Qual è oggi lo stato dei rapporti transatlantici nel quadro del conflitto ucraino e sullo sfondo del montante scontro Usa/Cina? Non è facile anche solo delinearne contorni e possibili evoluzioni sia per la complessità dei fattori in gioco sia, a maggior ragione, perché uno dei due poli della relazione non rappresenta un soggetto unitario. Qualunque cosa possa rappresentare oggi l’Europa sul piano politico e simbolico, l’Unione Europea (UE) non è uno Stato, non può dunque surrogare la semi-sovranità politica e militare – a far data dalla II Guerra Mondiale – della Germania, suo pilastro economico. Piuttosto, essa si configura come un terreno di scontro transatlantico e intra-europeo se non, sul medio-lungo periodo, come una delle poste in palio nella più generale crisi dell’ordine internazionale apertasi con il tonfo finanziario del 2008.
Comunque sia, nell’affrontare questo intricato nodo vanno tenuti presenti due elementi, che qui non è possibile approfondire. Gli Stati Uniti sono riusciti finora a evitare una recessione economica, dopo lo scontato rimbalzo post covid, grazie sia a forti sovvenzionamenti pubblici alle imprese (Bidenomics) sia alle esportazioni energetiche verso i paesi europei (uno dei dividendi della guerra in Ucraina). È assai dubbio se in prospettiva questa politica industriale possa portare ad una effettiva reindustrializzazione degli States e al ritorno di un compromesso sociale accettabile (la cui disgregazione è la vera causa del trumpismo). È plausibile, invece, che incrociandosi con la guerra economico-tecnologica alla Cina essa prefiguri un nuovo tipo di “economia di guerra”.[1] In secondo luogo, e di conseguenza, il conflitto con Mosca non potrà che avere un effetto trascinamento sulla UE essendo plausibile che “un’Europa senza Russia porta a un’Europa senza Cina”.[2]
Trappola ucraina
Con la guerra in Ucraina Washington ha impresso un giro di vite contro la Russia, la cui aggressione militare è stata nei fatti una mossa reattiva e difensiva. Il conflitto militare, quali che saranno gli esiti sul terreno, ha indubbiamente segnato un passaggio se non un punto di svolta anche nei rapporti transatlantici.
La domanda è: perché da parte statunitense colpire così duro contro Mosca proprio nel mentre l’impegno anti-cinese è destinato a crescere drammaticamente? Sul piano tattico Washington può aver “semplicemente” colto l’occasione sulla scia dell’espansione pluridecennale della NATO verso Est. Ma l’obiettivo strategico è di lunga data: il doppio contenimento di Russia e Germania. Mosca come nemico o avversario, a seconda delle fasi, da tenere fuori dall’Europa isolandola; Berlino come “alleata” da tenere sotto attraverso la continuamente ventilata, costruita, provocata minaccia russa. Fa dunque premio il caveat di Mackinder – il cui pensiero geopolitico è l’alfa e omega dell’approccio strategico a stelle e strisce – ovvero impedire a ogni costo un’alleanza “euroasiatica” tra Germania e Russia. A maggior ragione oggi con la possibile proiezione verso la Cina, il che suonerebbe una minaccia esistenziale per il dominio mondiale di sua maestà il Dollaro.
In effetti, grazie al conflitto Washington ha inferto un colpo durissimo alla politica energetica della UE portandola a un quasi sganciamento dalle forniture russe. E rendendo di qui in avanti le interconnessioni commerciali e produttive con Mosca pressoché impossibili per l’industria tedesca (e, in subordine, italiana). Un combinato disposto che mette in forte difficoltà il tessuto industriale europeo a tutto favore del tentativo statunitense di riportare a casa parte delle produzioni delocalizzate.
