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31/08/2025

Frusciante al Cinema: Until dawn - Fino all'alba (2025) di David F. Sandberg (Aprile 2025)

[Contributo al dibattito] - “L’Europa deve cambiare politica estera”

di Jeffrey David Sachs

La sottomissione dell’Europa agli Stati Uniti deriva quasi interamente dalla sua paura predominante della Russia, una paura che è stata amplificata dagli stati russofobi dell’Europa orientale e da una falsa narrativa sulla guerra in Ucraina. Basandosi sulla convinzione che la sua più grande minaccia alla sicurezza sia la Russia, l’UE subordina tutte le altre sue questioni di politica estera – economiche, commerciali, ambientali, tecnologiche e diplomatiche – agli Stati Uniti. Ironia della sorte, si aggrappa a Washington anche mentre gli Stati Uniti sono diventati più deboli, instabili, erratici, irrazionali e pericolosi nella loro stessa politica estera verso l’UE, fino al punto di minacciare apertamente la sovranità europea in Groenlandia.

Per tracciare una nuova politica estera, l’Europa dovrà superare la falsa premessa della sua estrema vulnerabilità alla Russia. La narrativa di Bruxelles-NATO-Regno Unito sostiene che la Russia è intrinsecamente espansionista e invaderebbe l’Europa se ne avesse l’opportunità. L’occupazione sovietica dell’Europa orientale dal 1945 al 1991 dimostrerebbe questa minaccia oggi. Questa falsa narrativa fraintende gravemente il comportamento russo sia nel passato che nel presente.

La prima parte di questo saggio mira a correggere la falsa premessa che la Russia rappresenti una minaccia grave per l’Europa. La seconda parte guarda avanti verso una nuova politica estera europea, una volta che l’Europa sarà andata oltre la sua irrazionale russofobia.
 
La falsa premessa dell’imperialismo russo verso Occidente

La politica estera europea si basa sulla presunta minaccia alla sicurezza che la Russia rappresenta per l’Europa. Eppure questa premessa è falsa. La Russia è stata ripetutamente invasa dalle maggiori potenze occidentali (in particolare Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti negli ultimi due secoli) e ha a lungo cercato la sicurezza attraverso una zona cuscinetto tra sé e le potenze occidentali. La zona cuscinetto, molto contesa, include le odierne Polonia, Ucraina, Finlandia e stati baltici. Questa regione tra le potenze occidentali e la Russia spiega i principali dilemmi di sicurezza che affrontano l’Europa occidentale e la Russia.

Le principali guerre occidentali lanciate contro la Russia dal 1800 includono:
– L’invasione francese della Russia nel 1812 (Guerre Napoleoniche);
– L’invasione britannica e francese della Russia nel 1853-1856 (Guerra di Crimea);
– La dichiarazione di guerra della Germania alla Russia il 1° agosto 1914 (Prima Guerra Mondiale);
– L’intervento occidentale nella Guerra Civile Russa, 1918-1922 (Guerra Civile Russa);
– L’invasione tedesca dell'URSS nel 1941 (Seconda Guerra Mondiale).

Ognuna di queste guerre ha rappresentato una minaccia esistenziale per la sopravvivenza della Russia. Dal punto di vista russo, il mancato smantellamento militare della Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale, la creazione della NATO, l’incorporazione della Germania Ovest nella NATO nel 1955, l’espansione della NATO verso est dopo il 1991 e la continua espansione delle basi militari e dei sistemi missilistici statunitensi in tutta l’Europa orientale vicino ai confini della Russia hanno costituito le più gravi minacce alla sicurezza nazionale di Mosca dalla Seconda Guerra Mondiale.

Anche la Russia ha invaso verso occidente in diverse occasioni: 
– L’attacco russo alla Prussia orientale nel 1914;
– Il Patto Molotov-Ribbentrop nel 1939, che divise la Polonia tra Germania e Unione Sovietica e annesse gli stati baltici nel 1940;
– L’invasione della Finlandia nel novembre 1939 (Guerra d’Inverno);
– L’occupazione sovietica dell’Europa orientale dal 1945 al 1989;
– L’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022.

Queste azioni russe sono considerate dall’Europa come prova oggettiva dell’espansionismo russo verso occidente, eppure una tale visione è ingenua, a-storica e propagandistica. In tutti e cinque i casi, la Russia agiva per proteggere la propria sicurezza nazionale – come la vedeva – non per intraprendere un espansionismo verso occidente fine a se stesso.

Questa verità di base è la chiave per risolvere il conflitto Europa-Russia oggi. La Russia non cerca l’espansione verso occidente; la Russia cerca la sua sicurezza nazionale fondamentale. Tuttavia, l’Occidente ha a lungo fallito nel riconoscere, per non parlare di rispettare, gli interessi fondamentali di sicurezza nazionale della Russia.

Consideriamo questi cinque casi di presunto espansionismo russo verso occidente.

Il primo caso, l’attacco russo nella Prussia orientale nel 1914, può essere immediatamente messo da parte. Il Reich tedesco aveva mosso per primo dichiarando guerra alla Russia il 1° agosto 1914. L’invasione russa della Prussia orientale fu una risposta diretta alla dichiarazione di guerra della Germania.

Il secondo caso, l’accordo della Russia sovietica con il Terzo Reich di Hitler per dividere la Polonia nel 1939 e l’annessione degli stati baltici nel 1940, è considerato in Occidente la prova più pura della perfidia russa. Ancora una volta, questa è una lettura semplicistica e errata della storia. Storici come E. H. Carr, Stephen Kotkin e Michael Jabara Carley hanno documentato attentamente che Stalin si avvicinò a Gran Bretagna e Francia nel 1939 per formare un’alleanza difensiva contro Hitler, che aveva dichiarato la sua intenzione di fare guerra alla Russia in Oriente (per il Lebensraum, il lavoro schiavo slavo e la sconfitta del bolscevismo).

Il tentativo di Stalin di forgiare un’alleanza con le potenze occidentali fu completamente respinto. La Polonia rifiutò di permettere il transito alle truppe sovietiche sul suolo polacco in caso di guerra con la Germania. L’odio dell’élite occidentale per il comunismo sovietico era almeno tanto grande quanto la loro paura di Hitler. Infatti, una frase comune tra le élite di destra britanniche alla fine degli anni ’30 era “Meglio Hitler del Comunismo”.

Dato il fallimento nel garantire un’alleanza difensiva, Stalin mirò quindi a creare una zona cuscinetto contro l’imminente invasione tedesca della Russia. La spartizione della Polonia e l’annessione degli stati baltici furono tattiche, per guadagnare tempo per l’imminente battaglia dell’Armageddon con gli eserciti di Hitler, che arrivò il 22 giugno 1941 con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nell’Operazione Barbarossa. La precedente divisione della Polonia e l’annessione degli stati baltici potrebbero ben aver ritardato l’invasione e salvato l’Unione Sovietica da una rapida sconfitta per mano di Hitler.

Il terzo caso, la Guerra d’Inverno della Russia con la Finlandia, è similmente considerato in Europa occidentale (e specialmente in Finlandia) come prova della natura espansionistica della Russia. Eppure ancora una volta, la motivazione di base della Russia era difensiva, non offensiva. La Russia temeva che l’invasione tedesca sarebbe arrivata in parte attraverso la Finlandia, e che Leningrado sarebbe stata rapidamente catturata da Hitler.

L’Unione Sovietica propose quindi alla Finlandia di scambiare territori con l’Unione Sovietica (in particolare cedendo l’Istmo di Carelia e alcune isole nel Golfo di Finlandia in cambio di territori russi) per permettere la difesa russa di Leningrado. La Finlandia rifiutò questa proposta, e l’Unione Sovietica invase la Finlandia il 30 novembre 1939. Successivamente, la Finlandia si unì agli eserciti di Hitler nella guerra contro l’Unione Sovietica durante la “Guerra di continuazione” tra il 1941 e il 1944.

Il quarto caso, l’occupazione sovietica dell’Europa orientale (e la continuata annessione degli stati baltici) durante la Guerra Fredda, è considerato in Europa un’altra amara prova della minaccia fondamentale della Russia alla sicurezza europea. L’occupazione sovietica fu infatti brutale, ma anch’essa aveva una motivazione difensiva che è completamente trascurata nella narrativa dell’Europa occidentale e americana.

L’Unione Sovietica sopportò il peso della sconfitta di Hitler, perdendo ben 27 milioni di cittadini nella guerra. La Russia aveva una richiesta predominante alla fine della guerra: che i suoi interessi di sicurezza fossero garantiti da un trattato che la proteggesse da future minacce dalla Germania e dall’Occidente in generale. L’Occidente, guidato ora dagli Stati Uniti, rifiutò questa richiesta di sicurezza di base.

La Guerra Fredda è il risultato del rifiuto occidentale di rispettare le vitali preoccupazioni di sicurezza della Russia. Naturalmente, la storia della Guerra Fredda raccontata dalla narrativa occidentale è esattamente l’opposto – che la Guerra Fredda risultò unicamente dai tentativi bellicosi della Russia di conquistare il mondo!

Ecco la storia reale, ben nota agli storici ma quasi completamente sconosciuta al pubblico negli Stati Uniti e in Europa. Alla fine della guerra, l’Unione Sovietica cercò un trattato di pace che stabilisse una Germania unificata, neutrale e smilitarizzata. Alla Conferenza di Potsdam nel luglio 1945, a cui parteciparono i leader dell’Unione Sovietica, del Regno Unito e degli Stati Uniti, le tre potenze alleate concordarono “il completo disarmo e smilitarizzazione della Germania e l’eliminazione o il controllo di tutta l’industria tedesca che poteva essere usata per la produzione militare”.

La Germania sarebbe stata unificata, pacificata e smilitarizzata. Tutto questo sarebbe stato garantito da un trattato per porre fine alla guerra. In realtà, gli Stati Uniti e il Regno Unito lavorarono diligentemente per minare questo principio fondamentale.

