Dopo oltre un mese di combattimenti tra le montagne del
Caucaso
costati almeno cinquemila morti tra militari e civili, la guerra del Karabakh è
arrivata ad una svolta. Duemila uomini delle forze armate delle Federazione
Russa verranno schierati lungo la linea di contatto tra le forze armene
dell’Artsakh e quelle azere. Gli accordi firmati nella tarda serata del 9
novembre non definiscono lo status giuridico dell’autoproclamata repubblica
dell’Artsakh né i dettagli del suo rapporto con l’Azerbaigian, ma nei fatti sembrano trasformare l’Artsakh in una regione armena sotto
protezione russa.
L’accordo non manca di garantire la continuità territoriale dell’Artsakh con
il territorio armeno con un corridoio di circa 5 km sotto controllo russo. Di
contro, l’Armenia
dovrà impegnarsi a garantire, sempre sotto tutela russa, i collegamenti
terrestri tra l’Azerbaigian e l’exclave azera del Nakhchivan (Naxçıvan),
stretta tra Turchia, Iran ed Armenia. La forza di interposizione avrà un
mandato operativo di cinque anni che in mancanza di ulteriori accordi sarà
rinnovato automaticamente per altri cinque anni alla scadenza.
Ufficialmente la Federazione Russa
aveva escluso
la possibilità di un intervento diretto nel conflitto armeno-azero: nonostante
ciò, l’ipotesi di contingente di pace schierato come forza d’interposizione
tra forze armene ed azere
era stata avanzata più volte
dal primo ministro armeno
Nikol Pashinyan.
Gli accordi implicano per l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh una
significativa perdita di territorio: una parte di questo è stata conquistata
militarmente dalle forze azere, mentre il restante territorio – stando agli
accordi – dovrebbe essere ceduto dalle forze armene alle forze azere nelle
prossime settimane. Per gli armeni la perdita è pesantissima anche da un punto
di vista simbolico: gran parte dei territori già persi e quelli che dovranno
essere ceduti all’Azerbaigian erano stati infatti conquistati in combattimento
nel 1993.
Per le forze armene l’accordo potrebbe aver scongiurato una disfatta
verosimilmente ben peggiore: quella che avrebbe potuto verificarsi con
l’assedio da parte delle forze azere della capitale-capoluogo
Stepanakert (in
armeno)/Khankendi (in azero). Nel timore di un probabile assedio della città
nelle scorse settimane migliaia di armeni avevano lasciato la regione contesa
per rifugiarsi verso
Erevan.
Superiori per numero di uomini, di mezzi e per dotazioni tecnologiche, le
forze azere hanno guadagnato sul campo un vantaggio evidente nei combattimenti
con le forze armene, costrette alla ritirata da più direzioni. Poco prima
della firma dell’accordo il ministero della difesa azero aveva dato notizia
della presa di Shushi (Şuşa), seconda città dell’autoproclamata Repubblica del
Nagorno-Karabakh
‒ per giunta a pochissimi chilometri dalla capitale ‒ oltre che della
conquista di ampie porzioni di territorio. L’utilizzo dei droni ‒ di
fabbricazione turca e israeliana – e dell’artiglieria con sistemi di
puntamento elettronico sembra aver giocato sul piano militare un ruolo molto
importante, forse addirittura decisivo.
Le reazioni alla firma dell’accordo sono state speculari: in Azerbaigian il
raggiungimento dell’accordo è stato accolto come un trionfo, descritto dal
presidente Aliev come «una capitolazione armena». In Armenia l’opposizione ha
chiesto le dimissioni del primo ministro Pashinyan, mentre la casa di
quest’ultimo è stata presa d’assalto dalla folla. I manifestanti hanno chiesto
ai militari di assumere i pieni poteri. Il katholicos armeno Karekin II ha
fatto appello alla calma e all’unità nazionale.
Nonostante l’entusiasmo di Baku e la frustrazione di Erevan, la vera
vincitrice di questi accordi è Mosca. L’azione diplomatica della Federazione
Russa ha impedito che la Turchia capitalizzasse in sede di trattativa il
sostegno offerto a Baku. Se
Vladimir Putin
si era detto disponibile a includere la Turchia tra i Paesi con la
responsabilità di mediare un accordo di pace tra Armenia ed Azerbaigian, la
rapidità del Cremlino ha in buona parte neutralizzato le ambizioni di Ankara.
La possibilità, menzionata dal presidente azero Aliev, che un altro
contingente d’interposizione composto da forze turche venga schierato sul lato
azero è stata negata
dal portavoce del presidente russo
Dmitrij Peskov: «Posso commentare in questo modo: a questo proposito nel testo
del comunicato non c’è una sola parola, questa possibilità non è stata
discussa dalle tre parti [Fed. Russa, Armenia e Azerbaigian] e il
dispiegamento di soldati turchi nel Karabakh non è stato concordato». La portavoce del ministero degli Esteri della Federazione Russa Maria
Zakharova ha confermato invece che in territorio azero sarà reso operativo un
centro militare congiunto russo-turco per vigilare la tenuta del cessate il
fuoco.
Con questo quadro i risultati ottenuti dalla Turchia appaiono modesti:
nonostante ciò è comunque probabile che le autorità turche presentino la
conclusione dell’accordo come una vittoria, magari per distogliere il Paese
dai problemi economici con cui questo si trova a fare i conti. Del resto, in
un modo non dissimile a ciò che accade in Azerbaigian, Paese colpito in modo
significativo dal crollo del prezzo degli idrocarburi conseguente alla
pandemia in corso.
La consistenza di quest’ultimo accordo appare incomparabilmente maggiore di
quella dei precedenti. Se una vera tregua sembra questa volta vicina, una vera
pace tra i due Paesi resta lontana così come un orizzonte culturale e
identitario che possa disinnescare le pericolose tendenze al suprematismo
etnico e religioso presenti nella regione.
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