Per intanto, però, alla luce dei non brillanti risultati ucraini sul terreno di battaglia, a Washington ci si è orientati per una strategia militare che punta a consolidare il fronte ucraino su linee difensive nel mentre – vedi il recente pacchetto di aiuti all’Ucraina passato al Congresso Usa – si punta a ricostruire il potenziale militare di Kiev nell’ottica di passare a colpire in territorio russo.[3] L’obiettivo è una sorta di guerriglia di lunga durata che degradi le capacità militari e la tenuta interna della Russia.[4] Qui si inserisce il programma di “europeizzazione” dei costi del conflitto, che dovrebbe permettere a Washington di dedicarsi con più tranquillità al quadrante dell’Asia orientale. Costi non più solo finanziari, come per lo più finora, ma direttamente militari. La boutade del galletto Macron sulla necessità di truppe europee sul suolo ucraino suona al momento velleitaria, ma segnala una tendenza: la Russia non la si sconfigge senza un impegno diretto della NATO, gli europei devono iniziare a capirlo.
UE, non UE?
Sembra così suonata la campana a morto per le aspirazioni europee di maggiore autonomia sullo scenario internazionale. L’appiattimento repentino delle classi dirigenti europee all’ukaze ucraino di Washington è il precipitato di una serie di fattori affatto misteriosi. Contrasti interni congeniti alla UE e ben sfruttati dai paesi dell’Est Europa, utenti opportunisti dei finanziamenti europei e della libera circolazione della forza-lavoro; frammentazione dei processi decisionali; giri di valzer dei francesi sempre schadenfroh per ogni danno subito da Berlino; indebolimento della leadership tedesca con la dipartita di Merkel. L’europeizzazione di un numero crescente di processi, norme e istituzioni non solo non ha saputo creare “campioni europei” concorrenziali sui mercati globali ma ha finito con l’avere effetti perversi avendo indebolito l’autonomia statale di Germania e Francia, invischiandole nella rete dei paesi europeo-orientali vassalli imperterriti di Washington [5]. La stessa Commissione Europea non è altro che un terreno di scontro tra le ingerenze statunitensi – appoggiate da significativi settori dei ceti politici e delle borghesie europee – e forze in teoria propense a una maggiore autonomia incardinata sull’asse franco-tedesco. Quest’ultimo, però, ha subito un duro colpo avendo mostrato l’incapacità di gestire il problema ucraino, le sue ricadute economiche (con la Germania in recessione per la prima volta dal 2009), nonché le scelte difficili che pone in termini di postura strategica verso la Russia e, quindi, di riarmo (favorire l’industria bellica europea o acquistare dagli Stati Uniti? Un nuovo ruolo per la Bce?), deterrenza (ombrello nucleare francese esteso alla Germania o statunitense?), influenza politica sull’Est Europa (fin qui ricompresa nella sfera economica tedesca). La passività sociale delle popolazioni europee ha fatto il resto: l’ascesa elettorale delle forze politiche conservatrici e/o euroscettiche (meglio: europportuniste) ne è l’effetto più che la causa.
Ciò non toglie che, al di là della patina di unanimismo anti-russo tra le due sponde dell’Atlantico, i giochi non sono ancora del tutto fatti, soprattutto nel caso Mosca dovesse riuscire a conseguire un accettabile successo militare sul campo. Vedremo allora fino a che punto Washington potrà tirare la corda con gli alleati europei. Foriera di conseguenze è poi la perdita di soft power americano nei confronti di una parte significativa delle società europee, che possono questa volta saggiare immediatamente nelle proprie tasche i costi della sudditanza atlantista dei propri governi. Non era mai successo, finora, in questa misura: Biden che fa rimpiangere Trump! Ma a quali condizioni le incrinature potrebbero diventare vere e proprie contraddizioni?
Questione tedesca?