A partire già dal maggio 1945, Winston Churchill incaricò il suo Capo di Stato Maggiore militare di formulare un piano di guerra per lanciare un attacco a sorpresa contro l’Unione Sovietica a metà del 1945, nome in codice Operazione Impensabile. Sebbene una tale guerra fosse considerata impraticabile dai pianificatori militari britannici, l’idea che americani e britannici dovessero prepararsi per una guerra imminente con l’Unione Sovietica si radicò rapidamente.

I pianificatori di guerra ritenevano che il momento probabile per una tale guerra fosse l’inizio degli anni ’50. L’obiettivo di Churchill, a quanto pare, era prevenire che la Polonia e altri paesi dell’Europa orientale cadessero sotto una sfera di influenza sovietica. Anche negli Stati Uniti, i massimi pianificatori militari arrivarono a considerare l’Unione Sovietica come il prossimo nemico dell’America entro settimane dalla resa della Germania nel maggio 1945.

Stati Uniti e Regno Unito reclutarono rapidamente scienziati nazisti e alti operativi dell’intelligence (come Reinhard Gehlen, un leader nazista che sarebbe stato sostenuto da Washington per stabilire l’agenzia di intelligence della Germania del dopoguerra) per iniziare a pianificare la guerra imminente con l’Unione Sovietica.

La Guerra Fredda scoppiò principalmente perché americani e britannici rifiutarono la riunificazione e la smilitarizzazione della Germania come concordato a Potsdam. Invece, le potenze occidentali abbandonarono la riunificazione tedesca formando la Repubblica Federale di Germania (RFT, o Germania Ovest) dalle tre zone di occupazione detenute da Stati Uniti, Regno Unito e Francia. La RFT sarebbe stata reindustrializzata e rimilitarizzata sotto l’egida americana. Entro il 1955, la Germania Ovest fu ammessa nella NATO.

Mentre gli storici dibattono ardentemente su chi rispettò o meno gli accordi di Potsdam (ad esempio, con l’Occidente che indica il rifiuto sovietico di permettere un governo veramente rappresentativo in Polonia, come concordato a Potsdam), non c’è dubbio che la rimilitarizzazione della Repubblica Federale di Germania da parte dell’Occidente fu la causa principale della Guerra Fredda.

Nel 1952, Stalin propose una riunificazione della Germania basata sulla neutralità e smilitarizzazione. Questa proposta fu respinta dagli Stati Uniti. Nel 1955, l’Unione Sovietica e l’Austria concordarono che l’Unione Sovietica avrebbe ritirato le sue forze di occupazione dall’Austria in cambio della promessa di quest’ultima di permanente neutralità.

Il Trattato di Stato austriaco fu firmato il 15 maggio 1955 dall’Unione Sovietica, dagli Stati Uniti, dalla Francia e dal Regno Unito, insieme all’Austria, portando così alla fine dell’occupazione. L’obiettivo dell’Unione Sovietica non era solo risolvere le tensioni sull’Austria ma anche mostrare agli Stati Uniti un modello di successo del ritiro sovietico dall’Europa unito alla neutralità.

Ancora una volta, gli Stati Uniti respinsero l’appello sovietico per porre fine alla Guerra Fredda basandosi sulla neutralità e smilitarizzazione della Germania. Ancora nel 1957, il decano americano degli affari sovietici, George Kennan, si appellava pubblicamente e ardentemente nella sua terza Reith Lecture per la BBC affinché gli Stati Uniti concordassero con l’Unione Sovietica un ritiro reciproco delle truppe dall’Europa.

L’Unione Sovietica, sottolineava Kennan, non mirava né era interessata a un’invasione militare dell’Europa occidentale. I “guerrieri freddi” americani, guidati da John Foster Dulles, non ne vollero sapere. Nessun trattato di pace fu firmato con la Germania per porre fine alla Seconda Guerra Mondiale fino alla riunificazione tedesca nel 1990.

Vale la pena sottolineare che l’Unione Sovietica rispettò la neutralità dell’Austria dopo il 1955, e degli altri paesi neutrali d’Europa (inclusi Svezia, Finlandia, Svizzera, Irlanda, Spagna e Portogallo). Il presidente finlandese Alexander Stubb ha recentemente dichiarato che l’Ucraina dovrebbe rifiutare la neutralità basandosi sulla negativa esperienza finlandese (con la neutralità finlandese terminata nel 2024, quando il paese ha aderito alla NATO).

Questo è un pensiero bizzarro. La Finlandia, sotto neutralità, rimase in pace, raggiunse una notevole prosperità economica e balzò in cima alle classifiche mondiali della felicità (secondo il World Happiness Report).

Il presidente John F. Kennedy mostrò la potenziale strada per porre fine alla Guerra Fredda basandosi sul rispetto reciproco degli interessi di sicurezza di tutte le parti. Kennedy bloccò il tentativo del cancelliere tedesco Konrad Adenauer di acquisire armi nucleari dalla Francia e quindi placò le preoccupazioni sovietiche su una Germania armata nuclearmente. Su quella base, JFK negoziò con successo il Trattato sulla messa al banda parziale degli esperimenti nucleari con la sua controparte sovietica Nikita Khrushchev.

Kennedy fu molto probabilmente assassinato diversi mesi dopo da un gruppo di agenti della CIA come risultato della sua iniziativa di pace. Documenti rilasciati nel 2025 confermano il sospetto a lungo nutrito che Lee Harvey Oswald fosse manovrato direttamente da James Angleton, un alto funzionario della CIA. La successiva apertura statunitense verso la pace con l’Unione Sovietica fu guidata da Richard Nixon. Anche lui fu travolto dagli eventi del Watergate, che hanno anche segni di un’operazione della CIA che non sono mai stati chiariti.

Mikhail Gorbachev alla fine pose fine alla Guerra Fredda sciogliendo unilateralmente il Patto di Varsavia e promuovendo attivamente la democratizzazione dell’Europa orientale. Io fui un partecipante in alcuni di quegli eventi e testimoniai alcune delle azioni di pacificazione di Gorbachev. Nell’estate del 1989, per esempio, Gorbachev disse alla leadership comunista della Polonia di formare un governo di coalizione con le forze di opposizione guidate dal movimento Solidarność.

La fine del Patto di Varsavia e la democratizzazione dell’Europa orientale, tutte guidate da Gorbachev, portarono rapidamente alle richieste del cancelliere tedesco Helmut Kohl per la riunificazione della Germania. Questo portò ai trattati di riunificazione del 1990 tra RFT e RDT, e al cosiddetto Trattato 2+4 tra le due Germanie e le quattro potenze alleate: Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Unione Sovietica.

Gli Stati Uniti e la Germania promisero chiaramente a Gorbachev nel febbraio 1990 che la NATO “non si sarebbe spostata di un pollice verso est” nel contesto della riunificazione tedesca, un fatto che ora è ampiamente negato dalle potenze occidentali ma che è facilmente verificabile. Quella promessa chiave di non procedere con l’allargamento della NATO fu fatta in diverse occasioni, ma non fu inclusa nel testo dell’Accordo 2+4, poiché quell’accordo riguardava la riunificazione tedesca, non l’espansione verso est della NATO.

Il quinto caso, l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, è ancora una volta considerato in Occidente come prova dell’incorreggibile imperialismo russo verso occidente. La parola preferita da media, esperti e propagandisti occidentali è che l’invasione russa fu “non provocata”, e quindi è prova dell’implacabile ricerca di Putin non solo di ristabilire l’Impero Russo ma di spostarsi ulteriormente a occidente, il che significa che l’Europa dovrebbe prepararsi alla guerra con la Russia.

Questa è una colossale menzogna, ma è ripetuta così spesso dai media mainstream che è ampiamente creduta in Europa.

Il fatto è che l’invasione russa del febbraio 2022 fu così profondamente provocata dall’Occidente che si sospetta che fosse davvero un disegno americano per attirare i russi in guerra per sconfiggere o indebolire la Russia. Questa è un’affermazione credibile, come conferma una lunga serie di dichiarazioni di numerosi funzionari statunitensi. Dopo l’invasione, il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin dichiarò che l’obiettivo di Washington era “vedere la Russia indebolita al punto da non poter fare le cose che ha fatto invadendo l’Ucraina. L’Ucraina può vincere se ha l’equipaggiamento giusto, il supporto giusto”.

La provocazione americana predominante alla Russia fu di espandere la NATO verso est, contrariamente alle promesse del 1990, con un importante obiettivo: circondare la Russia con stati NATO nella regione del Mar Nero, rendendo così la Russia incapace di proiettare il suo potere navale con base in Crimea nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente.

In essenza, l’obiettivo americano era lo stesso dell’obiettivo di Palmerston e Napoleone III nella Guerra di Crimea: bandire la flotta russa dal Mar Nero. I membri della NATO avrebbero incluso Ucraina, Romania, Bulgaria, Turchia e Georgia, formando così un cappio per strangolare il potere navale russo nel Mar Nero.

Brzezinski descrisse questa strategia nel suo libro del 1997 La grande scacchiera, dove affermò che la Russia si sarebbe sicuramente piegata alla volontà occidentale, poiché non aveva altra scelta. Brzezinski respinse specificamente l’idea che la Russia si sarebbe mai allineata con la Cina contro l’Europa.

L’intero periodo dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991 è di hubris occidentale (come lo storico Jonathan Haslam intitolò il suo superbo resoconto), in cui Stati Uniti e Europa credettero di poter spingere la NATO e i sistemi d’arma americani (come i missili Aegis) verso est senza alcuna considerazione per le preoccupazioni di sicurezza nazionale della Russia. L’elenco delle provocazioni occidentali è troppo lungo per essere fornito in dettaglio qui, ma un riassunto include quanto segue.

