Al tempo dell’esecutivo giallo-verde vari
esponenti della galassia del centro-sinistra, da Leu al PD, criticarono
aspramente il governo per aver portato avanti una riforma fiscale che
andava a ridurre la progressività del sistema tributario italiano
facendo pagare meno imposte ai più ricchi. Verità indiscutibile, ma a ben vedere del tutto superficiale e strumentale,
sia per il pulpito da cui veniva la predica sia per la ristrettezza di
giudizio in merito alle caratteristiche complessive del sistema fiscale
italiano.
La pessima riforma fiscale Lega-5stelle che allargava
il regime forfettario alle partite IVA fino a 65.000 euro e poi, in
previsione, con un secondo scaglione al 20% fino a 100.000, era
infatti la punta di un iceberg enorme costruito in decenni di
stravolgimento delle imposte italiane e annichilimento del loro grado di
progressività. Un processo portato a compimento con dovizia da tutte le
parti politiche che oggi siedono in parlamento, molto prima e molto
oltre gli effetti del pur inaccettabile sistema forfettario per le
piccole partite IVA, che ha visto sottrarre alla progressività
dell’imposta enormi quote di redditi da capitale tramite numerosi
espedienti.
Prova ultima della totale inconsistenza e
strumentalità di quelle critiche di PD, Leu e anime varie del
centro-sinistra, è proprio la piena continuità con le linee precedenti
di politica tributaria seguita dall’attuale governo. Al margine della non approvazione del secondo scaglione della flat tax al 20%
per i redditi oltre i 65.000 euro annui e fino a 100.000, motivata
peraltro più che da motivi equitativi dal consueto richiamo ai vincoli
di bilancio, la linea di politica fiscale del Governo non rappresenta in
alcun modo un cambiamento di passo rispetto alla consolidata tendenza
pluridecennale. Chi insomma si scandalizzava per la “mini flat tax” di Salvini scomodando la Costituzione e schizofrenicamente rivendicava il merito di avere abbassato la già esistente tassa piatta per le grandi imprese, non sembra proprio avere in mente un sistema tributario ispirato a criteri diversi da quelli della destra liberista.
Il regime forfettario per le partite IVA,
di cui molto si è discusso negli ultimi mesi ed anni, è infatti
soltanto una goccia in un mare di eccezioni, iniquità e operazioni
regressive di cui il nostro sistema di tributi è affetto da molto tempo.
Nel merito specifico, il forfettario è un regime fiscale separato da
quello della tassazione ordinaria dei redditi delle persone fisiche, per
cui ai lavoratori autonomi si applica una tassazione ad aliquota
proporzionale sui loro guadagni, calcolati come una percentuale dei loro
ricavi con un coefficiente che varia da settore a settore
occupazionale. Il regime forfettario fino a 30.000 euro di ricavi fu
introdotto alcuni anni fa per tamponare la proliferazione delle ‘false
partite IVA’, ossia quei lavoratori che si palesano al fisco come
autonomi ma che di fatto si configurano, per mansioni e attività svolte,
come lavoratori dipendenti, nonché per proteggere quella galassia di
micro-imprenditoria a reddito basso proliferata con la crisi economica,
tenendo conto che il lavoratore autonomo paga un’elevata aliquota
contributiva per le prestazioni previdenziali interamente a suo carico
non esistendo un datore di lavoro riconosciuto formalmente come tale.
Con la scorsa Legge di Bilancio il
governo 5stelle-Lega aveva esteso il regime forfettario per le partite
IVA dai 30.000 ai 65.000 euro, applicando agli autonomi che rientrano in
questa categoria una vera e propria ‘flat tax’ al 15%. Non solo: si
prevedeva anche l’estensione, a partire dal 2020, del regime forfettario
fino a 100.000 euro con un’aliquota al 20% per la parte di reddito
eccedente i 65.000 euro. Tali soglie, molto più elevate della
precedente, di fatto snaturavano in modo evidente una misura nata a
favore delle micro partite IVA andando a ricomprendere fasce di reddito
ben più elevate e di fatto, almeno in parte, redditi da piccolo
capitale.