In particolare, i giochi potrebbero non essere già del tutto fatti a Berlino. Verso l’esterno come all’interno vi regna al momento compatto l’ordine filoatlantico (contro i Putinversteher e le espressioni di solidarietà ai palestinesi). E però sono emerse in questi due anni significative critiche da parte di settori della borghesia industriale sui costi economici asimmetrici della guerra; il quadro sociale inizia a essere sollecitato dal peggioramento economico e dall’incertezza per il futuro, come hanno mostrato recenti mobilitazioni; gli assetti politici tradizionali tendono a scomporsi; tendenze neopopuliste, di destra e di sinistra, reagiscono all’illusione oramai incrinatasi di una prosperità isolata dagli sconquassi globali.[6] Certo, è un fatto che l’attuale classe dirigente tedesca non è in grado di dare sostanza geopolitica al suo peso economico europeo e globale se non in termini di “passività organizzata”[7] rispetto ai diktat anglo-statunitensi (con una consistente fetta del ceto politico e dell’opinione pubblica interna che hanno interiorizzato il comando dell’anglosfera). Di qui la sorda ritrosia, che ogni volta il governo Scholz ha poi dovuto rimangiarsi, alle pressioni NATO per un maggiore coinvolgimento in Ucraina, finanziario e militare (da ultimo il rifiuto di fornire missili Taurus, almeno finora, e veto di Scholz alla candidatura NATO di von der Leyen l’“americana”). Di qui il silenzio autoimposto sul clamoroso sabotaggio “amico” del gasdotto Nord Stream. Di qui il rigido controllo mediatico sul fronte interno, teso a evitare possibili accuse di infedeltà all’atlantismo. Insomma, l’annunciata Zeitenwende non sembra finora aver preso la direzione di una decisa e definitiva svolta bellicista anti-russa. Ma intanto i margini dei compromessi à la Merkel si sono drammaticamente ristretti.
Anche sul fronte economico i passaggi si fanno critici. Mentre in generale l’economia dei paesi UE dopo il 2008 ha arrancato dietro quella Usa – complice la crisi dei debiti sovrani – la sola economia tedesca è riuscita a rafforzarsi accentrando ancor più a sé le catene del valore europee e registrando notevoli surplus commerciali (nell’ordine del 5% del Pil fino al ’22) sia con i paesi dell’Unione[8] che con gli Stati Uniti. Ma ciò non sarebbe stato possibile senza i rapporti sempre più stretti con la Cina e i flussi di energia a basso costo dalla Russia.
Sul piano commerciale a tutt’oggi gli Usa restano il maggior importatore di beni tedeschi, di un terzo maggiore della Cina[9], e il principale partner dell’intera UE, in particolare nei servizi. Ma la Cina viene subito dietro con più del 15% del commercio complessivo della UE.[10] È la prima fonte di importazioni per la Germania[11] e per la UE[12]. All’interno dell’Unione, il rapporto privilegiato tra Pechino e Berlino si è consolidato nei due sensi rappresentando più di un quarto del commercio totale UE, con BMW, Mercedes e Volkswagen che vendono quasi il 50% di veicoli sul mercato cinese. Pechino è il primo partner commerciale (importazioni + esportazioni) della Germania e, soprattutto, il mercato con più prospettive di crescita, sanzioni Usa permettendo.
Sul piano degli investimenti diretti esteri (IDE), gli Stati Uniti la fanno ancora da padroni nella UE, come nel mondo, sia come flussi (p. es. superiori a quelli tedeschi nella stessa Francia lo scorso anno, con Olanda, Lussemburgo e Irlanda come basi di espansione verso altri paesi)[13] sia come stock[14]. I ricavi delle multinazionali statunitensi in Europa – circa quattro volte l’intero interscambio commerciale – compensano il deficit commerciale di Washington[15]. Senza contare la superiorità delle imprese americane in termini di spese per ricerca e sviluppo, branche ad alta tecnologia (vedi il ritardo europeo su digitale e armamenti) e soprattutto accesso alla liquidità finanziaria e sostegno politico. La Germania dal canto suo ha incrementato di molto l’orientamento internazionale anche in questo campo, in particolare dalla crisi del 2008. In termini assoluti gli IDE all’estero ammontano a meno della metà di quelli statunitensi, ma con un trend in crescita fino al ’22 (al contrario di quelli verso la Germania, circa la metà dei primi, scesi nel ’23 al livello più basso da vent’anni)[16]. Un trend ancora più accentuato in direzione degli stessi Stati Uniti (quasi un terzo del totale, ma con la manifattura non in primo piano, comunque più del doppio dei reciproci Usa in Germania)[17].