Primo, contrariamente alle promesse fatte nel 1990, gli Stati Uniti iniziarono l’allargamento verso est della NATO con gli annunci del allora presidente Bill Clinton nel 1994. All’epoca, il Segretario alla Difesa di Clinton, William Perry, considerò di dimettersi per la temerarietà delle azioni statunitensi, contrarie alle precedenti promesse.

La prima ondata di allargamento della NATO avvenne nel 1999, includendo Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Nello stesso anno, le forze della NATO bombardarono per 78 giorni l’alleato della Russia, la Serbia, per spezzarla, e la NATO rapidamente piazzò una nuova grande base militare nella provincia secessionista del Kosovo.

Nel 2004, la seconda ondata di espansione verso est della NATO incluse sette paesi, compresi i diretti vicini della Russia nei Balcani, e due paesi sul Mar Nero – Bulgaria e Romania. Nel 2008, la maggior parte dell’UE riconobbe il Kosovo come stato indipendente, contrariamente alle proteste europee per cui “i confini sono sacri”.

Secondo, gli Stati Uniti abbandonarono il quadro di controllo degli armamenti nucleari uscendo unilateralmente dal Trattato ABM nel 2002. Nel 2019, Washington similmente abbandonò il Trattato INF. Nonostante le strenue obiezioni russe, gli Stati Uniti iniziarono a piazzare sistemi di missili anti-balistici in Polonia e Romania, e nel gennaio 2022, si riservarono il diritto di piazzare tali sistemi in Ucraina.

Terzo, gli Stati Uniti infiltrarono profondamente la politica interna ucraina, spendendo miliardi di dollari per modellare l’opinione pubblica, creare organi di informazione e dirigere la politica domestica ucraina. Le elezioni del 2004-2005 in Ucraina sono ampiamente considerate una “rivoluzione colorata” statunitense, in cui gli Stati Uniti usarono la loro influenza e finanziamenti occulti e palesi per dirigere l’elezione a favore dei candidati sostenuti dagli USA.

Nel 2013-2014, gli Stati Uniti giocarono un ruolo diretto nel finanziare le proteste di Maidan e nel sostenere il violento colpo di stato che rovesciò il presidente filo-neutralità Viktor Yanukovych, aprendo così la strada a un regime ucraino favorevole all’adesione alla NATO. Per inciso, fui invitato a visitare il Maidan poco dopo il violento colpo di stato del 22 febbraio 2014 che rovesciò Yanukovych. Il ruolo del finanziamento americano alle proteste mi fu spiegato da una ONG statunitense che era profondamente coinvolta negli eventi di Maidan.

Quarto, a partire dal 2008, nonostante le obiezioni di diversi leader europei, gli Stati Uniti spinsero la NATO a impegnarsi per l’allargamento a Ucraina e Georgia. L’ambasciatore statunitense a Mosca all’epoca, William J. Burns, telegrafò a Washington un memo ora tristemente noto intitolato “Nyet Means Nyet: Russia’s NATO Enlargement Redlines“, spiegando che l’intera classe politica russa era profondamente contraria all’allargamento della NATO all’Ucraina e che temeva che tale sforzo avrebbe portato a disordini civili in Ucraina.

Quinto, in seguito al colpo di stato di Maidan, le regioni etnicamente russe dell’Ucraina orientale (Donbass) si staccarono dal nuovo governo ucraino occidentale insediato dal colpo di stato. Russia e Germania rapidamente concordarono gli Accordi di Minsk, secondo i quali le due regioni secessioniste (Donetsk e Lugansk) sarebbero rimaste parte dell’Ucraina ma con autonomia locale, modellata sull’autonomia locale della regione etnicamente tedesca del Sud Tirolo in Italia.

Minsk II, che era sostenuto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, avrebbe potuto porre fine al conflitto, ma il governo di Kyiv, con il supporto di Washington, decise di non implementare l’autonomia. Il fallimento nell’implementare Minsk II avvelenò la diplomazia tra Russia e Occidente.

Sesto, gli Stati Uniti aumentarono costantemente la dimensione dell’esercito ucraino (attivi più riserve) a circa un milione di soldati entro il 2020. L’Ucraina e i suoi battaglioni paramilitari di destra (come il Battaglione Azov e il Settore Destro) guidarono ripetuti attacchi contro le due regioni secessioniste, con migliaia di morti civili nel Donbass a causa dei bombardamenti ucraini.

Settimo, alla fine del 2021, la Russia mise sul tavolo una bozza di Accordo di Sicurezza Russia-Stati Uniti, chiedendo principalmente la fine dell’allargamento della NATO. Gli Stati Uniti respinsero la richiesta russa di porre fine all’allargamento verso est della NATO, riaffermando la politica della “porta aperta” della NATO, secondo la quale paesi terzi, come la Russia, non avrebbero avuto voce in capitolo riguardo all’allargamento dell'alleanza atlantica.

Gli Stati Uniti e i paesi europei ribadirono ripetutamente l’eventuale ingresso dell’Ucraina nella NATO. Il Segretario di Stato americano disse al Ministro degli Esteri russo nel gennaio 2022 che gli Stati Uniti mantenevano il diritto di schierare missili a medio raggio in Ucraina, nonostante le obiezioni russe.

Ottavo, in seguito all’invasione russa del 24 febbraio 2022, l’Ucraina rapidamente accettò negoziati di pace basati su un ritorno alla neutralità. Questi negoziati si svolsero a Istanbul con la mediazione della Turchia. Alla fine di marzo 2022, Russia e Ucraina pubblicarono un memorandum congiunto che riportava progressi in un accordo di pace. Il 15 aprile, fu presentata una bozza di accordo che era vicina a una soluzione complessiva.

A quel punto, gli Stati Uniti intervennero e dissero agli ucraini che non avrebbero sostenuto l’accordo di pace ma invece sostenevano l’Ucraina a continuare a combattere. 

Gli alti costi di una politica estera fallita

La Russia non ha avanzato alcuna rivendicazione territoriale contro i paesi dell’Europa occidentale, né ha minacciato l’Europa occidentale a parte il diritto di ritorsione contro attacchi missilistici assistiti dall’Occidente all’interno della Russia. Fino al colpo di stato di Maidan del 2014, la Russia non avanzò alcuna rivendicazione territoriale sull’Ucraina.

Dopo il colpo di stato del 2014, e fino alla fine del 2022, l’unica richiesta territoriale della Russia era la Crimea, per prevenire che la base navale russa a Sebastopoli cadesse in mani occidentali.

Solo dopo il fallimento del processo di pace di Istanbul – affondato dagli Stati Uniti – la Russia rivendicò l’annessione dei quattro oblast ucraine (Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia). Gli obiettivi di guerra dichiarati dalla Russia oggi rimangono limitati, inclusa la neutralità dell’Ucraina, parziale smilitarizzazione, permanente non appartenenza alla NATO, e trasferimento di Crimea e delle quattro oblast alla Russia, costituenti circa il 19% del territorio ucraino del 1991.

Queste non sono “evidenze dell’imperialismo russo verso occidente”. Né sono risposte non provocate. Gli obiettivi di guerra della Russia seguono più di 30 anni di obiezioni russe all’espansione verso est della NATO, all’armamento dell’Ucraina, all’abbandono americano del quadro di controllo degli armamenti nucleari, e alla profonda ingerenza occidentale nella politica interna ucraina, incluso il supporto per un violento colpo di stato nel 2014 che mise NATO e Russia su una rotta di collisione diretta.

L’Europa ha scelto di interpretare gli eventi degli ultimi 30 anni come prova dell’implacabile e incorreggibile espansionismo russo verso occidente – proprio come l’Occidente insistette che l’Unione Sovietica da sola fosse responsabile della Guerra Fredda, quando in realtà l’Unione Sovietica indicò ripetutamente la strada per la pace attraverso la neutralità, l'unificazione e il disarmo della Germania.

Proprio come durante la Guerra Fredda, l’Occidente scelse di provocare la Russia piuttosto che riconoscere le preoccupazioni di sicurezza di Mosca come del tutto comprensibili. Ogni azione russa è stata interpretata al massimo come un segno di “perfidia”, senza mai riconoscere il punto di vista russo del dibattito. Questo è un vivido esempio del classico dilemma di sicurezza, in cui gli avversari parlano solo tra loro assumendo il peggio e agendo aggressivamente sulle base delle loro errate supposizioni.

La scelta dell’Europa di interpretare la Guerra Fredda e il post-Guerra Fredda da questa prospettiva fortemente di parte le è costata enormemente, e i costi continuano a crescere. Soprattutto, l’Europa è giunta a vedersi come completamente dipendente dagli Stati Uniti per la sua sicurezza. Se la Russia è davvero incorreggibilmente “espansionista”, allora gli Stati Uniti sono veramente il necessario “salvatore dell’Europa”.

Se, al contrario, il comportamento della Russia in realtà rifletteva le sue preoccupazioni di sicurezza, allora la Guerra Fredda avrebbe potuto molto probabilmente finire decenni prima sul modello della neutralità austriaca, e l’era post-Guerra Fredda avrebbe potuto essere un periodo di pace e crescente fiducia tra Russia ed Europa.

In realtà, Europa e Russia sono economie complementari, con la Russia ricca di materie prime (agricoltura, minerali, idrocarburi) e ingegneria, e l’Europa sede di industrie ad alta intensità energetica e alte tecnologie chiave. Gli Stati Uniti hanno a lungo osteggiato i crescenti legami commerciali tra Europa e Russia risultanti da questa naturale complementarietà, vedendo l’industria energetica russa come un concorrente del settore energetico statunitense, e più in generale vedendo gli stretti legami commerciali e di investimento tedesco-russi come una minaccia al predominio politico ed economico americano in Europa occidentale.