La seconda aliquota fino a 100.000, ai
sensi della finanziaria in via di approvazione, non entrerà, per
fortuna, in vigore. Resterà invece l’aliquota piatta fino a 65.000.
Questa l’unica novità rispetto alle previsioni precedenti. Se leghisti e
accoliti hanno visto nell’abolizione del secondo scalino fino a 100.000
un dietrofront nel percorso verso l’agognata vera flat tax e un insopportabile attacco al ceto medio,
e se il PD, dal lato ‘opposto’ si riempie la bocca di equità fiscale
del tutto a sproposito, ciò che in pochi vedono è che il sogno liberista
delle imposte ridotte al minimo per i capitalisti e in generale per i
più ricchi ha da tempo le sue fondamenta concrete costruite passo dopo
passo nel corso degli ultimi trent’anni con un decisivo contributo
proprio di coloro che mostravano apparente ripugnanza verso le idee
reaganiane di Salvini e compagnia.
Il regime forfettario è un tassello
relativamente marginale di un mosaico molto più vasto le cui tessere
sono state assemblate poco a poco, a partire dagli anni ’80 e ’90 del
secolo scorso adottando in politica tributaria una linea schiettamente
liberista sviluppata di pari passo con quel liberismo complessivo delle
politiche di bilancio (di entrata e di spesa) e più in generale delle
politiche economiche nel loro insieme. Mentre osserviamo da ormai
trent’anni una serie incessante di avanzi primari che
drenano risorse e reddito all’economia, sul fronte della tassazione non
si può che constatare il continuo processo di svuotamento del carattere
di progressività del fisco disegnato con la riforma del 1973/74 ispirata
al poi bistrattatissimo articolo 53 della Costituzione.
Con il tempo, la progressività è andata
via via depotenziandosi attraverso cinque tendenze che hanno segnato, e
segnano tuttora, l’evoluzione del fisco in Italia dagli anni '80/'90 ad
oggi.
1) L’IRPEF è passata da un sistema di 32 aliquote nel 1974 all’attuale
sistema di 5 aliquote. Le 32 aliquote del 1974, oltre ad essere
percentuali molto distanziate, coprivano fasce di reddito molto ampie.
Dopo anni di stravolgimenti,l’IRPEF è ormai un’imposta scarsamente progressiva,
che colpisce in modo molto pronunciato il ceto medio, mentre favorisce
fortemente i redditi alti e altissimi. Un’imposta che equipara un
reddito medio-alto ad un reddito milionario e che grava come un fardello
su chi percepisce un reddito medio, a tal punto che, ad oggi, circa 2/3
del gettito IRPEF viene da contribuenti 0-55.000 euro.
2) Si sono ampliate le eccezioni alla norma del cosiddetto ‘reddito
entrata’ per cui tutti i redditi di una persona dovrebbe cumularsi in
capo all’individuo costituendo reddito personale soggetto a tassazione
progressiva. La presenza del regime forfettario per le partite IVA fino a
determinate soglie, la tassazione agevolata (dal 2010) dei redditi da
affitto immobiliare, prima compresi nella base imponibile IRPEF, ora
soggetti ad aliquote sostitutive (cedolare secca proporzionale scesa di
recente al 12%); la tassazione dei redditi da attività finanziaria
(interessi, plusvalenze) tramite aliquote agevolate al 26% o 21%; la
presenza di una tassazione proporzionale degli utili delle società di
capitali al 24%, costituiscono gli esempi più lampanti di un sistema
volutamente frammentato dove l’imposta progressiva colpisce quasi
esclusivamente i redditi da lavoro prevedendo per i redditi da capitale
regimi separati e agevolati.
