Rossana Rossanda, lasciò il Manifesto con una lettera con cui accusava, senza mezzi termini, la direzione e la redazione di “indisponibilità al dialogo”.

Quell’addio era stato preceduto da quello altrettanto eccellente di Marco D’Eramo (la cui lettera di commiato venne liquidata con poche sprezzanti righe dalla direzione) e seguito da quello di Joseph Halevi che lasciò il giornale usando parole durissime nei confronti di direzione e redazione: “Non si tratta più di un collettivo ma di un manipolo che per varie ragioni si è appropriato del giornale”.

Eppure “il manifesto” fino a quel punto (2012), a modo suo, pur tra smagliature e qualche momentaneo cedimento, aveva rappresentato uno spazio critico sicuramente ostile a certa “dietrologia fantastorica” con cui i vincitori hanno continuato ad alimentare, per decenni, la narrazione di Stato sul conflitto sociale degli anni settanta e sugli esiti di quella stagione.

Un argomento delicato e complesso su cui “il manifesto” di Rossanda, Parlato, Pintor non avrebbe mai concesso un millimetro alla dietrologia e a quei teoremi giudiziari tanto in voga, alla fine degli anni settanta, presso certe procure che lavoravano a stretto contatto con i funzionari locali del PCI e con quelli delle camere del lavoro. Quel “manifesto”, di certo, mai senza passare al vaglio di un rigoroso esame critico e storiografico ogni ipotesi. Ma tant’è. E forse ora si inizia a capire quale era almeno una delle ragioni che animarono il putsch del “manipolo”: cooptare anche quelli che ancora campano sui resti di ciò che fu un tempo il glorioso “manifesto” dentro il grande Coro di Stato della Narrazione Ufficiale sui così detti “anni di piombo”, ovvero, più semplicemente, la storia scritta dai vincitori.

Una narrazione, tuttavia, sempre più sgangherata e che, per reggersi, forse aveva proprio bisogno di farsi largo, almeno un po’, anche tra i resti di ciò che è rimasto di quell’altrettanto sgangherato popolo che usiamo chiamare “popolo di sinistra”.

Buona lettura (si fa per dire).


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I CORVI DELLA DEMOCRAZIA

di Giovanni De Plato
(dal manifesto del 28.01.2018)


Peccato che non abbia avuto il dovuto risalto la importante decisione della Procura generale di Bologna di riaprire le indagini sulla strage alla stazione ferroviaria del 2 agosto di trentotto anni fa, come da richiesta dei familiari delle vittime. Come non ha avuto il giusto rilievo la riapertura delle indagini da parte della procura di Palermo sul delitto del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella avvenuto sempre nel 1980.

Le procure ordinarie di Bologna e di Palermo avevano già deciso di archiviare, ritenendo accertata la verità e condannate le responsabilità. E i mandanti? Si deve alla competenza, esperienza e senso del dovere di Ignazio De Francisci, magistrato della procura di Bologna, e di Francesco Lo Voi procuratore di Palermo se i misteri dell’Italia repubblicana non sono stati occultati definitivamente.

LA VERITÀ SULLE STRAGI (chi sono gli effettivi mandanti e quali erano le loro finalità) è ancora tutta da indagare e di certo non ci si può accontentare di verità parziali o incomplete, emerse dai diversi gradi dei processi finora celebrati.

La riapertura delle indagini a Bologna e a Palermo riaccende finalmente i riflettori su quella rete, complessa e mai svelata, fatta di organizzazioni eversive, di mafie, servizi deviati, società segrete, logge, venerabili e conti in banche svizzere. La riservatezza delle nuove indagini non lascia trapelare informazioni sui tanti fili eversivi, finora ignorati, che legano la strage di Bologna al delitto Mattarella.

E la verità sulle altre stragi, piazza Fontana 1969, piazza della loggia Brescia e treno Italicus 1974? Si ha l’impressione che finora le indagini abbiano considerato ogni eccidio come un fatto a sé, non valutando se fossero dei tasselli che formano una possibile trama della strategia eversiva che ha funestato per lunghi decenni la repubblica italiana.

Strategia che cercò di colpire a morte lo Stato democratico con la strage di Via Fani e il rapimento di Aldo Moro nel marzo 1978 seguito dall’uccisione dello statista da parte delle Brigate rosse nel maggio dello stesso anno.

IL TEOREMA dello stragismo degli opposti estremismi (sinistra e destra eversive) e dello stragismo di Stato (servizi segreti e deviati) si sono dimostrati nei fatti una chiave che non ha permesso di arrivare alla verità.

Di questa drammatica realtà che attanaglia ancora l’Italia di oggi (come si spiega il caso Consip?) non c’è traccia nei programmi e nei dibattiti tra i partiti in vista delle prossime elezioni politiche.
Le forze della destra non amano trattare le responsabilità impunite o aprire i propri armadi. E quelle di sinistra non sanno come affrontare gli attacchi alla democrazia e fare della ricerca della verità una priorità del loro programma di governo. Siamo circondati e minacciati da neri corvi, come nel film del 1963 «Gli uccelli» di Alfred Hitchcock. I corvi hanno le penne nere e lucenti, sono onnivori, mangiano di tutto e si cibano delle loro vittime. Con rispetto ai corvi, queste loro caratteristiche sono proprie di chi cospira, di chi nonostante la Liberazione dell’Italia dal regime nazifascista, il voto per la Repubblica e la emanazione della Carta costituzionale, non ha deposto le armi e continua a ordire nel buio della notte contro quel nuovo sistema politico scaturito dalla vittoria dell’antifascismo nel 1945.