Per queste ragioni, gli Stati Uniti si opposero ai gasdotti Nord Stream 1 e 2 ben prima che ci fosse un conflitto in Ucraina. Per questa ragione, Biden promise esplicitamente di porre fine a Nord Stream 2 – come poi avvenne – in caso di invasione russa dell’Ucraina. L’opposizione americana al Nord Stream, e agli stretti legami economici tedesco-russi, era su principi generali: l’UE e la Russia dovrebbero essere tenute a distanza, per paura che gli Stati Uniti perdano la loro influenza in Europa.

La guerra in Ucraina e la rottura dell’Europa con la Russia hanno fatto grandi danni all’economia europea. Le esportazioni europee verso la Russia sono crollate, da circa 90 miliardi di euro nel 2021 a soli 30 miliardi di euro nel 2024. I costi energetici sono saliti alle stelle, poiché l’Europa è passata dal gas naturale a basso costo dei gasdotti russi al gas naturale liquefatto statunitense, che è diverse volte più costoso.

La produzione dell’industria tedesca è diminuita di circa il 10% dal 2020, e sia il settore chimico che quello automobilistico sono in difficoltà. Il FMI prevede una crescita economica dell’UE di appena l’1% nel 2025 e circa l’1,5% per il resto del decennio.

Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha chiesto un divieto permanente di ristabilire i flussi di gas di Nord Stream, ma questo è quasi un patto di suicidio economico per la Germania. Si basa sulla visione di Merz che la Russia miri alla guerra con la Germania, ma il fatto è che la Germania sta provocando la guerra con la Russia impegnandosi in bellicismo e in un massiccio accumulo militare.

Secondo Merz, “è necessaria una visione realistica delle aspirazioni imperialiste della Russia”. Afferma che “Parte della nostra società ha una paura radicata della guerra. Io non la condivido, ma posso capirla”. Ancora più allarmante, Merz ha dichiarato che “i mezzi della diplomazia si sono esauriti”, anche se non ha nemmeno provato a parlare con il presidente russo Vladimir Putin da quando è al potere. Inoltre, sembra volontariamente cieco davanti al “quasi successo” della diplomazia nel 2022 nel processo di Istanbul – cioè, prima che gli Stati Uniti mettessero fine alla diplomazia.
 
L’approccio occidentale alla Cina rispecchia quello verso la Russia

L’Occidente attribuisce spesso alla Cina intenzioni nefaste che, in molti casi, sono proiezioni delle sue stesse intenzioni ostili nei confronti della Repubblica Popolare. La rapida ascesa della Cina alla preminenza economica tra il 1980 e il 2010 ha portato i leader e gli strateghi americani a considerare la sua ulteriore crescita come contraria agli interessi degli Stati Uniti.

Nel 2015, gli strateghi statunitensi Robert Blackwill e Ashley Tellis hanno spiegato chiaramente che la strategia globale degli Stati Uniti coincide con l’egemonia americana, e che la Cina costituisce una minaccia a tale egemonia a causa delle sue dimensioni e del suo successo.

Blackwill e Tellis hanno proposto una serie di misure da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati per ostacolare il successo economico futuro della Cina: escluderla dai nuovi blocchi commerciali nell’Asia-Pacifico, limitare l’esportazione di tecnologie occidentali avanzate verso la Cina, imporre dazi e restrizioni alle esportazioni cinesi, oltre ad altre misure anti-Cina.

È importante notare che queste misure sono state raccomandate non a causa di specifici illeciti da parte della Cina, ma semplicemente perché, secondo gli autori, la crescita economica cinese era contraria alla supremazia americana.

Una parte della politica estera verso Russia e Cina consiste anche in una guerra mediatica volta a screditare questi presunti nemici dell’Occidente. Nel caso della Cina, l’Occidente l’ha accusata di genocidio nella provincia dello Xinjiang contro la popolazione uigura. Questa accusa assurda ed esagerata è stata avanzata senza alcun serio tentativo di presentare prove, mentre l’Occidente chiude generalmente gli occhi di fronte al vero genocidio in corso di decine di migliaia di palestinesi a Gaza da parte del suo alleato, Israele.

Inoltre, la propaganda occidentale include numerose affermazioni infondate sull’economia cinese. L’iniziativa cinese “Belt and Road” (Nuova Via della Seta), di grande valore per i paesi in via di sviluppo perché offre finanziamenti per infrastrutture moderne, viene derisa come una “trappola del debito”. La straordinaria capacità della Cina di produrre tecnologie verdi, come i pannelli solari di cui il mondo ha urgente bisogno, viene bollata dall’Occidente come “sovraccapacità” da ridurre o eliminare.

Sul piano militare, il dilemma della sicurezza nei confronti della Cina viene interpretato nel modo più allarmistico, proprio come accade con la Russia. Gli Stati Uniti dichiarano da tempo la loro capacità di interrompere le rotte marittime vitali per la Cina, ma poi accusano Pechino di militarismo quando essa prende contromisure rafforzando la propria marina militare.

Invece di interpretare l’aumento della spesa militare cinese come un classico dilemma della sicurezza da risolvere con la diplomazia, la Marina degli Stati Uniti afferma che dovrebbe prepararsi alla guerra con la Cina entro il 2027. La NATO chiede sempre più spesso un coinvolgimento attivo in Asia orientale, con obiettivo la Cina. Gli alleati europei degli Stati Uniti, in genere, si conformano all’approccio aggressivo americano verso la Cina, sia in ambito commerciale che militare.

Una nuova politica estera per l’Europa

L’Europa si è cacciata in un angolo, rendendosi subalterna agli Stati Uniti, evitando la diplomazia diretta con la Russia, perdendo competitività economica a causa delle sanzioni e della guerra, impegnandosi in aumenti massicci e insostenibili della spesa militare, e interrompendo legami commerciali e di investimento a lungo termine con Russia e Cina.

Il risultato è aumento del debito, stagnazione economica e un crescente rischio di una grande guerra, che apparentemente non spaventa Merz ma dovrebbe terrorizzare il resto di noi.

Forse la guerra più probabile non è con la Russia ma con gli Stati Uniti, che sotto Trump hanno minacciato di sequestrare la Groenlandia se la Danimarca non l’avesse venduta o ceduta alla sovranità americana. È del tutto possibile che l’Europa si ritrovi senza veri amici: né con Russia, né con Cina, ma neppure con gli Stati Uniti, né con gli Stati arabi (risentiti per l’indifferenza europea verso il genocidio di Israele), né con l’Africa (ancora ferita dal colonialismo e post-colonialismo europeo), e nemmeno altrove.

Esiste, naturalmente, un’altra via, una via promettente, se i politici europei rivalutassero i veri interessi e rischi per la sicurezza europea, e riportassero la diplomazia al centro della politica estera europea. Propongo dieci passi concreti per realizzare una politica estera che rifletta i reali bisogni dell’Europa.
 
Dieci passi per una nuova politica estera europea

1) Avviare comunicazioni diplomatiche dirette con Mosca. Il fallimento palpabile dell’Europa nel dialogo diretto con la Russia è devastante. Forse l’Europa crede alla propria propaganda, visto che non affronta direttamente le questioni chiave con la controparte russa.
2) Prepararsi a una pace negoziata con la Russia riguardo l’Ucraina e la sicurezza collettiva europea. L’elemento chiave è un impegno fermo e irrevocabile a non espandere la NATO in Ucraina, Georgia o altrove verso est. Inoltre, l’Europa dovrebbe accettare alcuni cambiamenti territoriali pragmatici in favore della Russia.
3) Rifiutare la militarizzazione dei rapporti con la Cina, ad esempio opponendosi al coinvolgimento della NATO in Asia orientale. La Cina non è affatto una minaccia per la sicurezza dell’Europa, e l’Europa dovrebbe smettere di appoggiare ciecamente le pretese egemoniche americane in Asia, che sono già abbastanza pericolose e illusorie anche senza il supporto europeo. Al contrario, si dovrebbero rafforzare i legami commerciali, di investimento e di cooperazione climatica con la Cina.
4) Scegliere una modalità diplomatica istituzionale sensata. L’attuale modalità è inefficace. L’Alto rappresentante dell’UE per la politica estera è principalmente un portavoce della russofobia, mentre la diplomazia di alto livello – laddove esiste – è guidata in modo confuso da leader nazionali (l’Alto rappresentante, la Presidente della Commissione Europea, il Presidente del Consiglio Europeo) o una combinazione variabile di questi. In breve: nessuno parla con chiarezza per conto dell’Europa, perché non esiste una vera politica estera europea.
5) Separare la politica estera europea dalla NATO. In realtà, l’Europa non ha bisogno della NATO, poiché la Russia non intende invadere l’UE. L’Europa dovrebbe sì costruire una propria capacità militare, indipendente dagli Stati Uniti, ma con costi molto inferiori al 5% del PIL, un obiettivo numerico assurdo basato su una valutazione del tutto esagerata della minaccia russa. Inoltre, la difesa europea non deve coincidere con la politica estera europea.
6) Collaborare con Russia, India e Cina alla modernizzazione verde, digitale e dei trasporti dello spazio eurasiatico. Lo sviluppo sostenibile dell’Eurasia è una vittoria per tutti e quattro i principali attori eurasiatici, e può realizzarsi solo attraverso una cooperazione pacifica.
7) Unire la Global Gateway europea con la Belt and Road cinese. Attualmente, la Global Gateway è presentata come concorrente della BRI. In realtà, le due iniziative dovrebbero cooperare nel cofinanziamento delle infrastrutture verdi, digitali e di trasporto per l’Eurasia.
8) Aumentare il finanziamento del Green Deal europeo (EGD). Questo accelererebbe la transizione a un futuro a basse emissioni. I benefici sarebbero due: maggiore sicurezza climatica regionale e globale; e maggiore competitività europea nelle tecnologie verdi e digitali, creando un nuovo modello di crescita.
9) Collaborare con l’Unione Africana per un’espansione massiccia dell’istruzione e della formazione professionale. Con una popolazione che passerà da 1,4 a circa 2,5 miliardi entro metà secolo (contro i 450 milioni dell’UE), il futuro dell’Africa influenzerà profondamente l’Europa. La speranza per la prosperità africana è nella rapida diffusione di istruzione avanzata e competenze.
10) UE e BRICS dovrebbero dire chiaramente agli Stati Uniti che il futuro ordine mondiale non si baserà sull’egemonia, ma sullo stato di diritto sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. Questa è l’unica via per garantire la vera sicurezza dell’Europa e del mondo. La dipendenza dagli Stati Uniti e dalla NATO è una crudele illusione, soprattutto alla luce dell’instabilità degli stessi Stati Uniti. Al contrario, una riaffermazione della Carta delle Nazioni Unite può porre fine alle guerre (ad esempio, ponendo fine all’impunità di Israele e applicando le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia per la soluzione a due Stati) e prevenire futuri conflitti.

