Al momento di scrivere, non è chiaro se, come annunciato dall’Eliseo, Baku e Erevan abbiano acconsentito davvero al cessate il fuoco (dalle ore 12 del 10 ottobre) nell’ennesimo scontro di un conflitto che – ora armato, ora “pacifico” – va avanti praticamente dal 1991 attorno alla questione del Nagorno-Karabakh.
Anche se, nel pomeriggio di venerdì, rispondendo all’appello di Vladimir Putin per sedersi al tavolo delle trattative, si sono incontrati a Mosca i Ministri degli esteri russo, azero e armeno – Sergej Lavrov, Džejkhun Bajramov e Zograb Mnatsakanjan – con ogni evidenza, la decisione finale non dipende completamente dalle due capitali caucasiche, quanto dai soggetti che stanno alle loro spalle: più da quelli che spingono per l’inasprirsi del conflitto, un po’ meno da quelli che hanno ogni interesse a evitare, quantomeno, una sua estensione al di là dei confini dell’ex Caucaso sovietico.
In particolare, quella più direttamente interessata a evitare ogni escalation è Teheran, i cui confini settentrionali toccano sia l’Azerbajdžan sia l’Armenia: il conflitto rischia infatti di coinvolgere la numerosissima popolazione di origini turche delle due province settentrionali iraniane: Azerbajdžan orientale (capoluogo Tabriz) e Azerbajdžan occidentale (capoluogo Urmia), cui Ankara non fa mistero di mirare.
Tabriz dista appena 150 km dalla Repubblica autonoma di Nakhičevan (enclave azera in territorio armeno: confina con la Turchia, ma non con l’Azerbajdžan) dove stanziano tuttora numerose truppe turche, rimaste dalle manovre congiunte turco-azere dell’agosto scorso. Nonostante l’aperto sostegno a Baku, Ankara si astiene però da un conflitto diretto con l’Armenia, non foss’altro perché, proprio alla frontiera con Nakhičevan, è dislocata la 102° base delle truppe di frontiera russe.
Tra l’altro, il presidente armeno Nikol Pašinjan ha fatto sapere che, nel corso di un colloquio telefonico con Vladimir Putin, è stata discussa la partecipazione al conflitto armeno-azero di “determinati raggruppamenti terroristici” e, a questo proposito, il portavoce presidenziale russo Dmitij Peskov ha detto che gli impegni della Russia nel quadro del Trattato per la sicurezza collettiva “non si estendono al Karabakh”; ma sembra che la presenza di terroristi internazionali, che Ankara fa affluire anche da Siria e Libia, potrebbe cambiare la situazione.
Un po’ più defilato sembra per ora rimanere Israele, cui peraltro uno scenario con Tabriz e Urmja sotto controllo turco offrirebbe maggiori possibilità nei confronti dell’Iran, tant’è che Tel Aviv, da inizi anni ’90, mantiene stretti rapporti con Baku.
E non è solo Pašinjan a dire che Baku non è già più in grado di assumere decisioni autonome e che, alla fine, l’Azerbajdžan sarà “inghiottito” da Ankara, che mira alle risorse energetiche azere.
Ruben Zargarjan, consigliere del Ministero degli esteri della Repubblica di Artsakh (Karabakh) ipotizza che Baku, muovendo guerra al Nagorno-Karabakh, abbia avviato un meccanismo che potrebbe infine condurre a un “Anschluss” turco dell’Azerbajdžan. “Consiglieri” turchi coordinano l’esercito azero e, dal 2016, alti ufficiali turchi detengono posizioni di rilievo al Ministero della difesa a Baku.
Inoltre, nota Zargarjan, la mobilitazione in prima linea dei popoli autoctoni dell’Azerbaigian – lezgini, talyši, avartsi, tsakhuri, tati (alcuni di essi, di etnia persiana) – mira a dissanguare quei popoli che potrebbero opporre resistenza ai piani turchi.
Indicativo che, dopo la dichiarazione dei presidenti russo, USA e francese – paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE – non sia stato il presidente azero Il’kham Aliev a rispondere picche, bensì Erdogan, ordinando a Aliev di continuare le ostilità. E, alla fine, i terroristi agli ordini di Ankara potrebbero venir usati per rimuovere lo stesso Aliev e il suo clan, di origine curda, che non godono della piena fiducia di Erdogan.
D’altra parte, gli stessi terroristi, conclude Zargarjan, “odiano gli sciiti più dei cristiani e degli ebrei” e in Azerbajdžan vive un gran numero di sciiti, tanto che si sarebbero già verificati scontri tra azeri e mercenari filo-turchi.
Ora, pur se una “vittoria” armena viene data per probabile, ecco che l’analista russo Aleksandr Khaldej su iarex.ru prende in esame l’ipotesi che il Nagorno-Karabakh cada in mano azera: una variante che egli considera, al momento, non così remota, anche alla luce del tipo di guerra condotta da Baku, mirante a esaurire le forze armene, colpendole a distanza con artiglierie e droni e stringendo, lentamente ma progressivamente, l’anello attorno a esse e occupando i centri abitati dell’Artsakh.
