di Michele Giorgio – il Manifesto
Martedì gli insegnanti
giordani avevano respinto l’ordine dei giudici della Corte suprema
amministrativa di tornare al lavoro. Ventiquattro ore dopo è giunto
l’annuncio del sindacato di categoria della sospensione dello sciopero cominciato l’8 settembre – il più lungo mai attuato da dipendenti pubblici – che
ha bloccato quasi tutte le 4.000 scuole del regno hashemita. Domani gli
insegnanti entreranno in aula assieme a 1 milione e mezzo di studenti. Al
passo indietro ha contribuito l’ipotesi di un licenziamento di massa
considerata dal governo del premier Omar al Razzaz. Per gli insegnanti
il boccone da ingoiare è molto amaro.
«Non finisce qui, il governo ha vinto solo il primo round, ci sono
tanti altri round e mezzi legali a nostra disposizione», ha avvertito
Noureddine Nadim, un portavoce della protesta dei lavoratori che dal 2014 aspettano che il governo mantenga la promessa di un aumento del 50% degli stipendi. Dovranno invece accontentarsi di uno scatto di appena 35 dollari, che non cambia tanto per chi guadagna in media 450 dinari al mese, poco più di 600 dollari.
Davvero pochi in un paese dove la vita costa, specialmente ad Amman. Lo
sciopero era stata la risposta del sindacato degli insegnanti – 100
mila iscritti, istituito nel 2011 sulla scia della primavera araba – al
divieto a protestare, lo scorso 5 settembre, davanti all’ufficio del
primo ministro ad Amman. La polizia quel giorno ha usato le maniere
forti per disperdere gli insegnanti, alcuni dei quali furono picchiati e
arrestati.
L’aumento del 50% degli stipendi fu approvato dall’ex primo
ministro Abdullah al Nosour. Nessun governo ha voluto dar
seguito alle sue promesse. Parlando a Roya TV il ministro della
pubblica istruzione Walid Maani ha spiegato che l’aumento chiesto dagli
insegnanti equivale a 157 milioni di dollari, denaro che il governo non
ha. La Giordania è in grande difficoltà finanziaria. L’anno
scorso un movimento di protesta per giorni bloccò Amman dopo
l’introduzione della nuova imposta sul reddito e per l’aumento dei
prezzi. A queste difficoltà si aggiunge il peso di milioni di
profughi palestinesi e di centinaia di migliaia di rifugiati siriani che
le agenzie dell’Onu riescono a sostenere solo in parte.
Gli stipendi dei dipendenti pubblici rappresentano gran parte del budget statale di 13 miliardi di dollari. Il
premier Razzaz è schiacciato tra le necessità di una popolazione che di
fatto sopravvive e i tagli alla spesa pubblica imposti dal Fondo
monetario internazionale per ridurre i 40 miliardi di dollari di debito
pubblico, pari al 95 per cento del Pil. Il primo ministro ora spera che la sospensione dello sciopero degli insegnanti metta fine ad altre rivendicazioni. Il
sindacato dei medici ha chiesto uno scatto tra il 30% e il 70% di una
serie di incentivi per i suoi iscritti. Quello degli ingegneri vuole un
aumento del 10% dello stipendio per i suoi membri impiegati nel settore
pubblico. «Il governo era in un vicolo cieco – spiega Ehab
Salameh, giornalista di Rai al-Youm – Se avesse ceduto alle richieste
degli insegnanti, avrebbe poi affrontato le rivendicazioni di altri
lavoratori pubblici».
Gli aiuti internazionali sono fondamentali. Gli
Stati Uniti negli ultimi 25 anni hanno versato nelle casse giordane
20,4 miliardi di dollari, ottenendo da Amman l’appoggio incondizionato
alle politiche americane (e di Israele) nella regione. Lo
scorso giugno ancora gli Usa assieme al Kuwait e all’Arabia Saudita
hanno trasferito 2,5 miliardi di dollari al regno di re Abdallah, di cui un miliardo nella banca centrale giordana. Generosità alla quale segue sempre un ritorno politico.
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