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Ucraina - Ucciso a Leopoli Andriy Parubiy, uno dei nazisti alla testa di Euromaidan

Ieri è stato ucciso Andriy Parubiy, un criminale nazista ucraino che ha avuto un ruolo di primo piano nel golpe di Euromaidan e nella strage di Odessa. È stato raggiunto in una strada di Leopoli, dove è stato freddato con ben 8 colpi di pistola da una persona vestita come un corriere di Glovo, che ha poi nascosto l’arma nel borsone e si è dileguata.

Andriy Parubiy era un nome importante delle vicende ucraine degli ultimi decenni, sin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Infatti, già nel 1991, insieme a Oleh Tjahnybok, Parubiy aveva fondato il Partito social-nazionale d’Ucraina, di stampo neonazista, che si sarebbe poi trasformato nel più conosciuto Svoboda.

Nel 2004 cerca di ripulire il curriculum, abbandonando il partito e avvicinandosi a una destra più ‘moderata’, quella di Blocco Ucraina Nostra: l’obiettivo di farsi eleggere in Parlamento viene raggiunto. Nel 2012 passa nelle liste del partito Patria, della ex primo ministro Julija Tymošenko, altra promotrice delle sommosse del 2014.

I legami con le formazioni paramilitari neonaziste ucraine lo pongono in una posizione centrale negli eventi di Euromaidan. Egli, infatti, è la guida delle “forze di autodifesa del Maidan”. Il ruolo di primo piano svolto nel golpe gli permette di ricoprire poi importanti posizioni, come la segreteria del Consiglio di sicurezza e anche la presidenza del Parlamento ucraino, fino al 2019.

Passato a Solidarietà Europea, il partito di Petro Poroshenko, si ritrova all’opposizione dopo la vittoria di Zelensky. La sua influenza sulla politica ‘alta’, parlamentare, si era molto ridotto, soprattutto da quando il nuovo presidente non accenna a voler cedere i suoi poteri. Ma di certo rimaneva un punto di riferimento per i movimenti di estrema destra dell’Ucraina.

Per questo sono tanti i dubbi intorno al suo omicidio. Per arrestare il ricercato è stata avviata un’operazione speciale, denominata ‘Siren’, e intanto in molti ripensano a un caso simile, avvenuto poco più di un anno fa. Anche Iryna Farion, altra esponente della galassia golpista di Euromaidan e poi parlamentare di Svoboda, era stata uccisa a colpi di pistola per le strade di Leopoli.

Non è facile capire se le motivazioni dell’eliminazione di Parubiy possano essere le stesse di quella della Farion, che rimangono ancora oscure. Dalle autorità ucraine si sente parlare di una possibile pista russa, ma risulta piuttosto difficile pensare che i servizi di Mosca si scomodino per un personaggio che, al di là di tutto, aveva perso il peso che aveva avuto negli anni precedenti.

L’altra ipotesi è che si tratti di un regolamento di conti interno. Forse commissionato dalle stesse formazioni neonaziste, poiché Parubiy non sarebbe riuscito a raggiungere l’obiettivo di riprendere il Donbass, e anzi ora si parla addirittura di una possibile pace con la Russia, con la cessione delle regioni orientali ucraine.

Appena qualche giorno fa, Sergey Sternenko, ex leader di Pravy Sector e anch’egli tra coloro che si è macchiato del sangue delle vittime della Casa dei sindacati di Odessa, ha rilasciato un’intervista durante la quale ha candidamente affermato che Zelensky rischia il collasso politico e poi l’eliminazione fisica, nel caso in cui ritirasse le truppe dal Donbass.

Questo è il clima della ‘democratica’ Ucraina. Intanto, la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, su X si è detta “profondamente sconvolta dal terribile assassinio”. Non sorprende che dai vertici UE si esprima vicinanza a un nazista che aveva fatto il lavoro sporco necessario a legare Kiev a Bruxelles, ponendo le basi del conflitto che dura ormai dal 2014.

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Il Pentagono marca il territorio in Sud America: l’allarme militare che è passato inosservato

Mentre schierano marines e navi da guerra al largo del Venezuela e minacciano interventi in Messico, Colombia, Haiti ed El Salvador con il pretesto del narcotraffico, gli Stati Uniti hanno radunato a Buenos Aires i ministri della Difesa della regione per esigere l’allineamento contro la Cina e rafforzare il loro dominio nei “punti critici” strategici del Cono Sud, in un gesto di neocolonialismo che i media mainstream hanno preferito tacere.

Questa settimana, in territorio argentino, l’America Latina ha ricevuto un nuovo avvertimento di allineamento automatico o rischio di intervento militare da parte del Pentagono. Ciò che colpisce è che, nonostante la pericolosità di questa minaccia, quasi nessuno se n’è accorto. Perché? I media – astutamente – non l’hanno segnalato. Ci sono piani che è meglio mantenere segreti.

Cautela o meno, l’escalation statunitense sulla nostra regione è evidente. Mentre la Marina degli Stati Uniti schiera oltre 4.000 marines e diverse navi da guerra al largo delle coste del Venezuela, nel Mar dei Caraibi, e mentre il presidente Donald Trump ordina i preparativi per l’uso della forza militare contro Messico, Colombia, Haiti ed El Salvador (con il pretesto della guerra alla droga), nel sud del continente, a Buenos Aires, il capo del Pentagono Alvin Holsey ha guidato un incontro con tutti i ministri della Difesa sudamericani per esigere obbedienza e impartire istruzioni.

Tra il 19 e il 21 agosto, riuniti nella 16a Conferenza di Difesa Sudamericana (Southdec), l’ammiraglio Holsey è stato chiaro con i suoi omologhi sudamericani: il sud, in particolare lo Stretto di Magellano e il Passaggio di Drake, è strategico per gli Stati Uniti e il Comando Sud del Pentagono è disposto a rafforzare il predominio marittimo contro la nefasta incursione cinese.

Sulla stessa linea del suo predecessore, il generale Laura Richardson, Holsey ha avvertito: “La loro presenza e influenza hanno conseguenze di vasta portata su tutti i fronti, soprattutto nel Cono Sud, dove linee di comunicazione marittime vitali, come lo Stretto di Magellano e il Passaggio di Drake, fungono da colli di bottiglia strategici che potrebbero essere utilizzati dal Partito Comunista Cinese per proiettare il suo potere, interrompere il commercio e sfidare la sovranità delle nostre nazioni e la neutralità dell’Antartide”.

Questi “colli di bottiglia”, noti anche come “punti di strangolamento” (choke points), sono passaggi strategici attraverso i quali circola l’80% del commercio globale, ed è essenziale per l’impero mantenerne il controllo. Sono: Gibilterra, il Canale di Suez, Bab el-Mandab, lo Stretto di Hormuz, lo Stretto di Malacca nell’Indo-Pacifico, lo Stretto del Bosforo e dei Dardanelli (in Turchia, che collega il Mediterraneo e il Mar Nero), il Canale di Panama, lo Stretto di Magellano-Passaggio di Drake (dominato dalla presenza britannica nelle Malvine) e lo Stretto di Bering (tra Russia e Alaska), vicino al luogo in cui si sono incontrati Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin la scorsa settimana.

La Casa Bianca, disperata per mantenere la sua supremazia globale e terrorizzata dall’avanzata della Cina, ha lanciato – ancora una volta nella storia della regione – un programma di ingerenza e violenza che ricorre a tutti i mezzi: economici, politici e militari. L’attacco all’economia e alla politica del Brasile con l’imposizione di dazi del 50%; la minaccia di un’invasione militare contro il Venezuela; e le continue vessazioni contro i governi di Gustavo Petro in Colombia e Claudia Sheinbaum in Messico non devono essere intesi come eventi isolati. I Paesi che si proclamano sovrani sono sotto assedio.

Nuove guerre, vecchi argomenti

La ricercatrice canadese Dawn Marie Paley, nel suo libro “Capitalismo antidroga” (2024), fornisce prove di come la cosiddetta “guerra contro le droghe” abbia servito gli interessi del capitale transnazionale, consentendo la firma di contratti di sicurezza, la privatizzazione delle funzioni statali, il controllo di territori strategici e “un’intera architettura di violenza legalizzata al servizio del mercato globale”.

Ma, oltre a servire il mercato, la “guerra alla droga” è stata, per quasi 40 anni, una scusa straordinaria per rafforzare la presenza militare e giustificare l’ingerenza imperialista nella nostra regione.

Con la scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991, il “pericolo comunista” ha cessato di essere una valida ragione per l’intervento nei nostri paesi, e sono comparse, nei documenti militari statunitensi, “le nuove minacce: la criminalità organizzata, il narcotraffico e i disastri naturali” come nuovo pretesto.

