13/12/2019
Gran Bretagna - La Brexit decide il voto. Vince Johnson
Mentre scriviamo sono stati dichiarati i risultati di quasi tutti i seggi sui 650 totali, con i Conservatori che già abbondantemente hanno superato la soglia dei 326 per avere la maggioranza assoluta.
Il Labour, è poco sopra i 200 seggi conquistati, e ne perde una quarantina.
I nazionalisti scozzesi ne ottengono 48, cioè tredici in più delle precedenti elezioni, facendo man bassa di voti nella nazione settentrionale del Regno Unito, mentre i Liberal Democratici ne conquistano solo 11 perdendone ben dieci.
Il quinto partito dello scacchiera parlamentare britannica sono gli Unionisti del DUP, comunque in calo di due seggi rispetto ai 10 delle politiche precedenti.
L’Irlanda del Nord è quasi equamente divisa tra gli “Unionisti” e il Sinn Féin, che ottiene 6 seggi confermando il dato delle elezioni precedenti, con un seggo ad Alliance di Rachael Ferguson e due al SDLP.
Il “Brexit Party” di Nigel Farage – vincitore di fatto delle elezioni europee svoltesi quest’estate – aveva deciso di non contendere alcun seggio nelle più di 300 circoscrizioni in mano ai Conservatori, ma di contendere solo quelli laburisti, seguendo l’ipotesi caldeggiata da Trump di unire le forze favorevoli alla Brexit.
Questo prestigiatore della politica britannica, dal fiuto fine, ha di fatto portato acqua al mulino dei Conservatori e all’ipotesi di un maggiore allineamento post-Brexit del Regno Unito agli USA, facendo fuoco incrociato insieme ai conservatori sulla sfida laburista in un sistema elettorale come quello britannico, in cui vige l’uninominale secco.
Mettendo per così dire il “sale sulla piaga” dell’ambiguità del partito Laburista in merito alla Brexit.
Il Partito Conservatore esce vincitore dalle elezioni politiche che si sono tenute in Gran Bretagna.
I Tories hanno un’abbondante maggioranza assoluta, con una quarantina di deputati che assicura loro di poter governare il Paese con le proprie forze, senza dover chiedere l’appoggio, come nella precedente legislatura, agli “unionisti” nord-irlandesi del DUP. Nel 2017 infatti, ad un anno dal referendum sulla Brexit, i Tories avevano perso la maggioranza assoluta.
Questa volta gli “unionisti” si erano resi indisponibili all'ipotesi di un governo di coalizione con i Conservatori a causa di alcune parti salienti dell’accordo sulla Brexit raggiunto tra i Tories e la UE – era questo del resto, per gli unionisti nord-irlandesi l'unico punto di possibile convergenza con i laburisti.
Nelle alchimie delle possibili coalizioni i “nazionalisti scozzesi” si erano detti disponibili ad appoggiare un governo laburista se avesse indetto il “secondo referendum” sull’Indipendenza della Scozia, dopo che il primo era stato perso alcuni anni fa di stretta misura.
A parte alcuni lembi di terra, a Nord e a Sud della Scozia, e qualche isola Lib dem e Laburista, il loro successo “locale” è evidente e totale, e peserà comunque negli equilibri politici usciti dalle urne almeno sulla “questione scozzese”.
Qualsiasi “ipotesi” comunque è stata azzerata dai dati impietosi della vittoria Conservatrice.
Jo Swinson, leader dei Lib Dem perde il suo seggio a Dunbartonshire Est, in Scozia, a favore del SN, così come Nigel Dodds, leader degli Unionisti a Westminster, ha perso il suo (andato al Sinn Féin a Nord-Belfast), come a volere “sanzionare” ulteriormente la sconfitta delle due formazioni.
Viene colpita l’ipotesi di un “voto utile” anti-conservatore in funzione pro-remain in generale, ed in particolare una formazione come i Lib Lab, che dimezza i suoi voti dopo essersi proclamata la più intransigente propugnatrice del Remain...
Boris Johnson è quindi il grande vincitore di questa tornata elettorale, mentre Jeremy Corbyn esce sconfitto, con il “red wall” che ha ceduto nell’Inghilterra settentrionale e in altri territori, con i “seggi marginali” come Bishop Auckland – fondamentali nel decidere le sorti complessive delle elezioni – andati in mano ai Conservatori.
Alcuni seggi del “muro rosso” laburista, come Workington, Vale of Clwyd e Darlinton, passati ai Conservatori, sono il simbolo della sconfitta laburista e della efficace campagna elettorale dei conservatori, che in quelle zone ex-industriali ha puntato ad un target preciso: anziano, working-class e sostenitore del Leave.
Nonostante il suo ambizioso programma di riforme radicali, proprio il posizionamento sulla Brexit del Labour è stato probabilmente il maggiore fattore di handicap nei confronti del suo tradizionale bacino di working class.
Un altro, non meno importante, handicap è il passato del “New Labour”, che non ha infuso fiducia nella comunque netta discontinuità imposta da Corbyn rispetto all’era Blair.
Nella percezione di una parte delle classi subalterne si è radicata la coscienza che “Labour” e “Tories” erano diventate la stessa cosa, e che la Brexit fosse l’unica exit strategy valida per uscire dalla condizioni ottocentesche in cui sono ripiombate.
In un commosso discorso, Corbyn annuncia che non guiderà il Partito alle prossime elezioni ma che ne rimarrà alla testa durante il “processo di riflessione”.
“Guiderò il Partito durante questo periodo per assicurare che la discussione avvenga e per proiettarci verso il futuro”, ha detto il leader Laburista.
Una battaglia persa, quella dell’ex outsider del Partito Laburista, eletto leader 4 anni fa e che fin qui ha guidato un rinnovamento del Labour con una “sterzata a sinistra” del programma che sembra avere posto una pietra tombale sul periodo del “New Labour” di Tony Blair. Ma questo non è bastato, considerando lo strapotere mediatico di cui disponevano i Tories, intaccato solo in parte da una generosa campagna di strada degli attivisti del Labour.
La stagione del Labour di Blair, che ha portato solo delusioni nel cuore dell’elettorato laburista, e la posizione pro-remain del Labour sono state vere e proprie pietre d’inciampo per un’ipotesi di cambiamento politico e di uscita dal neo-liberalismo, proposta dalla dirigenza laburista con convinzione e generosità.
D’altro lato non sarà facile adesso per BJ assicurare che l’accordo sulla Brexit, su cui ora ha numeri certi per farlo votare, possa avere uno sbocco soddisfacente nella riconfigurazione dei rapporti con l’Unione. Così come sarà ancora più arduo dare risposte che siano – al di là delle chiacchiere elettorali – efficaci sul piano della disastrata situazione sociale se, grosso modo, continuerà con le ricette neo-liberiste e “svenderà” parte del Paese agli USA.
È comunque un duro colpo, certamente, perché anche in politica internazionale la politica conservatrice continuerà ad alimentare la “tendenza alla guerra” e l’allineamento alla politica degli USA in Medio Oriente, in particolare rispetto alla Palestina, alla guerra in Yemen e all’Iran.
Nonostante i risultati elettorali, “il futuro non è ancora stato scritto” e pensiamo che questa sconfitta momentanea delle forze progressiste, se ragionata, più che metabolizzata, possa condurre a un ulteriore passo in avanti alla più longeva formazione che rappresenta le classi subalterne nel Continente.
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