Di nuovo, il punto è che in questo rinnovato attivismo la Germania non può rinunciare e nei fatti non sta rinunciando alla Cina, di contro al minor attivismo statunitense[18]. I dati parlano da sé: anche se gli investimenti diretti tedeschi in Cina valevano nel 2020 circa il 7% del totale (di contro al 34% nei paesi dell’Unione e il 27% negli Usa), nel 2022 sono cresciuti di più del 50% su un anno, nel ’23 di un altro 4%; questo proprio mentre si è dato un calo complessivo sia degli investimenti del resto dell’Occidente[19] in Cina sia di quelli tedeschi nel resto del mondo[20]. Così, la Cina è salita al secondo posto per stock di investimenti tedeschi, dopo gli Stati Uniti[21] – ma è oramai più importante per il settore autoveicoli[22] – e con una quota di profitti proporzionalmente più alta e in crescita[23]. Inoltre, la Cina può fungere da piattaforma per le esportazioni nel resto dell’Asia orientale, la zona economica più dinamica al mondo. È vero che la risalita cinese delle catene del valore nella produzione di macchinari in prospettiva creerà un concorrente per l’industria tedesca; nel frattempo una collaborazione nel campo del trasporto elettrico in teoria non è da escludere (o altrimenti il controllo di GAFAM si estenderà tramite piattaforme e reti digitali all’auto tedesca “costretta” a farsi green).
Non è un caso allora se Scholz è volato ben due volte a Pechino dal febbraio ’22, da ultimo questo aprile con un nutrito seguito di manager della grande impresa. Il Global Times, fonte ufficiale cinese sugli affari internazionali, ha ricordato nel suo commento le parole della direttrice dello Schiller Institute: “sarebbe suicida per la Germania dar seguito alle richieste di derisking”[24].
Il derisking è la formula edulcorata con cui la presidente della Commissione Europea ha ribattezzato il decoupling anti-cinese dell’amministrazione Biden[25]. Prendendo a motivazione gli IDE cinesi in Europa nel settore dei veicoli elettrici, la Commissione sta varando una serie di documenti e prime misure dal tenore protezionistico in nome della “sovranità tecnologica” e della “sicurezza dell'economica”[26] A tutt’oggi, però, il tentativo di introdurre anche in Europa, su pressione degli Stati Uniti, controlli su tutti gli investimenti esteri in Cina (quelli sui chip, p.es. nei confronti dell’ASML olandese, sono già attivi) è fallito per l’opposizione dell’industria tedesca[27]. Su questo versante ne vedremo delle belle, così come per l’industria degli armamenti[28].
Punti di vista
Insomma, ciò che appare ai fautori dell’atlantismo una stabile interdipendenza economica (e quindi geopolitica) tra Stati Uniti ed Europa, da contrapporre alle sirene euroasiatiche, nasconde in realtà forti asimmetrie di potere e rivalità competitive potenzialmente foriere di scontri importanti – anche sul piano finanziario e delle valute (vedi l’eurocrisi degli anni Dieci, in gran parte determinata dall’offensiva della finanza a stelle e strisce)[29]. In particolare, l’industria tedesca – pur intrecciata con il mercato statunitense sia per gli investimenti che per le esportazioni – non può rinunciare ai sempre più densi legami con il mercato cinese. Al tempo stesso, la situazione di doppia finestra verso Occidente e verso Oriente di cui ha finora usufruito va chiudendosi. Le ombre del decoupling anti-cinese si allungano sull’Europa, inesorabilmente.
