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11/11/2020

Non scaricate le colpe sui medici di base!

Con il giuramento di Ippocrate, un medico giura di “prestare soccorso nei casi d’urgenza e di mettersi a disposizione dell’Autorità competente, in caso di pubblica calamità”. Per questo, riceve una certa somma di denaro per ogni paziente che assiste, assicurando cure tempestive, assistenza domiciliare o telefonica, ecc.

La nuova inchiesta di Milena Gabanelli e Simona Ravizza fa i conti in tasca ai medici di base, rischiando di dare un’immagine di “incompetenza” di coloro che in questi mesi, pur delegati dal Governo a prestare assistenza, segnalare casi sospetti, eseguire test rapidi, non avrebbero fatto abbastanza.

D’altronde con i DPI dispensati con il contagocce, mancanza di coordinamento, e l’assenza totale di un piano di gestione della pandemia, sembra più una caccia ai capri espiatori che altro.

Ma la parte più “interessante” dell’inchiesta di Gabanelli e Ravizza sono i dati che spiegano, almeno in parte, la situazione che si è venuta a creare.

Per attrezzarsi alla pandemia, invece di incentivare la medicina di base, fornendo mezzi, DPI, competenze e personale formato, governo e regioni hanno investito più di 700 milioni di euro per creare le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), centri speciali che avrebbero dovuto magicamente sostituirsi ai medici di base per l’assistenza domiciliare.

Ma solo metà delle USCA previste sono state effettivamente attivate. E a distanza di 8 mesi ci si è accorti, come spesso succede, che è stato creato il contenitore senza pensare al contenuto; ossia senza prevedere l’assunzione di personale formato per riempire e rendere operativi questi centri. D’altronde, per costruire un medico bravo serve tanto studio, dedizione e passione, ma servono anche soldi, sostegno alla formazione, e assunzioni stabili.

L’inchiesta, quasi involontariamente, rivela infatti come la medicina di base sia stata disincentivata negli anni in maniera eclatante, attraverso il definanziamento progressivo alla formazione dei medici destinati a questo ruolo.

Se l’Italia si trova con un calo drastico dei medici di base, professionisti per altro sempre più prossima alla pensione (il che, con un virus in giro che colpisce duramente soprattutto gli over 50, non è proprio rassicurante...), è perché da anni si è preferito investire su altre strutture e specializzazioni, anziché sulla formazione di nuovi medici di base!

D’altronde, se la borsa di formazione triennale per un neolaureato garantisce a malapena la sopravvivenza (si parla di 11mila euro l’anno, che tolti Irpef e contributi si riducono a meno di 800 euro al mese quando va bene!), contro i 26mila per formarsi in un’altra specialità medica, non è difficile immaginare quale direzione prenderanno i giovani laureati ancora carichi di passione ma comunque desiderosi di sopravvivere.

Non che l’investimento nella sanità sia mai cresciuto (anzi, ricordiamo i 37 miliardi scippati solo negli ultimi 10 anni!), ma l’investimento nella medicina di base è uguale al 1989, anno in cui le ecografie neonatali e le risonanze magnetiche erano ancora quasi una novità, in cui ancora non si conosceva l’importanza di programmi di screening come la mammografia o il pap test; anno in cui, con la fine della guerra fredda, si smette di pensare al benessere di tutti e si impone definitivamente la lunga storia delle privatizzazioni.

Se alla fine (o nel corso) della pandemia si vorrà inchiodare qualcuno alle proprie responsabilità, forse è il caso di sottolineare per bene che se si bloccano i concorsi per le assunzioni di nuovi medici, e anche quelli per la loro formazione, la responsabilità è di chi sta non-gestendo questa crisi, o sceglie di gestirla pensando ai contenitori più che ai contenuti, con una lungimiranza che a malapena supera una stagione.

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