La questione dello status di Taiwan è diventata ormai l’elemento di scontro più caldo e pericoloso tra la Cina da una parte e gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati dall’altra. Gli episodi che fanno salire le tensioni si stanno moltiplicando negli ultimi mesi e il più recente ha nuovamente scatenato una campagna mediatica fatta di denunce nei confronti della presunta aggressività della Repubblica Popolare. La realtà, anche per quanto riguarda le incursioni aeree cinesi del fine settimana, è tuttavia meno netta di quanto si cerchi di fare apparire e, soprattutto, le principali responsabilità della pericolosa escalation in atto sono da ricercare più a Washington e a Taipei che a Pechino.
Entro questi limiti, è del tutto evidente che le manovre aeree condotte tra venerdì e domenica rappresentano un messaggio chiarissimo al governo taiwanese e, in parallelo, servono ad alimentare lo spirito nazionalista cinese di fronte all’intensificazione delle pressioni internazionali. È ugualmente innegabile che le iniziative cinesi, a loro volta in grado di amplificare le ostilità, sono la risposta a un clima estremamente conflittuale creato in primo luogo dagli USA per avanzare i propri obiettivi strategici nel quadro della crescente rivalità con Pechino.
La festa nazionale cinese nella giornata di venerdì è stata così occasione per condurre “esercitazioni” aeree in zone geografiche sensibili per le autorità di Taipei, anche se, come si dirà in seguito, al di fuori dello “spazio aereo” dell’isola. Lo stesso ministero della Difesa di Taiwan ha spiegato che venerdì i velivoli militari cinesi dispiegati a questo scopo sono stati 38, a cui se ne sono aggiunti 39 sabato, 16 domenica e oltre 50 lunedì. In un bellicoso editoriale, il sito cinese Global Times ha spiegato che le operazioni di venerdì e sabato hanno frantumato dal punto di vista numerico il record precedente di esercitazioni aeree in quest’area, aggiungendo senza molte reticenze che le operazioni sono state una “chiara e inequivocabile affermazione della sovranità della Cina sull’isola” di Taiwan.
I mezzi impiegati da Pechino hanno incluso i bombardieri H-6, in grado di trasportare testate nucleari, e jet anti-sommergibile. Nonostante la retorica particolarmente accentuata e il massiccio dispiegamento di velivoli, dal punto di vista formale quanto accaduto nel fine settimana al largo di Taiwan non è qualitativamente diverso dalle normali operazioni che la Cina conduce in pratica ogni giorno in quest’area. Ciò si deduce da un dettaglio tutt’altro che trascurabile degli eventi dei giorni scorsi, relativo all’area in cui si sono tenute le “esercitazioni” cinesi.
Mentre alcuni media non si sono nemmeno curati di precisarlo, altri come il New York Times o Al Jazeera, ma anche il ministero della Difesa taiwanese, hanno spiegato che le “intrusioni” cinesi non sono avvenute nello “spazio di difesa aerea” (ADZ) dell’isola, bensì nella cosiddetta “zona di identificazione di difesa aerea” (ADIZ). I due concetti sono ben distinti e, in particolare nel caso di Taiwan, parlare dell’uno o dell’altro spazio aereo implica conclusioni molto diverse.
L’ADIZ è un’area che si estende al di fuori dello spazio aereo di un determinato paese e costituisce un’asserzione unilaterale non definita né regolata da nessun trattato o organo internazionale. In sostanza, molti paesi fissano un’ADIZ allo scopo di garantirsi del tempo per identificare un’eventuale minaccia aerea contro la propria sicurezza. In quest’area, cioè, le autorità si auto-assegnano il diritto di chiedere ai velivoli che vi entrano di identificarsi e le ragioni del loro transito.
La “zona di identificazione di difesa aerea” di Taiwan risale agli anni Cinquanta del secolo scorso ed era stata delimitata con l’assistenza americana. Gli allarmi suonati in questi giorni a Washington, a Taipei e sui giornali ufficiali devono essere in buona parte ridimensionati se si considera che l’ADIZ taiwanese arriva a includere, oltre a tutto lo stretto di Taiwan e le isole contese di Pratas, addirittura alcune parti delle province di Fujian, Zhejiang e Jiangxi sul territorio della madrepatria cinese. In altre parole, se un jet dell’aviazione militare cinese sorvola questa porzione di territorio del proprio paese, Taiwan potrebbe in teoria denunciare la violazione della propria “zona di identificazione di difesa aerea”.