Il capitalismo yankee resta il cuore del mercato mondiale, posizione che ha acquisito a seguito di due guerre mondiali. Da allora ha potuto bloccare quando non invertire il rallentamento relativo della propria accumulazione solo scaricando sui soggetti statali rivali (nemici e “amici”) i costi delle crisi e delle riprese – con diverse modalità in diversi contesti: sui paesi europei occidentali negli anni Settanta (sganciamento dollaro-oro e guerra del petrolio), quindi sull’Unione Sovietica (corsa al riarmo nella seconda Guerra Fredda), poi sul Giappone negli anni Ottanta-Novanta (imposta rivalutazione dello yen), di nuovo sull’Europa all’indomani del 2008. È questa la funzione del “super-imperialismo” statunitense[30]. È ora la volta della Cina, paese al di fuori del campo imperialista la cui accumulazione è divenuta essenziale per la tenuta del capitalismo mondiale. Ma la contraddizione per Washington è tra la necessità di pompare plusvalore da questo paese (e dall’intero globo) e i rischi di frammentazione del sistema-mondo. E un’eventuale de-globalizzazione, qualunque forma dovesse assumere, dovrà passare per il riaccendersi anche delle rivalità interne all’Occidente, e interne alla stessa UE, cosa che già si vede sotto traccia[31]. Su quest’ultimo versante la novità è che Washington ha oramai necessità di contendere o limitare anche gli spazi precedentemente lasciati ai (subordinati) imperialismi europei, senza prospettive di rilancio a breve dell’accumulazione a pro di “tutti” che possano ovviare al peggioramento delle condizioni delle classi lavoratrici occidentali.
Fa da contrappeso in Europa una situazione di impasse anche per quei soggetti e classi che meno avrebbero interesse al corso di guerra imposto da Washington. Insieme ai fattori qui accennati, pesa anche il timore europeo – non solo di settori borghesi ma nelle stesse popolazioni, seppur solo in parte consapevole – che senza l’ombrello NATO, e dunque il pedaggio da pagare a Washington, il privilegio occidentale del benessere diffuso difficilmente terrebbe a fronte delle aspirazioni del Sud globale. Ma è un pedaggio sempre più gravoso in termini di spesa militare, aumento dei debiti pubblici e corrispondenti tagli ai servizi, inflazione e, non ultimo, prospettive di guerra.
A meno di un avvitamento della situazione – che non si può escludere – questo stato di cose potrà sbloccarsi solo con l’emergere di una mobilitazione sociale in almeno alcuni dei paesi europei più significativi. La guerra ucraina, fissando sempre più in alto l’asticella dei danni da incamerare, potrebbe contribuire ad innescare una reazione dai tratti probabilmente neopopulisti (quindi interclassisti) e, auspicabilmente, più connotata in senso anti-americano. A maggior ragione ciò si darebbe nel caso di un tracollo di Kiev: una conseguente crisi politica all’interno delle attuali, “irriformabili” classi dirigenti europee inciderebbe sia sul rapporto con Washington, sia su quello con le classi lavoratrici nonché sulla tenuta stessa della UE. Saremmo, nel caso, ben oltre gli inconcludenti dibattiti euro/no euro si qualche anno fa – focalizzati sulle responsabilità della sola Germania ma ciechi alle strategie dell’anglosfera, ben più incisive per le sorti dell’euro – e un po’ più vicini ai nodi di fondo dell’attuale situazione mondiale.
Tra questi, cruciale, la distanza tra il messaggio “riformista” a pro di un diverso ordine internazionale che proviene dal Sud Globale, da un lato, e l’eclissi del riformismo sindacale e politico in Occidente, dall’altro. Un’eclissi tutt’altro che contingente. Al tempo stesso, le possibilità del conflitto di classe risulteranno sempre più intrecciate con le vicende geopolitiche mondiali nel quadro della tendenza alla guerra impressa da un Occidente in crisi. Una cosa pare certa: se i paesi occidentali e in particolare gli Stati Uniti, anello forte della catena imperialista, non incontreranno serie difficoltà economiche e contraccolpi geopolitici non vi potrà ripartire alcun significativo conflitto di classe. Ma in quali forme, con quali passaggi e possibilità di evoluzione esso potrà ridarsi è una domanda al momento senza sufficienti riscontri reali.
di Raffaele Sciortino Articolo per la rivista Su La Testa, in uscita a fine maggio 2024.
Note
1) Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale, Asterios, Trieste 2022.