3) In particolare la riduzione della tassazione delle società di
capitali, passata in una trentina d’anni dal 50% all’attuale 24% di
aliquota IRES e il cambiamento di sistema nell’armonizzazione tra imposta sulla società e imposta sul socio
fanno sì che una massa gigantesca di redditi da capitale non rientra ad
oggi nella progressività delle imposte ed è tassata con aliquote
fortemente agevolate. Una parte consistente di percettori di elevati
redditi da capitale gode, inoltre, di una tassazione privilegiata sia
per via di un’imposta societaria proporzionale al 24%, sia per via delle
imposte cedolari secche (al 26% e al 21%) che colpiscono i dividendi,
le plusvalenze, gli interessi sui titoli e gli affitti di immobili.
4) I forti aumenti dell’aliquota IVA (partita al 12% ed arrivata al 22%
sui beni ordinari) hanno dato luogo ad un ribilanciamento del peso
specifico delle imposte indirette che crescono al cospetto di quelle
dirette. Sul piano distributivo, imposte come l’IVA hanno un impatto
fortemente regressivo: i poveri infatti consumano una percentuale di
reddito assai più alta dei ricchi, e tassare il consumo, quindi, implica
sottrarre quote percentuali di reddito ben più elevate dai poveri
piuttosto che dai ricchi.
5) Infine, vi è l’annoso tema dell’evasione e dell’elusione fiscale.
L’evasione ha chiare implicazioni distributive generali in quanto non
può essere praticata dai lavoratori dipendenti per via della presenza
del ruolo di sostituto d’imposto svolto dal datore di lavoro. L’aumento
delle pratiche elusive è invece legato alla massiccia delocalizzazione
di capitali in sedi fiscali privilegiate a seguito del processo di piena
liberalizzazione dei capitali avvenuto alla fine del secolo scorso.
La concomitanza di questi cinque orientamenti fa sì che ad
oggi il sistema tributario italiano sia sempre meno equo, sempre meno
progressivo e sempre più dipendente dal contributo della categoria dei
lavoratori: in Italia le imposte vengono pagate per la
stragrande maggioranza da dipendenti e pensionati e gravano in gran
parte sui redditi medio-bassi, medi o di poco superiori alla media,
mentre il carico fiscale sui redditi più alti ha beneficiato nel corso
degli anni più recenti di una continua riduzione.
Solo una generale revisione del sistema
tributario su base fortemente progressiva potrebbe avere delle chiare
implicazioni redistributive e favore della la classe lavoratrice nel suo
complesso. Da un lato, un fisco realmente progressivo assicurerebbe che
le fasce alte di reddito vengano tassate in una misura percentuale più
elevata rispetto alle fasce di reddito più basse; dall’altro, le risorse
reperite tramite la tassazione progressiva permetterebbero di
finanziare, per la parte non coperta da deficit, quei servizi per la
collettività di cui beneficiano principalmente le fasce di reddito più
basse.
Quale via seguire per favorire una drastica inversione di tendenza
rispetto al quadro tributario attuale? Un’efficace riforma tributaria
che possa restituire al sistema fiscale quella progressività e quella
funzione redistributiva da tempo compromessa, dovrebbe basarsi su tre
vie maestre.
1) Occorrerebbe ricondurre tutte le tipologie di reddito nell’alveo di
un’unica imposta progressiva eliminando tutti i regimi agevolati e, a
quel punto e contestualmente, aumentare drasticamente il grado di
progressività dell’imposta sui redditi. Tale aumento avrebbe la capacità
di operare una discriminazione dei redditi per censo ma anche per
classe sociale: colpire con aliquote molto elevate le fasce di reddito
elevatissime significherebbe di fatto colpire fortemente i redditi da
capitale.
2) Un ulteriore elemento potrebbe essere rappresentato
dall’introduzione di un’imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria
mobiliare e immobiliare. Senza dubbio una patrimoniale non deve essere
fatta ‘alla Monti’ (tassando le prime case) ma deve andare a colpire
soltanto i grandi patrimoni (immobiliari e finanziari) salvaguardando
invece il patrimonio di milioni di persone che detengono immobili come
prime case di abitazione, oppure i patrimoni finanziari frutto di anni
di faticosi risparmi da parte dei lavoratori e della classe media nel
suo insieme.