Il presidente Nicolás Maduro, non solo per la ricchezza petrolifera del Venezuela, ma perché il suo governo è la dimostrazione concreta che una rivoluzione popolare è possibile, è nel mirino di Washington. Il Procuratore Generale degli Stati Uniti, Pamela Bondi, ha annunciato una taglia di 50 milioni di dollari sulla testa del venezuelano. Spiegando le sue motivazioni, ha affermato, senza fornire prove, che “il regno del terrore di Maduro continua. È uno dei maggiori narcotrafficanti del mondo e una minaccia per la nostra sicurezza nazionale. Sotto la guida del presidente Trump, Maduro non sfuggirà alla giustizia e renderà conto dei suoi crimini spregevoli”.

Il Segretario di Stato, Marco Rubio, ha alzato la posta: “Dobbiamo far fronte con qualcosa di più delle ricompense. Noi non riconosciamo la legittimità del suo governo. È a capo di un’organizzazione logistica dedita al narcotraffico, il Cartello dei los Sols, che è essenzialmente gestita dall’esercito, che opera impunemente in acque internazionali e rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale degli USA”.

Diversi paesi latinoamericani, come Brasile, Messico e Colombia, hanno espresso la loro solidarietà a Maduro. Anche altri paesi fuori dal continente, come la Russia, lo hanno fatto. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha chiamato la vicepresidente venezuelana Delcy Rodríguez per ribadire “il suo ampio sostegno agli sforzi di Caracas per proteggere la sovranità nazionale e la stabilità di fronte alle crescenti pressioni esterne”.

Al contrario, i governi asserviti a Washington, come Ecuador e Argentina, facilitano la presenza illegale e violenta degli USA nella nostra regione. A Buenos Aires, durante il vertice dei Ministri della Difesa, il capo del Comando Sud ha anche fatto appello alla narrativa della “lotta contro le organizzazioni criminali e transnazionali”, che presumibilmente avvantaggia i nostri Paesi.

L’ammiraglio Holsey era accompagnato dal Vice Ministro della Difesa nazionale e degli Affari dell’Emisfero Occidentale del Pentagono, Roosevelt Ditlevson, che ha confermato che la nostra regione è una priorità fondamentale per Trump. Si è concentrato sulla necessità di proteggere confini, porti e spazio aereo e, soprattutto, di investire nella difesa e nell’addestramento delle forze armate. Questo riferimento evoca immediatamente la nefasta “Scuola delle Americhe” di Panama, un centro di addestramento per i militari che in seguito avrebbe occupato la leadership delle dittature regionali.

Ditlevson non ha escluso un conflitto armato nella regione. Riferendosi alla Cina, ha affermato che “le minacce che affrontiamo sono reali. Sono qui e stiamo facendo progressi concreti. È una minaccia alla sovranità e alla sicurezza. Non vogliamo la guerra con la Cina. Tuttavia, lavoreremo per prevenire minacce nella regione”.

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Guerrafondai senza un soldo: “l’Europa” che straparla e nessuno se la fila

Anche a vederla da lontano l’ostinazione con cui i principali paesi dell’Unione Europea si sforzano di far proseguire la guerra in Ucraina sembra decisamente illogica. Se infatti è pur vero che il capitalismo, in genere, quando arriva alla crisi comincia a produrre guerra, bisogna comunque ricordare che questo insieme – l’Europa a 27 – non è affatto al centro del sistema imperialista, ma piuttosto in una posizione secondaria e strategicamente molto debole. Il che consiglierebbe molta prudenza e molta meno esaltazione propagandistica.

Sono gli Stati Uniti, in effetti, l’epicentro mondiale della crisi in atto, al punto che all’interno di quel paese si va assistendo ad un clamoroso scontro – di classe, ovviamente, ma anche di egemonia tra i diversi settori in cui è frammentata l’economia statunitense, con colossi in ognuno di essi: industria, finanza, piattaforme di quella che un tempo veniva definita new economy.

Uno scontro che va cancellando non solo i pilastri fondamentali dell’“ordine internazionale” fondato proprio dagli Usa nel secondo dopoguerra (irrobustito poi dal crollo dell’Urss e quindi dall’instaurazione di un “ordine unipolare” globalizzato), ma anche e forse soprattutto gli architravi dell’ordine liberale: tripartizione dei poteri, relativa indipendenza della magistratura, diritti di cittadinanza, libertà civili e di opinione, libertà politiche in senso stretto, laicità delle istituzioni, ecc.. 

Trasformazioni rapide che accomunano anche l’Europa, lasciando vedere in modo chiaro quanto sia ormai avanzato il superamento della fase “democratica” dell’Occidente.

Anche avendo la consapevolezza di questa accelerata corsa verso il baratro, comunque sorprende – nel caso della classe dirigente continentale – la clamorosa separazione tra elaborazione delle politiche interne, lasciate tuttora a quel “pilota automatico neoliberale” che ha creato la crisi in cui ci troviamo, e focalizzazione sulla politica internazionale, segnata da una pretesa quasi ridicola di “porre condizioni ultimative” ad autentici colossi della geopolitica mondiale (Usa e Russia nel caso della guerra in Ucraina, a Cina e India nel caso del commercio globale), oltre che a paesi ed aree certamente meno potenti, ma non per questo trascurabili (l’intera Africa, l’America Latina, ecc.).

E dire che di segnali inquietanti, anche volendo usare soltanto il metro di misura neoliberista, ce ne sono ormai a bizzeffe. Una classe dirigente seria se ne preoccuperebbe in modo prioritario, prima di lanciarsi in avventure militaresche ormai quasi solitarie (se gli Usa di Trump confermeranno l’intenzione di ridurre il proprio impegno alla sola vendita di armi all’Ucraina, qualora i membri europei della Nato saranno davvero disposti a pagarle).

E qui la contraddizione fatale esplode senza mediazioni.

“Facciamo debito per riarmare l’Europa”, dicono all’unisono, mentre sembrano stanziare altre cifre mostruose in favore di Kiev. Contemporaneamente accettano dazi Usa del 15% sulle proprie esportazioni, mentre cancellano quelli esistenti sulle merci statunitensi; e in più prometto di acquistare armi ed energie, e fare anche investimenti oltreoceano, per oltre 1.000 miliardi in quattro anni. Un suicidio economico causato da subordinazione strategica... 

Ma in verità, ora, devono fare i conti con la stagnazione e/o la recessione economica, la crisi del debito pubblico (anche in paesi “virtuosi” che fin qui bacchettavano le “cicale del Sud”) e il conseguente venir meno di quei meccanismo che avevano garantito per quasi 80 anni una relativa coesione sociale.

Qualche dettaglio, e qualche cifra.

Secondo l’ONS (Office for National Statistics) il Regno Unito ha il livello di debito più alto dai primi anni ’60. L’ultima volta che il Regno Unito aveva avuto 3 anni di fila un debito superiore al 90% del PIL era stato quando Harold Macmillan era Primo Ministro (1957-1963).

Qui molti istituti del welfare erano già stati distrutti da Margaret Thatcher e poi da Tony Blair (il “faro” del Veltroni in trip da “vocazione maggioritaria”), venendo a quanto pare sostituiti da una microcriminalità di massa (poco pericolosa per il potere, ma corrosiva per la tenuta sociale).

Il numero di furti nei negozi nel Regno Unito ha raggiunto un livello senza precedenti: nei 12 mesi terminati il 31 marzo, sono stati registrati 530.643 casi in Inghilterra e Galles. “Nei negozi” significa che la quasi totalità sono furti “per bisogno”, per placare la fame, vestirsi, ecc..

In Francia, il primo ministro Francois Bayrou ha chiesto un voto di fiducia da parte dell’Assemblea Nazionale per l’8 settembre, dichiarando il rapporto debito/PIL in forte rialzo (114%) un’emergenza nazionale.

Parigi sta in effetti spendendo in questo momento di più per “servire il debito” (gli interessi sui titoli di stato) che per molti programmi pubblici, un segnale di allarme per la seconda economia più grande d’Europa.

Secondo lui, per ridurre il deficit di bilancio del paese, che nel 2024 ha raggiunto il 5,8% del PIL, è necessario tagliare il bilancio di circa 44 miliardi di euro. Le sue proposte includono il congelamento dell’indicizzazione della spesa per la sicurezza sociale e le pensioni (riduzione della spesa sociale), nonché aliquote fiscali più alte.

Bayrou è il terzo Primo Ministro in un anno, senza una maggioranza parlamentare. Se fosse sfiduciato aumenterebbe la pressione sulla presidenza Macron (che costituzionalmente non sarebbe costretto alla dimissioni, ma difficilmente potrebbe trovare la quadra per un nuovo governo “ai suoi ordini”). L’incertezza sul futuro a breve rischia di agitare i mercati e potrebbe approfondire la crisi di credibilità internazionale proprio mentre la Francia lotta con alti costi del denaro e una crescita debole.

I sindacati e la sinistra radicale (La France Insoumise, più altre formazioni minori) si preparano a una mobilitazione adeguata alla minaccia, con ovvie conseguenze sulla produzione e l’antagonismo sociale.

Dell’Italia è quasi inutile parlare, perché l’aderenza ai diktat del “pilota automatico” è più forte oggi che ai tempi del governo Monti o Draghi, ma di crescita economica non si può trovare traccia e i successi sull’occupazione possono essere vantati sono fino a quando non si vanno a vedere contratti e salari (gli unici in Europa ad essere diminuiti).

Il clima sociale è per ora ancora addormentato, ma il tempo non lavora a favore del governo e dei “prenditori”. Prima o poi la società si sveglierà o collasserà in forme imprevedibili, ma non certo da guardare con ottimismo.

In Germania, Merz ha recentemente scioccato molti con la sua ammissione che “lo stato sociale non è più sostenibile” proprio mentre la spesa pubblica tedesca ha superato di 47 miliardi il record stabilito l’anno precedente e vengono stanziati centinaia di miliardi per costruire “il più forte esercito d’Europa”.

