Mentre scriviamo non sono ancora ultimati i conteggi dei voti. Joe Biden è in testa in Nevada ed Arizona, e minaccia di annullare il vantaggio di Trump in Pennsylvania e Georgia.
Con quasi il 90% dei voti scrutinati in Nevada, lo sfidante democratico stacca l’attuale presidente dello 0,9%, mentre in Arizona, con circa le stesse schede contate, è avanti di un punto e mezzo percentuale.
In Pennsylvania ed in Georgia ormai siamo al “testa a testa”.
Nel fondamentale Stato del Midwest che assegna venti elettori e che, se fosse vinto da Biden, gli assicurerebbe da solo la vittoria, mancano solo il 5% delle schede e Trump è avanti appena dello 0,3% – poco più di 22mila voti – mentre in Georgia (dove mancano solo il 2% delle schede da verificare) lo scarto è ancora minore: Trump è avanti dello 0,1%: appena 1.709 voti!
Al di là della vittoria nel voto popolare, per Biden, anche questa elezione si giocherà su una manciata di voti in un ridotto numero di Stati in bilico. Nel 2016 si “giocarono” su tre Stati del Midwest, e vennero vinte da Trump per 80 mila voti complessivamente.
Vanno fatte da subito alcune considerazioni interpretative del voto, anche se l’esito finale e la sua accettazione o meno da parte di Trump e dei suoi sostenitori rimangono molto incerti.
Il Partito Repubblicano è ormai un working class party multirazziale, che in questi anni ha guadagnato consensi, aumentando infatti il proprio bacino elettorale di circa 5 milioni di voti rispetto al 2016.
Il Partito democratico ha, sì, l’appoggio di una parte rilevante del movimento operaio organizzato residuale e delle minoranze etniche – in particolare gli afro-americani – ma non è riuscito a riconquistare un consenso schiacciante, per esempio, tra le fasce popolari degli Stati in bilico della rust belt (la “cintura della ruggine”, un tempo animata dall’industria metalmeccanica), come certifica la vittoria risicata in Michigan e Wisconsin ed il “testa a testa” in Pennsylvania.
Questa sconfitta evidente si è consumata nonostante la “potenza di fuoco” utilizzata nella pubblicità elettorale, l’appoggio dei media mainstream, e per quanto riguarda le donazioni il supporto della upper-middle class statunitense, oltre a veri e propri magnati dell’economia. Non da ultima: una disastrosa gestione della pandemia da parte dell’attuale presidente.
Questa mancata inversione di tendenza è poi marcata con un atteggiamento più netto presso una parte dell’elettorato di Biden nel volere effettuare più una scelta “contro Trump” che una scelta “per” lo sfidante democratico.
Parafrasando le parole di Cornell West, per la “sinistra radicale” si trattava di “sconfiggere Trump, per sfidare Biden” dentro la gabbia di un bipolarismo blindato, in cui anche stavolta tertium non datur.
La rielezione della “pattuglia” di deputate della sinistra progressista è senz’altro un dato positivo, ma risulta una ben magra consolazione rispetto al mancato assalto di Sanders all’establishment democratico. Una sfida che l’ha visto sconfitto per due volte.
Se poi si guarda al profilo di alcune elette ed eletti tra le file repubblicane, vengono i brividi o si pensa di essere di fronte al casting per il remake di “Alba Rossa”...
Ciò che appare chiara è la natura di un Paese profondamente diviso su una serie di questioni chiave, le cui visioni antagoniste entrano gioco-forza in conflitto tra di loro: la prima è senz’altro la percezione della pericolosità della pandemia.
Nodi analoghi sono il ruolo da attribuire allo sviluppo economico – se debba prevalere o meno sulla tutela della salute – e ancora sul combattere od accettare il razzismo strutturale negli States, su cui c’è una polarizzazione impressionante. Questione di valori fondanti, insomma, non solo o non tanto di “programma elettorale”.
Su queste e su molte altre visioni le due americhe stanno venendo sempre più ai ferri corti, perché non si parla di “opinioni differenti” in una relativa pace sociale, ma di visioni contrastanti dentro una società che sta implodendo in un sistema fallito, dove lo scontro è fratricida e orizzontale: si risolve, cioè, in una guerra civile strisciante.
