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12/05/2023

Il patto col diavolo: non si riforma l’irriformabile

Il 1° gennaio del 2024 porterà con sé l’usuale carico di buoni propositi per l’anno nuovo, ma anche una novità importante. Tornerà, infatti, a pieno regime il Patto di Stabilità e Crescita (PSC), cioè il combinato di regole che meglio rappresenta, da un punto di vista simbolico ma anche drammaticamente pratico, la dottrina europea dell’austerità.

Ricordiamo tutti gli eventi degli ultimi anni. Nel pieno della bufera innescata dal Covid-19, le istituzioni europee decidono di sospendere temporaneamente il PSC per permettere agli Stati membri di provare a tamponare le ricadute economiche della pandemia, pur all’interno di un progetto politico che fa un salto di qualità: dall’austerità pura e semplice al controllo diretto di ciò che ciascuno Stato deve fare, per orientare spesa pubblica e ‘riforme’ alla difesa dei profitti e degli interessi di pochi privilegiati. Il tanto decantato Next Generation EU e il PNRR – cioè la declinazione pratica a livello nazionale delle misure generali prescritte a livello europeo – non sono altro che questo.

Come dicevamo, però, la sospensione del PSC era fin dal principio destinata ad essere solamente temporanea. Nel frattempo, ci assicuravano le istituzioni europee, si sarebbe lavorato alacremente a una proposta di modifica del Patto stesso, partendo dal presupposto che le regole ivi contenute erano state pensate negli anni ’90, cioè in un contesto radicalmente diverso. E poi, ci ripetevano i mezzi di comunicazioni e i partiti dell’arco parlamentare tutto, dalla pandemia saremmo usciti tutti migliorati, non si sarebbe più tornati indietro a commettere gli errori del passato, si respirava un vento nuovo di solidarietà e cooperazione e così via all’infinito, in un crescendo di retorica stucchevole. Arriviamo così ai giorni scorsi, con la Commissione Europea che presenta la sua proposta di riforma del PSC, una proposta che dovrà passare per il vaglio di Consiglio e Parlamento europei, oltre che per una serie di negoziazioni politiche con gli Stati membri, prima di diventare effettiva. E in effetti, con questa proposta decisamente non si torna indietro allo status quo. Il problema, però, è che le cose saranno peggiori, poiché le istituzioni europee si accingono a dotarsi di una versione perfezionata, più snella ed efficace dello strumento principe con cui imporre l’austerità nel continente. Proviamo a capire il perché.

La versione vigente del PSC, cioè quella che la Commissione si propone di modificare, definisce due parametri critici per valutare la salute dei conti di un Paese: lo stock di debito pubblico deve essere inferiore al 60% in rapporto al PIL, mentre il deficit, cioè la differenza tra quanto uno Stato spende e quanto incassa su base annua, non dovrebbe superare il 3% del PIL (fatte salve circostanze eccezionali e straordinarie). Per i Paesi che non rispettano questi parametri, sono previsti dei piani di rientro – cioè sostanzialmente dei compiti a casa per rientrare nelle fila dei Paesi “responsabili” – definiti in termini strettamente quantitativi. Per fare un esempio, un Paese che ha un debito pubblico che eccede il 60% del PIL dovrebbe rientrare nei ranghi in venti anni, al ritmo di un ventesimo dell’aggiustamento complessivo richiesto all’anno. Per provare a dare sostanza a queste cifre astratte, prendiamo l’Italia: per il nostro Paese il rapporto debito pubblico/PIL è all’incirca al 145%, cioè oltre 80 punti di PIL sopra il 60%. Per portare questo parametro al 60% in venti anni servirebbe una riduzione ad un ritmo di più del 4% del PIL all’anno, che tradotto in soldoni vorrebbe dire più di 70 miliardi ogni anno, per venti anni. Sostanzialmente gli stessi effetti di una guerra o di una pandemia della durata di due decenni, una misura così draconiana da essere, nei fatti, irrealizzabile anche agli occhi del più spietato degli Schäuble, depotenziando così, in un certo senso, l’applicabilità stretta e la cogenza del PSC.