Gli esperti ritengono che la Germania sia ormai in recessione, soprattutto dopo che sia il 2023 che il 2024 hanno registrato una crescita del PIL negativa per la prima volta dai primi anni 2000, ma che il secondo trimestre di quest’anno è stato rivisto in negativo (-0,3%).

Anche un paese non europeo, ma strettamente collegato alle stesse alleanze, come il Canada, versa in una situazione simile. Nel 2° trimestre l’economia canadese si è contratta dell’1,6% in termini annualizzati, peggio del -0,7% che era stato previsto.

Questi paesi, insieme, hanno stanziato 50 miliardi di euro per l’Ucraina, nonostante siano tutti in crisi di bilancio. Non hanno soldi – dicono – da spendere per far vivere dignitosamente le rispettive popolazioni, ma si indebitano per armare se stessi e il proxy ucraino. Anche a costo di rischiare la terza guerra mondiale. Nucleare, peraltro... 

Vero è che le “opposizioni parlamentari” – tranne il caso della Francia, entro certi limiti – sono indistinguibili dalle coalizioni al governo, ma prima o poi questo “doppio binario” (“non abbiamo un soldo per sanità e pensioni, ma facciamo debiti per le armi per noi e da regalare a Kiev”) dovrebbe far deragliare anche la pazienza di popoli che sembrano seduti in attesa della fine.

Il resto del Mondo – quello che si è dato appuntamento in questi giorni a Pechino – ha già sciolto gli ormeggi a questa zattera pena di guerrafondai senza un soldo né gente da arruolare.

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Il machinima e il suo contesto

di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, a cura di, Videoarte ludica. Videogioco, cinema, machinima, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 602, € 40,00

Nell’ambito di un progetto di ricerca portato avanti da Matteo Bittanti presso l’Università IULM teso a esplorare la relazione tra videogiochi e arti visive, complementare a Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione (Mimesis, 2025), che si concentra sulla fotografia nei/dei videogiochi come pratica artistica, documentaria e critica, il volume Videoarte ludica (2025) curato dall’autore, seguito dei precedenti Machinima! Teorie. Pratiche. Dialoghi (Unicopli, 2013) e Machinima. Dal videogioco alla videoarte (Mimesis, 2017), guarda al videogame come strumento spendibile nella realizzazione audiovisiva, performativa e cinematografica.

Quando si parla di machinima si fa riferimento a una pratica ibrida in cui si intrecciano videogame, cinema e videoarte che ha impattato in maniera importante tanto sull’universo artistico contemporaneo quanto su quello dell’intrattenimento, una pratica che ricorre a videogiochi e/o game engine capace di assumere forme documentarie, sperimentali, performative o narrative sia di tipo vernacolare che d’avanguardia.

In Videoarte ludica Bittanti si rapporta al machinima come a una pratica situata, derivata dall’incrociarsi di estetiche sperimentali e cultura digitale partecipativa: arte d’avanguardia, certo, ma anche intrattenimento vernacolare, museo e social media, détournement e divertissement. Vera e propria zona di frizione tra linguaggi, funzioni e logiche di valore, attraverso un approccio dialettico e comparativo, il machinima viene dunque indagato non per darne una definizione in senso assoluto, quanto, piuttosto, per vedere come viene prodotto, legittimato e recepito, nella convinzione che a determinarne il valore non sia tanto la forma, ma il contesto in cui viene inserito e le relazioni di ordine estetico, politico, istituzionale che lo strutturano.

Videoarte ludica non si limita a descrivere le peculiarità di questa pratica ibrida, ma ne esplora le potenzialità come strumento di indagine, sperimentazione artistica e attivismo culturale. Attraverso un approccio metodologico multidisciplinare che combina teoria, studi di caso e dialoghi, il volume analizza come il machinima possa ridefinire i confini tra pratiche e contesti eterogenei, sfidare convenzioni narrative e proporre nuove prospettive per l’analisi e la creazione artistica. In un’epoca in cui il digitale permea ogni aspetto della società e la nozione di arte è stata profondamente alterata dall’innovazione tecnologica, Videoarte ludica invita a considerare il machinima non solo come un prodotto della cultura contemporanea, ma come uno strumento analitico attraverso cui ripensare le dinamiche di potere, identità e rappresentazione che strutturano il nostro mondo» (pp. 34-35).

Il volume curato è strutturato in tre parti: la prima si occupa delle riflessioni teoriche e storiche riguardanti il machinima, la seconda presenta una serie di studi di caso che analizzano tanto opere d’avanguardia quanto vernacolari, mentre la terza propone alcuni dialoghi critici tra artisti e ricercatori. Non potendo approfondire le numerose questioni di cui si occupano le seicento pagine che compongono il volume, si provvederà di seguito a tracciare una mappatura dei contributi con l’intenzione di affrontare in futuro alcuni aspetti approfonditi dagli autori.

Nel primo blocco di contributi dedicato alle riflessioni teoriche e storiche riguardanti il machinima si guarda alle sue caratteristiche partecipative e alle potenzialità critiche che questo è in grado di esprimere sia in ambito artistico che vernacoalre: Thomas Hawranke esplora il tema dell’audiovisivo-nel-ludico, indagando una serie di lavori artistici capaci di ridefinire i confini tra gioco, video e arte digitale; Riccardo Retez e Luca Miranda guardano alle pratiche fandom, occupandosi del formato dei full game movie che, ibridando cinema e videogiochi, si rivela capace di reinterpretare i linguaggi mediali tradizionali attraverso un processo partecipativo e comunitario; José Blázquez si sofferma sulla produzione vernacolare permessa dalla diffusione delle tecnologie digitali intervistando alcuni praticanti così da restituire le logiche, le motivazioni e le estetiche proprie di questo universo; Kara Güt investiga il potenziale critico e performativo del machinima in modalità di gioco che, aggirando le regole convenzionali del videogame, permettono la realizzazione di esperienze visive e narrative alternative consentendo riflessioni critiche sulle convenzioni videoludiche; Martin Zeilinger guarda alle possibilità di resistenza e critica culturale e politica del machinima nei confronti delle ideologie sottese ai mondi virtuali evidenziando gli aspetti contraddittori dei sistemi algoritmici e sociali che regolano i videogame; Paul Atkinson e Farzad Parsayi esaminano criticamente il rapporto tra videogiochi e universo artistico guardando in particolare alle convergenze formali e concettuali tra videogame e videoarte e a come la mediazione dello schermo determini modalità di fruizione alternative rispetto a quelle offerte dal contesto museale tradizionale.

La seconda raccolta di saggi presenta una serie di studi di caso sia vernacolari che d’avanguardia: ispirandosi in particolare agli studi di Howard Saul Becker (Art Worlds, 1982), Matteo Bittanti guarda con approccio sociologico al machinima come fenomeno collettivo su cui incidono istituzioni, tecnologie e comunità di praticanti contemplando tanto la variante d’avanguardia che quella vernacolare; il collettivo austriaco Total Refusal (Leonhard Müllner, Robin Klengel e Michael Stumpf), a partire dagli scenari videoludici, guarda alle modalità con cui il machinima affronta tematiche sociali importanti come la brutalità poliziesca statunitense, le disparità economiche e le problematiche ambientali ragionando sul rapporto che si viene a creare tra esperienza ludica e narrazione audiovisiva; la studiosa Mandy Bloomfield guarda al lavoro di Andy Hughes incentrato sulla devastazione ambientale a partire dai paesaggi virtuali di videogame proponendo riflessioni ecocritiche relative al mondo fuori dagli schermi; Gloria López-Cleries e Sive Hamilton Helle ragionano su una loro realizzazione machinima incentrata sul tecno-colonialismo esplorando criticamente le ricadute ambientali dell’universo digitale; l’artista statunitense Carson Lynn indaga le potenzialità decostruttive e sovvertitrici del machinima in ambito di genere e sessualità per contrastare l’omofobia che permea molte comunità videoludiche; Harrison Wade guarda alle capacità del machinima di opporsi alle narrative egemoniche sull’identità e sul corpo caratterizzanti molta game culture.

La sezione Conversazioni propone una serie di dialoghi tra studiosi e artisti in cui il machinima emerge come medium dialogico e trasformativo attraverso cui si possono affrontare in maniera innovativa tematiche come il gender, la memoria e il trauma attraverso sguardi diversi rispetto a quelli dominanti maschili e occidentali: nell’intervista rilasciata a Matt Turner, Angela Washko parla del suo tentativo di portare la critica femminista in un ambiente tradizionalmente ostile come quello videoludico evidenziando i modelli ideologici incorporati nei videogame; nella conversazione tra Matteo Bittanti e l’artista palestinese Firas Shehadeh si guarda a come il machinima d’avanguardia possa essere utilizzato come contro-narrazione alla propaganda imperiale, come strumento di contrasto e resistenza alle ideologie dominanti e alla censura da queste operata nei confronti delle culture marginalizzate e perseguitate; il dialogo tra Matteo Bittanti e l’artista siriano Giath Taha fa invece emergere il possibile ricorso al machinima per fronteggiare e rielaborare eventi traumatici.

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L’UE non ha un ruolo perché ha scelto un modello sbagliato. Quello di Mario Draghi

di Alessandro Volpi

L’intervento di Mario Draghi al Meeting di Rimini il 22 agosto è stato, come di consueto, oggetto di infiniti elogi, dai “progressista di sinistra” alla Nicola Zingaretti fino ai liberal di destra. In realtà un latore forse meno encomiastico farebbe emergere almeno due elementi discutibili.

