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09/08/2019

Finale di partita, ma nessuno è sicuro di vincere


È finita una stagione politica. Breve, quasi sempre fuori da ogni logica costituzionale, greve, senza un disegno unitario che potesse cogliere e provare a sciogliere i nodi che inchiodano questo paese sulla via del declino e le fasce deboli della popolazione su quella dell’impoverimento continuo.

La prossima può essere peggiore, qualsiasi sia una delle soluzioni ad oggi possibili.

Matteo Salvini e la Lega hanno infine staccato la spina al governo Conte. Sono passate settimane di provocazioni continue, assorbite dai grillini con atteggiamento suicida e complice delle peggiori nefandezze, nell’eterno e noioso “gioco del cerino” su chi dovesse intestarsi la crisi di governo. Basti pensare alla presentazione strumentale di una “mozione No Tav” (nelle certezza che sarebbe stata bocciata) il giorno dopo aver votato la fiducia a quel “decreto sicurezza bis” che consentirà a qualsiasi futuro ministro dell’interno di affrontare il Movimento No Tav manu militari.

Salvini ha provato ieri a portare a casa l’ultimo successo possibile: le dimissioni “volontarie” di Giuseppe Conte, l’apertura di una velocissima crisi extraparlamentare (le Camere sono state appena chiuse) e infine il voto anticipato entro la prima metà di ottobre. Per capitalizzare – come riferito esplicitamente dallo stesso Conte in tarda serata – “il consenso conferitogli dalle elezioni europee e dai sondaggi”. Vantaggi privati in barba alle esigenze pubbliche, insomma.

Le consultazioni tra il presidente del consiglio venuto dal nulla e il Quirinale sono state probabilmente continue e la durissima dichiarazione di ieri sera – “non è il ministro dell’interno a decidere i tempi della crisi”, “venga in Parlamento come semplice senatore e capo della Lega” – porta direttamente a un dibattito parlamentare da concludersi con la sfiducia verso il governo, l’uscita della Lega dalla maggioranza e l’avvio del classico iter previsto dalla Costituzione (consultazioni al Quirinale, tentativo di presentare un “governo elettorale” o “tecnico”, e solo dopo – eventualmente – scioglimento delle Camere e indizione delle elezioni anticipate).

Questo percorso, come tutti sanno, comporta un certo allungamento della tempistica della crisi, tale da poter condurre con molta probabilità ­alle urne non prima di novembre. Ovvero quando il nuovo Parlamento e il governo che ne uscirà non avranno materialmente il tempo di scrivere la “legge di stabilità”, peraltro sotto il controllo occhiuto della Commissione Europea, rendendo quindi necessario – per la prima volta nel dopoguerra – il ricorso all’“esercizio provvisorio di bilancio” e quindi lo scatto automatico delle clausole di salvaguardia; a cominciare dall’aumento dell’Iva di 3 punti per ogni scaglione di aliquota. Per un’economia che viaggia al ritmo dello zero percento, in un contesto di recessione continentale, sarebbe una botta fortissima.

Dunque, come scrivevamo già ieri, la crisi c’è, la soluzione no.

La “finestra” utile per votare ad ottobre è infatti strettissima. Bisognerebbe chiudere la vicenda delle dimissioni dell’esecutivo entro agosto.

In molti, nei talk show, si sono chiesti perché Salvini non abbia scelto la via più veloce per ottenere il voto prima possibile: ritirare la delegazione dei ministri leghisti. Il motivo ci sembra di evidenza solare: sarebbe stato costretto ad abbandonare il ministero dell’interno, ossia il ruolo che gli ha consentito per oltre un anno di dettare ora per ora l’agenda politica del governo attraverso una parossistica e compulsiva presenza mediatica.

Il tentativo fatto ieri con Conte – costringere lui a dimettersi – è stato l’ultimo azzardo per restare al suo posto e di lì gestire la macchina elettorale (che fa capo, ricordiamo, proprio al Viminale). Sarebbe, o sarebbe stata, la prima volta che si vota con il capo di un partito politico seduto nella war room cui affluiscono i dati del voto. E di certo uno come Salvini non può essere considerato da nessuno un “elemento di garanzia” e di neutralità istituzionale.

Ma c’è di più e di peggio. Nei 14 mesi da ministro di polizia, il fascioleghista ha trasformato buona parte della pubblica sicurezza (carabinieri e finanza compresi) in una sua forza militare fidelizzata. Lo dimostrano a iosa non solo le continue sortite di agenti delle “forze dell’ordine” in funzione di “militanti politici” – nelle strade, nei bar, sugli autobus, ecc. – ma anche i frequenti casi di uso propagandistico delle indagini. Le diffusione di immagini di persone arrestate (da Cesare Battisti a Carola Rackete, ai due ragazzotti statunitensi per l’omicidio del carabiniere Cericiello Rega) è avvenuta in evidente “collaborazione” tra militari delle varie polizie e “la Bestia”, ossia lo staff della comunicazione personale di Salvini. Fino al tentativo di innescare un pogrom anti-immigrati, accusando “due nordafricani” per l’omicidio di Roma, messo in atto da un sito ufficialmente gestito da sbirri.

Ce n’è a sufficienza, insomma, per sconsigliare che sia l’attuale batteria di ministri a gestire la scadenza elettorale anticipata. Un ministro dell’interno con evidenti tentazioni “golpiste”, o comunque insofferente ai vincoli costituzionali, è un pericolo anche per la normale dialettica politica, non solo per “le zecche dei centri sociali” (definizione neonazista, come sa chi pratica davvero l’antifascismo).

Ma Salvini ha fatto davvero bene i suoi conti?