Per ovviare a questa apparente debolezza del PSC pre-riforma – le prescrizioni che ne derivano sono così radicali e folli da non poter essere applicate alla lettera – la Commissione Europea ha provveduto a semplificare sostanzialmente le regole del gioco, rendendole, questa volta sì, applicabili ma non per questo meno dolorose e folli. In sostanza, ogni Paese con i conti non in regola dovrà negoziare con la Commissione un Piano strutturale di bilancio a medio termine, in cui il Paese spiega dettagliatamente, e si impegna a seguire le misure che ne conseguono, come intende migliorare i propri conti. Il Piano sarà di quattro anni, estendibili a sette se il Paese realizza a passo spedito le ‘riforme’ e mette in atto le trasformazioni strutturali dell’economia nazionale che già sono presenti nel Next Gen EU: un allentamento nell’austerità in cambio di più precarietà nel mercato del lavoro, privatizzazioni e deregolamentazioni, nella sostanza. I Piani nazionali di rientro, in particolare, dovranno dimostrare che il rapporto tra debito pubblico e PIL sarà posto su una traiettoria di diminuzione ben definita e si articoleranno intorno a un parametro principale, cioè un ritmo sostenuto di riduzione della spesa pubblica primaria (cioè la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito pubblico), nella misura di almeno lo 0.5% del PIL all’anno per ogni anno in cui il deficit ecceda il 3% del PIL: il sogno di tutti i Cottarelli di questo mondo, che vedranno finalmente i tagli alla sanità, alle pensioni e all’istruzione istituzionalizzati e resi Vangelo, senza più i fastidiosi margini di manovra e contrattazione politica – laddove c’era da tradurre misure impossibili da applicare alla lettera in qualcosa di concreto e fattibile – che si annidavano nella versione del PSC prima della proposta di modifica della Commissione. Andando di nuovo a guardare i crudi numeri, secondo simulazioni delle istituzioni europee questo si tradurrebbe per l’Italia in un ‘aggiustamento di bilancio’ di 8 miliardi di euro l’anno qualora riuscissimo a strappare un lasso temporale di sette anni per il nostro Piano strutturale di bilancio a medio termine, o in alternativa di 15 miliardi l’anno se fossimo costretti nelle strettoie di un Piano da attuare in quattro anni. Inoltre, a confermare la natura fortemente recessiva del pacchetto che ci troveremo tra capo e collo a partire dal prossimo anno, c’è la prescrizione che nel medio termine la spesa pubblica debba crescere meno del PIL, con l’ovvia conseguenza che un Paese in recessione – e quindi con un tasso di crescita del PIL molto basso o nullo – dovrà adeguare, cioè comprimere, di conseguenza la propria spesa pubblica, andando ad aggravare la recessione.

Ogni anno, ciascun Paese coinvolto dalle procedure per deficit e/o debito eccessivo dovrà sottoporre alla Commissione un rapporto sullo stato di avanzamento dei compiti a casa. In tale contesto, se la Commissione rileverà che il Paese non sta attuando le ‘riforme’ richieste o non sta tagliando ad un ritmo adeguato, avrà facoltà di richiedere, cioè di imporre, un più severo piano di tagli alla spesa pubblica, per rimettere in carreggiata chi non ubbidisce.

Se uno Stato membro si rifiuta o non è in grado di far diminuire ad un ritmo adeguato il rapporto debito pubblico/PIL o persevera con un deficit troppo alto senza far seguire i richiesti tagli alla spesa pubblica, c’è l’usuale minaccia di multe e sanzioni. La posta in gioco è, tuttavia, molto più alta e le ritorsioni ben più feroci: la ‘segnalazione’ ai mercati finanziari internazionali come Paese inaffidabile e con i conti non a posto rappresenterebbe di fatto un via libera alla speculazione, con il suo portato di aumento dello spread sui titoli del debito pubblico e instabilità finanziaria diffusa. Il viatico perfetto per finire tra le braccia del MES e le condizioni capestro cui subordinare il salvataggio del Paese.

Occorre sottolineare con forza la gravità del passaggio da un sistema di regole che “sorveglia” principalmente il saldo di bilancio strutturale (come per l’obiettivo di medio termine), e che quindi permette entro un certo limite di utilizzare le imposte per finanziare una parte della spesa pubblica senza “sforare” troppo in termini di bilancio, alle nuove regole che mettono direttamente la museruola alla spesa pubblica. Una modalità di gestione dell’austerità che avrà effetti molto più percepibili da parte di ognuno di noi in termini di minori servizi (e anche in termini di crescita e occupazione).

In uno snodo di particolare importanza, tra pandemia, guerra ed erosione del potere d’acquisto delle fasce più deboli della popolazione, la nuova Europa si dimostra inquietantemente identica alla vecchia Europa dell’austerità che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. I pilastri sono sempre gli stessi: riduzione del ruolo dello Stato nell’economia, tagli alla spesa sociale, tagli agli investimenti pubblici – in barba a tutte le chiacchiere vuote e senza senso sul ‘debito buono’ – e disciplina appaltata ai mercati finanziari. Un problema enorme per la grande maggioranza della popolazione, che ne subisce le conseguenze pratiche e materiali a colpi di disoccupazione, salari stagnanti e precarietà lavorativa, ma evidentemente uno scenario ideale per il Governo Meloni, che già si è dimostrato solerte nel portarsi avanti con i compiti.

La continuità del Governo Meloni con i suoi predecessori, e in particolare del governo Draghi, è palese proprio in questo elemento: l’assenza di qualunque strappo rispetto ai dogmi dell’austerità e delle riforme strutturali che caratterizzano l’ideologia economica dell’UE. Dietro la patina dell’antieuropeismo di facciata e la presunta strenua opposizione al MES, il Governo in carica persevera nell’applicare alla lettera riforme punitive per i lavoratori e ad assecondare la progressiva e implacabile riduzione del ruolo dello Stato nell’economia, a tutto vantaggio del capitale e dei profitti. Un giochino che abbiamo imparato a conoscere dai tempi della prima legge di bilancio del governo gialloverde e che non ci coglie più impreparati, ma ci vede compatti nel respingere i quotidiani attacchi alle nostre condizioni di lavoro, ai nostri salari, alle nostre pensioni, a servizi basilari come sanità e istruzione.

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