Il governo americano non ha comunque perso occasione per andare nuovamente all’attacco contro Pechino, ricalcando un copione ben collaudato che trasforma le provocazioni di Washington e dei suoi alleati in una giustificazione per denunciare le “aggressioni” cinesi. Dopo i fatti del fine settimana, è arrivata così puntuale la dichiarazione del dipartimento di Stato che definisce “provocatorie” e “destabilizzanti” le recenti attività militari cinesi, che mettono a rischio “la pace e la stabilità della regione”.
Un articolo del britannico Guardian su questi eventi ha spiegato come i vertici militari USA abbiano iniziato a discutere apertamente dei loro timori circa la possibilità che Pechino valuti l’ipotesi, “fino a poco tempo fa impensabile”, di un’invasione di Taiwan. Il già ricordato commento apparso su Global Times non fa peraltro nulla per smentire questo avvertimento. Nell’editoriale si legge che le esercitazioni del fine settimana hanno dimostrato le capacità cinesi di “condurre un attacco aereo in caso di guerra” e che Pechino dovrà agire per distruggere il blocco anti-cinese tra USA e Taiwan, colpevole di avere “spinto al limite la situazione nello stretto”.
Le reazioni allarmate di Washington e Taipei, così come dei media “mainstream”, mancano però di rilevare come l’aggressività cinese sia un puro riflesso delle crescenti provocazioni americane su un fattore, come quello di Taiwan, che forse più di ogni altro va al cuore degli interessi strategici di Pechino, poiché tocca e mette in discussione la sovranità della Repubblica Popolare. Di ciò, la Cina non ha mai fatto mistero e ha anzi messo in guardia ripetutamente dalle iniziative che minacciano gli equilibri basati sulla dottrina di “una sola Cina”, riconosciuta ufficialmente anche dagli Stati Uniti.
La stabilità dell’area è stata garantita per decenni precisamente da questo principio e la responsabilità del suo vacillare, con il rischio di guerra che ne consegue, è da ricondurre interamente alla svolta strategica americana, che da alcuni anni si sta concentrando su un’offensiva anti-cinese a tutto campo per cercare di contrastare la minaccia rappresentata da Pechino al proprio primato a livello globale.
Questo ricalibramento strategico era stato inaugurato dall’amministrazione Obama, ma è con Trump che le provocazioni hanno subito una netta accelerazione. Movimento di navi militari di pattuglia lungo lo stretto di Taiwan, oltre che nel Mar Cinese Meridionale, aumento delle forniture militari a Taipei e incoraggiamento delle relazioni bilaterali attraverso incontri tra esponenti di spicco dei rispettivi governi sono stati gli strumenti preferiti messi in atto per provocare la Cina.
Con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca, l’atteggiamento americano non è cambiato. Al contrario, negli ultimi mesi si è registrato un progressivo allineamento alle posizioni USA di alcuni paesi con interessi nell’area dell’Asia-Pacifico. Il governo australiano, ricorrendo allo schema ultra-logoro di democrazia contro autoritarismo, ha ad esempio citato l’intenzione di “rafforzare i rapporti con Taiwan” poco dopo avere sottoscritto un accordo con Washington e Londra (AUKUS) in funzione anti-cinese per la fornitura di sottomarini a propulsione nucleare.
La stessa Gran Bretagna ha dichiarato che potrebbe intervenire militarmente se la Cina dovesse invadere o attaccare Taiwan, mentre una delegazione del Senato francese inizierà questa settimana una visita sull’isola. Allo stesso ambito va ricondotto anche il sostegno espresso da svariati governi occidentali per la partecipazione di Taiwan a un importante trattato commerciale che copre l’Asia orientale.
Anche dal Giappone, infine, si sono moltiplicate negli ultimi tempi le voci di quanti puntano a intensificare le pressioni sulla Cina sollevando la questione di Taiwan. Questo argomento è stato spesso al centro della recente campagna elettorale per la leadership del partito di governo giapponese (LDP) e, nonostante le proteste cinesi e il rischio di far precipitare la situazione, emergerà con ogni probabilità anche nel voto per il rinnovo della camera bassa del parlamento di Tokyo previsto per la fine di ottobre.
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