Dunque, dice Khaldej, con l’ingresso degli azeri in Karabakh, si avrebbero una fuga in massa della popolazione armena e massacri di civili. A quel punto, Nikol Pašinjan potrebbe colpire l’Azerbajdžan con missili “Iskander” (non si deciderebbe mai a colpire la Turchia, membro NATO) ma sarebbe più probabile per lui uno scenario alla Miloševič o alla Saddam Hussein.
La vittoria azera porterebbe all’introduzione di forze di pace ONU in Karabakh, per scongiurare ulteriori massacri, ma, secondo il meccanismo sperimentato in Kosovo, gli armeni rimasti subirebbero una pulizia etnica sotto la supervisione dei caschi blu. Poi, colpo di stato a Erevan; Pašinjan rovesciato; collasso economico; esodo degli armeni verso la Russia, ma più probabilmente verso Europa o Stati Uniti.
Quando Turchia, Azerbajdžan e Armenia si saranno indebolite al punto giusto, arriverà il momento del “mantenimento della pace” del Caucaso da parte USA: “Erdogan e Aliev stanno cavando le castagne dal fuoco” per altri. Ecco che arriveranno le forze USA, sotto auspici NATO o ONU e il controllo sul confine iraniano non verrà ceduto né a Baku, né ad Ankara.
Poi, sia che rimanga Il’kham Aliev, o che venga sostituito, si avranno basi turche in territorio azero, in competizione con quelle yankee e Aliev sarà il “vassallo di un vassallo”: riceverà istruzioni su quanto obbedire a Ankara e quanto a Washington, che metterà sotto controllo tutte le fonti azere di petrolio e gas, i porti e gli oleodotti del Caspio. Così, l’Europa riceverà il gas azero alle condizioni statunitensi e l’Iran avrà un altro focolaio di minacce ai confini settentrionali.
Inoltre, dato che la caduta dell’Armenia avverrà in seguito alla caduta del Nagorno-Karabakh e non per un attacco militare diretto, la Russia non avrà moventi per un intervento militare nel quadro del Trattato di sicurezza collettiva.
Ankara chiederà la spartizione dell’Armenia, ma USA e Francia non lo permetteranno, dato che hanno bisogno di un contrappeso alla Turchia nel Caucaso. Esiste una sola possibilità di evitare un simile scenario, conclude Khaldej: il riconoscimento del Karabakh come territorio armeno, con l’estensione a esso del Trattato di sicurezza collettiva.
In definitiva, se è chiaro che alla base del conflitto armeno-azero attorno alla questione del Karabakh ci siano sia gli interessi delle borghesie locali, sia quelli di soggetti esterni, alcuni dei quali apertamente coinvolti, altri in attesa dell’evolversi della situazione, non pare fuori luogo ricordare come cento anni fa, il 4 dicembre 1920, Stalin scrivesse sulla Pravda che solamente “il potere sovietico ha portato la pace in Armenia”, dopo che “la politica distruttiva dei dašnaki (nota: era il partito di governo della Repubblica d’Armenia nel 1918-1920, che continuò poi attività antisovietica all’estero e, durante la guerra, collaborò in Germania coi nazisti) agenti dell’Intesa, aveva condotto il Paese all’anarchia e alla povertà”.
Poi, il 1 dicembre, “l’Azerbajdžan sovietico rinuncia volontariamente alle province contese e dichiara il trasferimento di Zangezur, Nakhičevan e Nagorno-Karabakh all’Armenia sovietica. Il 2 dicembre, compagno Ordžonikidze informa che il governo dei dašnaki in Èrivan (l’attuale Erevan) era stato cacciato e le truppe armene si mettevano a disposizione del Comitato Rivoluzionario. La secolare inimicizia tra l’Armenia e i musulmani circostanti è stata risolta d’un colpo, con l’instaurazione della fraterna solidarietà tra i lavoratori di Armenia, Turchia e Azerbajdžan”.
E tre anni più tardi, ancora Stalin affermava che il “fattore che ostacola l’unificazione delle repubbliche in un’unica unione è il nazionalismo nelle singole repubbliche... La NEP e il capitale privato a essa associato nutrono, coltivano il nazionalismo georgiano, azero, uzbeko, ecc.”; lo sciovinismo “mina l’uguaglianza delle nazionalità sulla base della quale è costruito il potere sovietico … La Transcaucasia fin dai primi tempi fu un’arena di massacri e di litigi, e poi, sotto il governo menscevico e i dašnaki, un’arena di guerre: la guerra georgiano-armena… massacri in Azerbajdžan, massacri di tatari per mano armena a Zangezur, massacri di armeni per mano tatara in Nakhičevan”; tutto ciò, “prima della liberazione dell’Armenia e della Georgia dal giogo dell’imperialismo”.
Ma poi vennero il 1991 e il 1993 a Mosca, e poi vennero le “rivoluzioni colorate” a Tbilisi, Baku, Erevan...
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