Mentre il “radicalismo” di Trump è all’offensiva e rigenera l’antico fascismo americano, il “centrismo” dei democratici è inadeguato da tutti i punti di vista e si ritroverà ben presto probabilmente tra due fuochi: da un lato il movimento dall’altra le milizie dell’alt-right.
In sintesi: le elezioni non hanno risolto i problemi degli Stati Uniti, li hanno aggravati.
Ci sembra che a dominare il campo sia la questione sociale – che rimane sempre un po’ marginale nelle analisi – sia in termini di garanzie acquisite, sia di quelle prefigurabili, al di là della percezione delle rispettive basi elettorali.
La paura di perdere ulteriormente uno status fatto di garanzie sembra indirizzare il voto in un momento di crisi economica tra coloro che votano. Tutti hanno qualcosa da perdere, pochi hanno qualcosa da guadagnare, potremmo dire.
Non c’è veramente alcuna visione del futuro, nessun orizzonte. E questo appare come il segno più evidente di un insuperabile crepuscolo.
Alle orecchie degli sprovveduti commentatori nostrani la cosa potrà sembrare assurda, ma la performance elettorale repubblicana è migliorata anche tra le due principali “minoranze etniche” del Paese; cioè tra i latinos dove Trump ha preso circa 1/3 dei loro voti, e tra gli afro-americani in cui ha capitalizzato il 12%. Anche 1/3 degli asiatico-americani ha votato per lui.
Trump non esce insomma di scena, anzi probabilmente la dominerà almeno fino alle prossime presidenziali, in discontinuità con tutti i Presidenti usciti sconfitti dalle urne – a parte forse Edgar Hoover – disponendo ora di un capitale politico centrato su un “culto della personalità” che non ammette critiche, e quindi per nulla in crisi presso lo zoccolo duro dei suoi elettori.
Cerchiamo di vedere un poco più nel dettaglio l’identikit dell’elettore/trice repubblicano/a e democratico/a medio/a con l’aiuto di una ricerca della Edison Research for National Election Pool, condotta su un campione di più 15.500 intervistati.
Sono rilevazioni da “prendere con le pinze” ma che indicano la collocazione e la percezione dei votanti, e che cerchiamo di commentare integrandoli o “rettificandoli” in parte con altri dati.
Innanzitutto l’elettore medio di Trump è maschio – ma solo l’1% in più rispetto a Biden – mentre lo scarto è più accentuato, ma non abissale, tra le donne, il 13%.
È bianco – lo scarto con Biden è del 15% – e anziano. Solo 1/3 circa degli intervistati tra 18 ed i 29 anni dice di avere votato per Trump.
Chi non ha una istruzione universitaria ha votato sia per Biden che per Trump, ma chi è andato al College ha prediletto decisamente il candidato democratico, con uno scarto di 13 punti percentuali.
Le persone non sposate prediligono Biden, e – cosa non scontata – anche 1/3 delle persone che si definiscono gay, lesbiche, bisessuali o transgender (il 7% di chi è andato a votare) ha scelto Trump.
Orange Man ha fatto il pienone tra gli Evangelici – le congregazioni evangeliche afro-americane sostenevano Biden – sfiorando l’80% dei consensi e sono poco più di un quinto dei votanti. Consenso frutto di precise scelte non solo propagandistiche, come l’avere assicurato alla Corte Suprema una maggioranza schiacciante per i conservatori, di cui l’ultima arrivata è una cattolica rigorista ferocemente anti-abortista.
Nelle due principali fasce di reddito – cioè sotto e sopra i 50 mila dollari, circa ¾ degli elettori – Biden vince con un differenziale rispettivamente tra il 15 ed il 13 per cento, mentre Trump vince tra chi percepisce più di 100.000 dollari di reddito familiare (54 contro 43). E questo nonostante le donazioni andate a Biden siano state molto maggiori tra i ceti più agiati, con il finanziamento da parte di un nutrito numero PACS – lobby economiche – nei confronti di Biden.
In generale chi ha votato Trump afferma di avere visto la propria condizione economica migliorata in questi anni – poco sotto i ¾ – nella stessa proporzione in cui chi ha votato Biden dice di averla vista peggiorare.
Se tra i lavoratori full-time la proporzione di preferenze per l’uno o per l’altro è minima, sono molto di più i lavoratori precari che hanno votato per Biden: 58% contro 41%.
