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07/05/2023

L'inflazione è da profitti

Pubblichiamo il testo leggermente rivisto e ampliato dall’autore, scritto da Joseph Halevi come introduzione all’opera collettiva (Giacomo Cucignatto e altri), “L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo”, edizioni Punto Rosso, Milano, marzo 2023. Ringraziamo Joseph Halevi, gli autori del libro e l’editore per l’accordo alla pubblicazione.
Rproject

di Joseph Halevi

Dal 2020 l’economia mondiale è rientrata in un periodo di inflazione. Contrariamente al precedente episodio, avvenuto nel periodo che va dai primi anni Settanta ai primi anni Ottanta, questa volta le cause sono assai chiare.

Nel primo episodio le condizioni europee dell’inflazione furono diverse da quelle statunitensi, mentre il Giappone subì da un lato un’inflazione importata e dall’altro ricevette dagli Stati Uniti un cazzotto monetario in piena faccia – rappresentato dalla rapida e ripidissima rivalutazione dello yen – tale che avrebbe travolto anche un paese come la Germania, fortunatamente protetta dallo scudo rappresentato dall’area commerciale della CEE già allora sbocco principale del suo export.

Il Giappone invece pur non avendo un hinterland economico resistette alquanto bene rafforzando grandemente il livello tecnologico e la proiezione mondiale della sua industria. In quegli anni in Europa occidentale maturò un conflitto distributivo tra lavoro e capitale intenso e pluriennale in Gran Bretagna ed in Italia, che in ambo i paesi si spense in forme diverse tra l’ultimo biennio degli anni Settanta e i primissimi anni del decennio successivo. Mi riferisco ai differenti, ma comunque violenti e duri contesti in cui avvenne la chiusura del conflitto nei due paesi.

In Italia si svolse dal rapimento ed assassinio di Moro nel 1978, all’attentato alla stazione centrale di Bologna nell’estate del 1980 ed alla catastrofe sindacale alla FIAT nel tardo autunno dello stesso anno. Complessivamente nei primi anni Ottanta in Italia si innestò un meccanismo orientato verso una situazione di non ritorno per ciò che riguarda i rapporti sindacali e di classe nel Paese. In questo quadro ciò che accadde dall’accordo sul costo del lavoro nel 1992-93 in poi non è storia bensì cronaca in quanto i suoi effetti continuano a gravare, acuendosi, sui rapporti tra imprese e lavoratori e tra quest’ultimi e le istituzioni. Infatti se oggi il lavoro salariato è inerme di fronte all’inflazione da profitti, le ragioni principali di quest’impotenza risalgono proprio a quel famigerato accordo sul costo del lavoro. In tal senso mi sembra che l’indebolimento della capacità del lavoro salariato di difendere le sue istanze, collimi assai bene con un’analisi di lungo periodo sulla macroeconomia italiana condotta per il periodo che va dal 1990 al 2014 da Pasquale Tridico intitolata From economic decline to the current crisis in Italy, liberamente accessibile su Academia.

Certamente, nel precedente episodio, la dimensione globale dell’inflazione risiedeva nella politica statunitense riguardo la guerra nel Vietnam che portò alla crisi del sistema monetario internazionale a parità fisse nei tassi di cambio incentrato sul dollaro. A ciò seguì la gestione della crisi politica del petrolio, avvenuta in connessione alla guerra israelo-egiziano-siriana del 1973, in funzione del mantenimento della egemonia del dollaro, cioè della capacità degli USA di finanziare ad libitum i propri deficit esteri e di condurre acquisizioni all’estero senza vincolo alcuno. Fu questo obiettivo a portare all’accordo tra gli USA e l’Arabia Saudita – avvenuto all’indomani dell’incremento di svariate volte del prezzo del greggio nel 1973 e nel 1974 – riguardo l’impegno del regno saudita a trattare il petrolio solo in dollari e di ridepositarli negli USA tramite acquisti di buoni del Tesoro statunitensi. La crisi iraniana del 1978, malgrado costituisse la perdita di uno stato-cliente, rafforzò di molto la posizione del dollaro in quanto comportò un ulteriore grande aumento del prezzo del greggio ed un ulteriore balzo inflazionistico. La nuova centralità USA stimolò il presidente della Federal Reserve Paul Volcker ad attaccare i sindacati prendendo come cavia la categoria dei controllori di volo. In questo caso l’obiettivo era di spezzare le reni alla capacità contrattuale dei lavoratori, non di combattere l’inflazione come invece egli andava dicendo assieme al Presidente Reagan. Anni dopo fu lo stesso Volcker ad ammetterlo molto candidamente.