3) All’interno del mondo delle imposte indirette (come l’IVA), infine,
sarebbe opportuna una forte ricalibrazione delle aliquote sulla base del
grado di necessità dei beni di consumo. Stante il carattere
generalmente regressivo delle imposte indirette, vi è un modo per
calmierarlo e consiste nell’applicare aliquote IVA differenziate a
seconda della tipologia del bene di consumo tassando in modo più intenso
i consumi di fascia alta e in modo più moderato o persino detassando
del tutto i consumi di prima necessità.
Oltre ad avere un forte effetto di
ripristino di giustizia distributiva, un drastico aumento della
progressività delle imposte avrebbe un effetto positivo macroeconomico sui consumi:
avendo i più poveri e i redditi medi un’elevata propensione marginale
al consumo ed i più ricchi un’elevata propensione marginale al
risparmio, spostare quote di prelievo dai poveri ai ricchi implicherebbe
un subitaneo aumento dei consumi a discapito dei risparmi inerti e con
un’evidente effetto espansivo sulla domanda aggregata complessiva. In
un’economia ben lontana dall’aver raggiunto il pieno impiego un aumento
della domanda aggregata di beni e servizi implica un aumento del
prodotto, dell’occupazione e dei redditi.
Associato ad una necessaria ripresa della
spesa e degli investimenti pubblici, la via della redistribuzione
progressiva del reddito contribuirebbe ad uscire dalla crisi economica
che attanaglia il nostro e gli altri paesi europei da ormai più di un
decennio con alti tassi di disoccupazione. Infine, la lotta contro la
disoccupazione avrebbe con buone probabilità un effetto di ritorno sul conflitto distributivo:
minor disoccupazione, infatti, implica minor sostituibilità dei
lavoratori e dunque una maggior forza contrattuale nella determinazione
delle proprie condizioni di lavoro e sulle retribuzioni dirette e
indirette.
Ecco quindi che un sistema tributario
equo assume, oltre ai suoi effetti redistributivi immediati, una doppia
valenza macroeconomica fondamentale. In primis, il gettito fiscale
permette di finanziare la spesa di risorse pubbliche che contribuiscono
all’aumento della domanda aggregata: una funzione che di certo non va
vista come sostitutiva della spesa in deficit, ma ad essa complementare,
e che quindi va accompagnata alla battaglia tesa a recuperare i margini
di manovra fiscale ad oggi pressoché inesistenti nel contesto europeo.
In secondo luogo, un fisco progressivo permette una crescita dei consumi
e quindi rafforza gli effetti macroeconomici positivi della spesa
pubblica.
Un programma simile, tuttavia, richiede
una serie di condizioni istituzionali ad oggi inesistenti che implicano
quindi uno sguardo più ampio sull’architettura generale delle politiche
economiche degli Stati nel contesto europeo e internazionale. Assieme
ai vincoli di bilancio che limitano il ricorso alla spesa in deficit, vi
è un altro elemento cruciale che ingessa la flessibilità della politica
fiscale e di bilancio degli Stati: la libera circolazione di merci e soprattutto di capitali. In un contesto dove i capitali sono liberi di migrare da un paese ad un altro,
la possibilità di incidere in modo rilevante sulle caratteristiche di
un sistema tributario è assai ridotta. Un qualsiasi tentativo di
aumentare le aliquote marginali sui redditi più elevati e sui redditi da
capitale dovrebbe infatti fare fronte al rischio di delocalizzazione
massiccia di capitali verso paesi a fiscalità più agevolata con tutte le
conseguenze finanziarie e reali che ciò implicherebbe. Pertanto, una
riforma tributaria fortemente progressiva non appare compatibile con gli
attuali assetti istituzionali imposti dall’adesione ai trattati europei
e ai trattati di libero commercio internazionale. Solo una profonda
messa in discussione della libera circolazione dei capitali può rendere
possibile una linea di politica fiscale e di politica economica davvero
emancipativa e favorevole alle classi subalterne.
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