LA SCELTA DEMOCRATICA del popolo italiano nel 1948 non ha comportato la liberazione dai corvi fascisti, anzi sono stati incomprensibilmente rilegittimati. Non bisogna dimenticare che in Italia alla fine della Seconda guerra mondiale mentre si costruiva l’alternativa dello Stato democratico al regime fascista si legiferava per lasciare impunito chi quella democrazia aveva negato e trucidato.
Questa contraddizione la si deve alla politica di pacificazione nazionale voluta dal primo governo repubblicano del democristiano De Gasperi. E condivisa dall’allora ministro di Grazia e Giustizia, il comunista Palmiro Togliatti, che emanò nel 1946 un provvedimento di condono delle condanne e dei reati comuni e politici, di cui si erano macchiati soprattutto i gerarchi e i miliziani fascisti.

I comunisti sottovalutarono che la stampa degli Stati uniti lodava il dittatore Benito Mussolini come il «Roosevelt italiano» e come il miglior garante della lotta al comunismo. Quella contraddizione resta irrisolta, e per ora non sanata.

GLI UOMINI e i dirigenti del regime nazifascista furono scarcerati e liberati da ogni responsabilità omicida e liberticida. La Guerra fredda e lo scontro tra i due blocchi permisero ai corvi neri di ritornare indisturbati a presidiare territori e istituzioni, anche con cellule occulte e paramilitari.
E’ da qui che parte la reazione ai vecchi e nuovi corvi. Alle forze oscure della reazione nera si aggiunse quella delle armate rosse.

Il rumore delle armi si fa sentire con la svolta della Dc, quando Moro e Zaccagnini teorizzarono il superamento della contrapposizione dei due blocchi e proposero il dialogo tra le forze del Paese che avevano concorso a sconfiggere il fascismo. Il compromesso tra democristiani, socialisti e comunisti che avrebbe segnato davvero la svolta verso una democrazia compiuta, mise immediatamente in moto le sentinelle dell’ordine internazionale che la Conferenza di Jalta aveva imposto militarmente ai rispettivi alleati. La fine dei due blocchi nel 1991 e l’inizio della globalizzazione dei liberi mercati, di certo non hanno favorito la realizzazione di quei principi di libertà, eguaglianza e solidarietà sanciti dalla Costituzione.

A distanza di 70 anni dalla nascita della Repubblica si può dire che la democrazia rimane un sistema incompiuto, ancora oggi ostaggio dei tanti tentacoli delle agenzie di sicurezza nazionali e internazionali.

A distanza di 40 anni dalla strage di via Fani e dalla morte di Moro, i colpi inferti alla Repubblica italiana continuano a delegittimare il sistema politico dei partiti, che non sapendo reagire alla democrazia dimezzata si sono condannati al macero. Di questa possibile deriva si resero conto gli allora segretari del Pci Enrico Berlinguer e della Dc Benigno Zaccagnini. Infatti il segretario democristiano nel 1976, due anni prima della strage di via Fani, avvertì rumour e minacce interni al suo partito ed esterni al nostro Paese.

L’allarme lo portò anche a chiedere a Giorgio La Pira, come ad altri costituenti, di candidarsi per essere rieletto in Parlamento, volendo rafforzare la rappresentanza democristiana di chi aveva sperato con la Carta costituzionale di costruire la casa comune degli italiani. L’invito fu accettato dall’ex sindaco di Firenze che però morì nel 1977.

IL BUCO NERO della democrazia italiana si allarga nella legislatura 1976-1979. La casa repubblicana fu difesa con fermezza e senso dello Stato dallo stesso Zaccagnini, che però cercò notte e giorno di salvare la vita di Moro.

Incontrò in via formale e informale parlamentari ed extraparlamentari di destra e di sinistra, reazionari e rivoluzionari, segretari e dirigenti dei partiti, ma alla fine si rese conto che l’appello umanitario di molti alla salvezza di Moro era un vuoto se non uno strumentale messaggio.

Nessuno seppe o volle dire con chi trattare, cosa concedere e come evitare che alla sconfitta militare si aggiungesse quella politica. Quando il segretario della Dc si accorse che la sentenza era già scritta e come temeva già prima dell’attentato ad opera di forze potenti e convergenti, di cui le Br potevano essere soltanto un comodo braccio armato, arrivò in soccorso il disperato appello «Uomini delle Br...» del Papa Paolo VI.

Sarebbe auspicabile che un magistrato della procura di Roma avesse lo stesso coraggio e senso dello Stato, dei magistrati di Bologna e Palermo, per riaprire le indagini sui veri mandanti, su quanti usarono le armi via Fani e cosa è realmente avvenuto in e intorno a via Gradoli, visto che non possiamo accontentarci della verità di una seduta spiritica e di processi iniziati e terminati solo contro le Br.

Fino a quando non si scoprirà la completa verità della lunga e articolata strategia del terrorismo prima e degli attacchi poi alla Repubblica italiana, la nostra democrazia resterà incompiuta, minacciata e asservita.

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