C’è uno scarto del 17% a favore di Biden tra gli iscritti al sindacato – storico bastione democratico che costituisce circa 1/5 degli elettori – mentre tra i “non iscritti” le preferenze sostanzialmente si equivalgono.
L’elettore medio democratico è quello che abita negli Stati sulle due Coste, e tendenzialmente nei centri urbani medio-grandi. Mentre quello di Trump è del Sud o del Mid-West e vive in centri minori o nelle zone rurali, dove la distanza tra i due è ben del 10%; segno che l’“America Profonda” è orgogliosamente trumpiana.
Nove elettori di Biden su dieci hanno detto che la giustizia razziale è tra le cinque ragioni del loro voto, seguita dalla pandemia (più di otto su 10) e dalla politica sanitaria (più di uno su sei).
È chiaro che Biden raccoglie, nonostante la sua “tiepidezza”, la forte spinta anti-razzista uscita dalle mobilitazioni successive alla morte di George Floyd – sono state l’evento politico di massa più partecipato e diffuso della storia nord-americana del dopo-guerra – le preoccupazioni per la disastrosa situazione pandemica che ha colpito in particolare durante la prima ondata afro-americani e latinos, nonché le paure sugli effetti dell’attacco frontale lanciato “da destra” contro il sistema sanitario, basato comunque sulle assicurazioni sanitarie private, promosso da Obama.
Per chi ha scelto Trump, l’economia è tra la prime ragioni di voto per più di otto elettori su dieci, seguita dal “crimine e la sicurezza” (sette su dieci circa), e tre su dieci sulle politiche di cura sanitaria (!).
14 elettori di Trump su 100, poi, hanno votato per lui per l’emergenza sanitaria e meno di un decimo per la giustizia razziale, segno che non sono le principali motivazioni del suo elettorato nonostante il razzismo strutturale – o forse proprio a causa di questo – ed in dose un poco minore la pandemia. La stragrande maggioranza dei votanti di Trump ha infatti un giudizio negativo su Black Lives Matter.
L’unità del Paese sta molto più a cuore agli elettori di Biden, mentre la necessità di avere un uomo forte prevale tra i “trumpiani”.
I rispettivi elettorati hanno un giudizio netto rispetto ai candidati riguardo alla gestione dell’economia e quella della pandemia, per cui la loro preferenza è data a chi secondo loro le gestisce meglio. Ma nella bilancia tra tutela dell’economia e quella della salute i repubblicani insistono sulla prima, per poco meno di 4/5, mentre i secondi all’80% pensano che è più importante contenere il Coronavirus anche se danneggia l’economia.
Al netto delle proteste che potrà suscitare, una delle poche cose su cui Biden non avrebbe le mani legate, in caso di elezione, è una serie di disposizioni federali in materia sanitaria, considerato tra l’altro che l’argomento principale dei suoi messaggi pubblicitari riguardava proprio il Coronavirus.
Nel suo campo, sono più quelli che l’hanno votato “contro Trump” di quanti hanno votato l’attuale presidente “contro Biden” (67 contro 31).
Questo dato la dice molto lunga sull’appeal di “Sleepy Joe” tra i suoi, che l’hanno votato per così dire turandosi il naso. Non proprio una solida base di consenso, quindi.
Su alcune questioni di fondo il voto è polarizzato: il riscaldamento globale che è una preoccupazione rilevante per ¾ dei democratici, non lo è affatto per più dell’80% dei repubblicani. Il 72% di chi ha votato Biden ritiene che l’interruzione di gravidanza debba essere essere legale, contro i ¾ di chi ha votato Trump, che vorrebbe vietarla.
Orientamenti estremamente differenti che saranno un terreno di contesa di non poco conto negli anni a venire, considerata da un lato la spinta verso un “green new deal” – al centro della narrazione di Biden e fortemente spinto dalla “sinistra” della compagine democratica – e la volontà dello “zoccolo duro” trumpiano di mettere in discussione il diritto di autodeterminazione della donna, grazie ora al possibile apporto della Corte Suprema, insieme a tutte una serie di limitazioni alla famiglia “non tradizionale” e garanzie giuridiche dell’America dagli anni Sessanta in poi.
Difficile pensare, con queste premesse, che la stabilità politica sarà una caratteristica statunitense per i tempi a venire…
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