Non ci sembra affatto un caso che lo stop secco alla richiesta di concentrare di fatto i poteri nelle mani di un uomo solo sia arrivata dai “garanti nei confronti dell’Unione Europea”. Conte e Mattarella, con il tentativo per ora incontrastabile di “parlamentarizzare la crisi di governo”, rendono più complicata la resistibile ascesa del “nuovo Truce”. Paradossalmente, il venir meno della maggioranza potrebbe portare anche a un ritiro delle deleghe ai ministri leghisti, Salvini compreso, perché costituzionalmente è il presidente del Consiglio a indicarli. Certo, questo comporterebbe un aumento della temperatura probabilmente ingestibile, ma nulla può essere più escluso, in via di principio.

Del resto, il percorso del governo gialloverde si è incagliato con le scelte dei due soci di maggioranza in sede europea, con i grillini a fornire i voti indispensabile per la nomina di Ursula Von del Leyen a presidente della Commissione e i leghisti a votare contro.

In quel momento sono finite le velleità anti-sistema dei Cinque Stelle e si è infranto il sogno leghista di cambiare dall’interno l’Unione Europea. Due strategie fallimentari, diverse tra loro, obbligate a improvvisare nuovi obbiettivi e comportamenti.

Debolezza istituzionale e forza “populista”

La dinamica istituzionale e quella sociale viaggiano ormai da anni su binari differenti. Quel che sul piano istituzionale appare il primo vero passo falso di Salvini – aprire la crisi tardi rispetto agli obbiettivi – non è detto che si tramuti in perdita immediata di consensi. Anzi...

Ma il suo composito “blocco sociale”, al di là del consenso generico interclassista e razzista, strutturalmente volatile, è robustamente centrato sulla piccola e media impresa, soprattutto del Nord. E questo tipo di gente ha bisogno, sì, di ridurre la portata di diversi vincoli imposti dalla UE, ma nessun desiderio di entrare in conflitto serio con il resto dell’economia continentale.

In fondo, nel bene e nel male, sono proprio loro i terminali nazionali delle filiere produttive che hanno cuore e testa in Germania. Magari vorrebbero poter esportare di più in Russia, Iran o altrove, ma non al prezzo di perdere contratti e funzioni infra-UE, che costituiscono il grosso del loro business. Non è insomma gente da battaglia, tutta d’un pezzo e con ideologia “antagonista”. Sono affaristi dalla visione corta, pronti a fuggire delocalizzando, abili nello sfruttare le connessioni tra amministrazione e politica, nel chiedere leggi su misura per i propri interessi (la flat tax, assolutamente irrealizzabile, nasce da lì...), investimenti pubblici in grandi opere anche inutili per non correre alcun rischio di impresa.

E se questo “cuore pensante” del fascioleghismo trova qualcun altro capace di sostenerne gli interessi senza sollevare troppo casino (spread che sale, Iva che aumenta, ritorsioni commerciali infra-europee, ecc.) il divorzio con la Lega può essere rapidissimo. Come del resto dimostrano le rapide ascese e le precipitose cadute di Renzi e in parte degli stessi Cinque Stelle.

Alla ricerca di una via d’uscita

Le soluzioni sono insomma relativamente poche. Salvini e la Lega ora debbono volteggiare senza rete (la sicurezza di stare in un governo di cui determinano le priorità) e con il rischio di veder slittare il voto anticipato a primavera, se non addirittura a giugno 2020.

Sono obbligati a forzare ancora di più la mano, e cercare di conquistare tutto (voto immediato, vittoria elettorale, governo monocolore, ecc.), oppure cominciare a vedersi sfilacciare la trama degli interessi fin qui raccolti intorno a loro. Un’avventura, più che un calcolo politico scientifico...

Il contesto non aiuta nessuno

La congiuntura economica sta precipitando in tutto il Vecchio Continente – oltre ai dati estremamente negativi della Germania, anche Olanda (-0,8%) e Francia (-2,3%) vedono la produzione industriale andare in recessione – e la “guerra dei dazi” aperta da Trump coinvolge ormai direttamente le merci europee (specie tedesche).

Se anche la Lega dovesse ottenere elezioni rapide e una vittoria schiacciante, molto precipiterebbe al momento di varare una manovra lacrime e sangue mentre il Pil si riduce ancora. Senza più nessun altro da accusare per la situazione... E che questo insieme sia disposto ad “uscire dall’Unione Europea e dall’euro” è una scemenza che può esser detta solo dal Pd e da Repubblica.

La governance di Bruxelles mostra crepe nei fondamenti fin qui proposti come “assolutamente indiscutibili”. È notizia di oggi che la Germania si appresta ad aumentare la spesa pubblica per supportare il proprio sistema produttivo a secco di ordini dall’estero. E sarà difficile – anche se ci proveranno di sicuro – continuare ad imporre ai paesi dell’Eurozona quella stessa austerità che Berlino considera un danno per se stessa.

Si aprono margini di conflittualità inter-statuale e tra economie continentali piuttosto ampi. Le istituzioni fin qui costruite sono solidissime se si tratta di gestire la “ribellione” di un singolo paese (la Grecia resta un monito per tutti), ma per nulla efficienti se si tratta di “vivere con il terremoto”, con il tutti contro tutti.

È il contesto che favorisce avventure reazionarie, ma che fornisce anche il terreno per una ripresa di conflittualità sociale e politica indipendente dal bipolarismo forzato tra “europeisti ordoliberisti” e “nazionalisti liberisti”. Certo, bisogna sapersi mettere a quest’altezza, altrimenti si cincischia solo per salvarsi la coscienza...

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