2 Joseph Halevi, Germany, Europe, and the crisis, febbraio 2024.
3) Institut for the Study of War, Denying Russia’s Only Strategy for Success, 27 marzo 2024.
4) Al vertice di Bruxelles dello scorso 3-4 aprile si è discusso di “come la NATO può assumersi un maggior ruolo nel coordinare le forniture militari e l’addestramento per l’Ucraina ancorando questo impegno all’interno di un solido quadro NATO”.
5) Tranne l’Ungheria di Orban, al momento unico effettivo “sovranismo” europeo.
6) Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, Trieste 2019, che abbisognerebbe di un aggiornamento.
7) Il Lato Cattivo, Vae victis Europa?, di prossima uscita sul blog.
8) L’autonomia differenziata tra le regioni italiane sarebbe un involontario, ulteriore assist a questo processo.
9) Nel 2023 le esportazioni tedesche negli Usa sono ammontate a 158 miliardi di euro di contro ai 97 verso la Cina.
10) Nel 2023 946 miliardi di dollari tra Usa e Ue in merci rispetto agli 805 tra UE e Cina, maggiore il divario nei servizi.
11) https://www.destatis.de/DE/Presse/Pressemitteilungen/2024/04/PD24_140_51.html.
12 https://www.china-briefing.com/news/eu-china-relations-trade-investment-and-recent-developments/.
13) https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-eurostat-news/w/ddn-20240129-3.
14) Stock superiori di quasi un quarto a quelli europei negli States.
15) Nel 2023 il deficit commerciale coi paesi UE è stato di 208 miliardi di dollari, di cui 83 con la sola Germania.
16) https://www.bundesbank.de/en/press/press-releases/german-foreign-direct-investment-in-2021-2022-903736;
https://www.reuters.com/markets/europe/foreign-direct-investment-germany-dives-35-bln-euros-h1-2023-09-12/.
17) https://www.statista.com/statistics/456713/leading-fdi-countries-usa/;
https://www.statista.com/statistics/188615/united-states-direct-investments-in-germany-since-2000/.
18) Rolf Langhammer, Reluctant US vs Ambitious German Direct Investment in CHina, Kiel Ifw, febbraio 2022.
19) Anche data la pressione di Washington sugli alleati nel quadro del chip war anti-cinese (Chris Miller, Chip War, 2022; trad. it. 2024).
20) https://www.china-briefing.com/news/european-investment-in-china-prospects-for-2023/;
https://rhg.com/research/the-chosen-few/.
21) Nel ’22, 135,6 miliardi di euro e 431 rispettivamente, con 750mila occupati rispetto a 870mila.
22) Gli investimenti tedeschi nell’auto valgono un quarto del totale IDE in Cina in questa branca e un terzo del totale tedesco IDE.
23) Ma la UE resta centrale come hub delle catene di fornitura tedesche.
24) https://www.globaltimes.cn/page/202404/1310711.shtml.
25) Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Epilogo, 4 febbraio 2024.
26) Joint Communication on a European Economic Security Strategy del giugno ’23; a fine ’23 la Commissione Europea ha dato inizio ad una investigazione su presunti sussidi sleali all’industria cinese di veicoli elettrici.
27) https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/9464.
28) Secondo Wolfgang Streeck, “l’ultima speranza per un’Europa integrata centralmente è la trasformazione della UE in una alleanza militare, contestualmente alla prosecuzione della guerra in Ucraina, come pilastro europeo della NATO... con la Russia a fare da catalizzatore esterno e la Germania interno sotto la supervisione degli Stati Uniti”. Ma tale prospettiva avrebbe il fiato corto date le divergenze intra-europee e i costi altissimi per Berlino.
29) Raffaele Sciortino, Chicken game. Ancora sull’eurocrisi, febbraio 2012.
30) Qui il termine super-imperialismo non sta per superamento delle rivalità inter-imperialistiche (USA-UE-Giappone), ma vuole segnalare una asimmetria forte tra gli States e gli altri soggetti.
31) Anche a scorno dei teorici dell’imperialismo europeo unitario.
Fonte
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