Da quel momento gli Stati Uniti iniziarono, partendo da livelli diversi rispetto ai paesi europei, a marciare verso la deflazione salariale senza più fermarsi (per il Giappone la situazione era diversa perché fino alla metà del 1995 continuò a ricevere dagli USA dei gran cazzotti che, come diceva Gassman nei Mostri, fanno male).

Morale della favola, nemmeno la forte riduzione dei prezzi delle materie prime dalla fine della prima metà degli anni Ottanta, cambiò il segno alla grande moderazione salariale che, anzi, si installò nell’economia italiana ed europea oltre che in quella statunitense. Decenni di moderazione salariale senza effettivi e duraturi incrementi nei salari reali hanno, sulla capacità di resistenza dei lavoratori, gli stessi effetti di una lunga ed interminabile guerra d’attrito condotta da una parte sola, quella all’attacco.

Arriviamo quindi ad oggi. L’attuale ripresa dell’inflazione non scaturisce da alcun conflitto sociale attivo connesso a battaglie volte a riconquistare il terreno perduto sul piano salariale. Ne è prova, spero di sbagliare, la situazione in Francia. Generalmente ad un grande movimento di lotta si accompagna l’emergere di altre rivendicazioni e quale migliore rivendicazione che accomuna tutti i lavoratori salariati può esserci oltre alla lotta contro la riforma del sistema pensionistico? Quella salariale, ovvio, dato che anche nella “belle France” i salari hanno avuto la loro grande moderazione ed hanno subito le decurtazioni al potere d’acquisto causate dall’inflazione corrente. Invece niente. Ciò a mio avviso conferma quanto sia grave la situazione riguardo la capacità di riconquistare il salario che, come insegnava Vittorio Foa nei suoi seminari e nei suoi scritti, è il perno dell’esistenza stessa dell’azione sindacale.

L’inflazione attuale nasce da strettoie produttive create inizialmente con la politica di Donald Trump nei confronti delle industrie tecnologiche cinesi e continuate dal suo successore in cui è stato seguito dai paesi europei e, molto a mala voglia, anche dal Giappone. A questa situazione si sono aggiunte le restrizioni varate globalmente durante la gestione della crisi pandemica ed infine l’impatto del conflitto in Ucraina, non unicamente sui prezzi e flussi energetici ma anche su alcune materie industriali. Questi tre eventi ravvicinati hanno creato un processo cumulativo di tipo inflazionistico ed anti espansivo sul piano della produzione reale, la cui dinamica, ad eccezione della Cina e dell’India, dal 2008 non è mai stata robusta. Il tutto si è tradotto in un’inflazione da profitti. Non sono riuscito a trovare studi paneuropei su questo tema, però ne esistono per ciò che concerne gli Stati Uniti.

Le stime principali riguardano il contributo degli aumenti del costo del lavoro all’aumento dei prezzi ed all’incremento stesso dell’inflazione. In media emerge che l’aumento del costo del lavoro contribuisce per il 10% all’incremento dei prezzi mentre l’aumento dei profitti contribuisce per il 33-35% all’inflazione. La spirale è quindi quella di prezzi e profitti, non prezzi e salari (Servaas Storm, “Inflation in the Time of Corona and War”, Institute for New Economic Thinking Working Paper Series No. 185, 20 June 2022. Accessibile online). A tale quadro si aggiunge la determinazione delle Banche Centrali: dalla Federal Reserve alla BCE, alla Bank of England, di non permettere effettivi recuperi salariali nei confronti della crescita dei prezzi. Le Banche Centrali non hanno, per loro scelta, altro strumento che quello dell’aumento dei saggi di interesse. Ora accade che mentre allo scoppio della crisi del 2007-2008 la maggioranza dei prodotti derivati, che furono al cuore della crisi, era concentrata nei cosiddetti mutui subprime e nei credit default swap, oggi sono stati in prevalenza strutturati sui saggi di interesse quando questi erano bassissimi.

Questa contraddizione rafforza la determinazione delle banche centrali a non tollerare recuperi salariali rispetto all’inflazione. Sembra pertanto che i lavoratori saranno costretti a subire la decurtazione salariale prodotta dall’inflazione dopo aver passivamente subito la lunga stagnazione.

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