Come ci ha insegnato Claudio Pavone la Resistenza è stata una guerra di liberazione, civile e di classe. Al confine orientale d’Italia pure “etnica”. Dichiarata dal fascismo, subito dopo le annessioni di pezzi di Slovenia, Istria e Dalmazia, affonda le sue radici nella marcia dannunziana su Fiume, che fino ad allora molti suoi abitanti chiamavano Rijeka; ma poi non hanno potuto più farlo, come tanti altri lì attorno.
Italianizzazione forzata, questo è stato l’inizio: divieto di parlare sloveno o croato a scuola, al lavoro, nei pubblici uffici, all’osteria, persino a casa propria; proibiti i matrimoni misti, fuorilegge le associazioni politiche, culturali e ricreative non italiane. Fino alle immigrazioni forzate o a cambiare i cognomi delle famiglie e i nomi dei paesi.
Per cancellare e reprimere identità che da quelle parti avevano vissuto abbastanza tranquillamente negli spazi separati con cui gli Asburgo garantivano il potere per sé e la pace tra i sudditi: italiani sulla costa e nelle città, slavi nell’entroterra e in campagna, austriaci e ungheresi in caserme e palazzi di governo.
I nazionalismi esplosi con la guerra mondiale – e le conseguenti politiche degli stati – spazzano via ogni equilibrio, diventano la misura dei rapporti di forza, chi vince si prende tutto e avvia l’omologazione razziale: sopra gli italiani, sotto sloveni e croati. Ovunque. In scuole, fabbriche, uffici, municipi: comandanti e comandati si dividono per nazionalità.
Così per vent’anni, facendo crescere oppressione e rabbia, razzismo e rancore. Poi un’altra guerra, in cui il fascismo italiano tira le fila del tutto: lo sterminio culturale diventa fisico, gli “allogeni” sono il nemico da internare o sterminare, i loro villaggi da incendiare, tutti – come, altrove, i contadini di Marzabotto o Sant’Anna di Stazzema – “oggettivamente” complici dei partigiani e dell’esercito di Tito. Da uccidere e infoibare.
I primi a usare le foibe dell’entroterra istriano sono proprio i fascisti italiani. Preparando così le vendette che accompagnano la sconfitta militare nazi-fascista, l’espansione yugoslava verso Trieste e l’esodo dei civili; per paura o per complicità, forse solo per seguire un destino segnato anni prima, con il privilegio che si rovescia in colpa.
La stessa che lo Stato italiano nasconde per decenni, insieme alla rimozione di quelle vite profughe; per opportunismo politico, per convenienza. Senza elaborare nulla – come è stato per tanta parte della storia del fascismo italiano e delle sue miserie – per non dover fare i conti col passato o disturbare gli equilibri delle cancellerie.
Fino a quando, cambiata l’aria nel mondo, dissolto il “nemico” e riconquistato il Confine, si è potuto trasformare la tragedia in propaganda, usare l’assenza di memoria per revisionare la storia e “ricordare” solo ciò che conviene.
Eppure la verità storica su foibe ed esodo giuliano-dalmata è fissata – e non da ieri – nelle ricerche di Teodoro Sala, Enzo Collotti, Galliano Fogar, Giacomo Scotti o in quelle più recenti di Eric Gobetti.
La verità morale è scritta sulle pietre dei cimiteri del Carso, la si può leggere nei cognomi italiani, sloveni, croati e serbi delle lapidi partigiane; o ascoltare nelle ultime parole di Stiepan Filipovic, prima di essere impiccato dai nazisti nel maggio del 1942: “Smrt fsizmu, sloboda narodu”, morte al fascismo, libertà ai popoli.
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