Il primo. Draghi sostiene che Trump e l’attuale situazione dimostrano che non basta all’Europa essere una potenza economica per avere un ruolo internazionale vero. Ora, a questo riguardo, verrebbe da obiettare proprio citando il noto “Piano Draghi” che l’Europa ha smesso da tempo di essere una potenza economica. I flussi finanziari europei, a partire dal risparmio, vanno nelle Borse americane e gli effetti della globalizzazione hanno trasferito i sistemi produttivi fuori dal continente spostandoli in Cina e nel cosiddetto “Sud globale”, dove ora albergano le potenze economiche. Il neoliberalismo, di cui Draghi è stato ed è un esponente chiave, ha assegnato all’Europa il ruolo di realtà terziarizzata, con servizi caratterizzati da bassissime retribuzioni, dipendente appunto dalle Borse Usa in termini finanziari e dal mercato estero per le proprie sempre più povere produzioni.

Quindi dov’è la potenza economica europea? I consumi sono diminuiti, gli investimenti anche e la concentrazione della ricchezza è esplosa. A reggere rimane solo il risparmio –costantemente drenato verso gli Stati Uniti – che è stato accumulato negli anni in cui non si era ancora affermato il modello neoliberale draghiano. Peraltro l’ex presidente della Banca centrale europea sembra trascurare che oggi come non mai sono centrali le risorse naturali: energia, materie prime, beni agricoli, terre rare di cui l’Europa è sprovvista. Forse, allora, l’irrilevanza europea dipende proprio dal fatto che non si è più una potenza economica per effetto dell’ubriacatura globalista.

Il secondo elemento assai poco comprensibile della mitizzata riflessione di Draghi è legata alla ricetta. Che cosa dovrebbe fare l’Europa per tornare ad avere un ruolo internazionale? Trasformarsi in maniera miracolistica in una realtà più unitaria e comunitaria dopo che per trent’anni le politiche europee hanno coltivato l’impossibilità di arrivare a una struttura realmente federativa? L’allargamento a Est, l’ignavia colpevole nella dissoluzione jugoslava, la totale subordinazione alla Germania, il massacro della Grecia, la costruzione dell’austerità a vantaggio esclusivo di Paesi “frugali” che erano e sono paradisi fiscali possono essere rimossi in nome di un’Europa unita reiterando il modello che ha prodotto il disastro e trovando solo nella guerra alla Russia il collante interno?

L’Europa non ha un ruolo internazionale perché ha scelto, pervicacemente, un modello sbagliato. Quello di Mario Draghi. Le note dell’ex presidente della Bce espresse a Rimini hanno trovato un seguito nell’intervento dell’attuale presidente dell’istituto di Francoforte per la quale l’impoverimento dei lavoratori diventa un dato positivo. Christine Lagarde è arrivata al simposio di Jackson Hole e, con un sorriso smagliante, ha dichiarato che nell’eurozona l’inflazione è calata senza generare troppi effetti negativi sul Pil dei vari Paesi europei.

Ora, a parte il fatto che il Pil europeo è decisamente stagnante, sono proprio i tre fattori indicati da Lagarde come punti di forza dell’economia dell’area euro a lasciare molto perplessi. Ad “alleviare” gli effetti delle politiche monetarie restrittive, adottate contro l’inflazione, sono stati un andamento dei salari non adeguato all’inflazione, la riduzione delle ore di lavoro e dalla permanenza al lavoro di lavoratori e lavoratrici pensionabili che, insieme alla manodopera immigrata, hanno calmierato il costo del lavoro. In sintesi le politiche restrittive della Bce contro l’inflazione sono state pagate dalla forza lavoro decisamente impoverita. Un bel modello davvero.

Dopo il rilancio del neoliberalismo di Draghi è arrivata la benedizione dello sfruttamento da parte di Christine Lagarde. Questa Europa è una realtà alla rovescia: per combattere l’inflazione che colpisce i redditi più bassi si riducono le retribuzioni in modo da non intaccare i profitti, tradotti in dividendi, che sorreggono il Pil. Quello dei ricchi.

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La rivalità Ankara-Tel Aviv scuote il Medio Oriente

La decisione della Turchia guidata dal presidente Recep Tayyip Erdogan di tagliare il commercio con Israele e di bandire lo spazio aereo del Paese euroasiatico ai voli di Stato di Tel Aviv e a quelli che trasportano armi verso lo Stato Ebraico segna un nuovo salto di qualità nel braccio di ferro geopolitico tra il governo del Rais di Ankara e quello di Benjamin Netanyahu. E, al contempo, rafforza la rivalità sistemica tra Turchia e Israele, che a fianco del braccio di ferro tra Tel Aviv e l’Iran è forse il trend più importante consolidatosi nella crisi scatenata dagli attacchi di Hamas del 7 ottobre contro lo Stato Ebraico.

Una sfida a tutto campo

Se quella tra Israele e Iran è la rivalità tra il progetto di riconfigurazione geopolitica del Medio Oriente che unisce le élite nazionaliste israeliane ai teorici del neoconservatorismo Usa e la spinta alla conservazione dello status quo regionale di una Repubblica Islamica desiderosa di resistere al caos mediorientale, la sfida a distanza Tel Aviv-Ankara è tutta costruita sulla delimitazione delle sfere d’influenza. Non a caso Erdogan ha alzato il tiro contro Israele e Netanyahu per i massacri a Gaza dopo che anche Ankara ha potuto, di fatto, profittare degli sviluppi regionali spingendo il suo protegé Ahmad al-Sharaa (Abu Mohammad al-Jolani) a consolidare tra novembre e dicembre 2024 l’offensiva decisiva per rovesciare il regime di Bashar al-Assad in Siria.

Grande gioco attorno alla Siria

La caduta del regime baathista ha creato un vuoto di potere problematico, spinto la Turchia a mettere le mani sulla nuova Siria, portato a un vasto sforzo diplomatico e d’intelligence di Ankara per riunificare un Paese diviso da 14 anni di guerra civile come un suo satellite. I frequenti viaggi di Hakan Fidan, ministro degli Esteri di Erdogan ed ex capo del Mit (l’intelligence turca) a Damasco lo confermano.

La Siria è stata la prima linea del confronto turco-israeliano: gli sforzi di Al-Sharaa per diventare il leader riconosciuto del Paese si sono scontrati con l’oggettiva difficoltà di controllare la base militante e jihadista degli ex membri di Hay’at Tahrir al-Sham, che si sono abbandonati a massacri e stragi settarie, e con la strategia israeliana di far leva sulle minoranze e sulla loro causa come pretesto per negare a Damasco l’unità. Ergo a Erdogan la chiusura del dossier siriano.

La Turchia, con la pace col Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) e gli accordi tra l’amministrazione curda del Rojava e Damasco, ha segnato un punto a suo favore. Israele ha fatto leva sulle minoranze druse e sui bombardamenti sull’esercito di Damasco quando si avvicinava ai confini, peraltro espansi da Tel Aviv a dicembre portando la zona d’occupazione in Siria in profondità rispetto alle alture del Golan controllate dal 1967.

Il confronto strategico Turchia-Israele

Sul piano geopolitico, dunque, Israele e Turchia “confinano” in Siria, ma non solo. Confliggono anche nei rapporti col Medio Oriente, dove Ankara mira a sabotare una futura espansione degli Accordi di Abramo arabo-israeliani e hanno una linea di contatto indiretta anche a Cipro, Paese diviso la cui componente meridionale, internazionalmente riconosciuta, a marzo ha reso pienamente operativa la sua “cupola” antiaerea fondata sui sistemi israeliani Barak, come deterrenza contro uno schieramento di Ankara nella Repubblica Turca di Cipro Nord che secondo diverse ricostruzioni Erdogan potrebbe espandere rispetto agli attuali 35mila militari stanziati.

La giornalista turca Aslı Aydıntaşbaş ha scritto sul Financial Times a luglio che l’anarchia regionale mostrata a giugno dal confronto diretto israelo-iraniano appariva un pessimo presagio nel quadro dei rapporti bilaterali tra Ankara e Tel Aviv. Per l’autrice, “il confronto è sia ideologico che geopolitico”, dato che se da un lato il nazionalismo messianico informa la coalizione di Netanyahu, dall’altro Erdogan, con il suo uso spregiudicato di un misto tra richiamo islamista e al passato ottomano, nazionalismo e panturchismo alimenta l’ambizione di Ankara su ogni dimensione politica. Fidan, parlando dell’esistenza di un “problema israeliano” all’Organizzazione per la Cooperazione Islamica a luglio, ha segnato un passo in avanti nell’approfondimento ideologico di questa rivalità.

Una rivalità sempre più calda

Nessuno pensa, per ora, a scenari estremi, ma la rivalità esiste ed è al calore bianco, un confronto brutale di potere e logiche espansioniste. In palio c’è il ruolo di prima potenza del Medio Oriente e una voce decisiva nella sua ristrutturazione. Come ha fatto notare Responsible Statecraft, “l’intensificarsi della rivalità tra Tel Aviv e Ankara non è una questione di se, ma di come. Non è una questione se scelgano o meno la rivalità, ma come scelgano di reagire: attraverso il confronto o la gestione pacifica”.

Fa pensare, ad esempio, che Ankara abbia approvato, dopo la guerra Iran-Israele, un maxi-piano urbanistico per costruire rifugi antiaerei in tutte le province, come a dimostrare la volontà di prepararsi a una guerra lunga. Un segno di sfiducia profonda verso la capacità della regione di stabilizzarsi a cui vanno letti in parallelo, però, altri scenari strategici che potrebbero svilupparsi in senso diverso.

Tra Turchia e Israele gli elementi, indiretti, di dialogo non mancano: la presenza di entrambe in un contesto di alleanza geopolitica con gli Stati Uniti, la comune volontà di non dare spazio all’Iran e a una sua rinascita come grande potenza strategica e l’esistenza di alleati comuni, come l’Azerbaijan, possono fare da ammortizzatore a un confronto muscolare che parla del ritorno della politica di potenza in Medio Oriente come di un fatto ormai consolidato.

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Il sangue degli uomini della scorta di Moro scambiato con quello di un brigatista immaginario, l’incredibile boutade dello storico Davide Conti

di Marco Clementi e Paolo Persichetti

Davvero la mattina del 16 marzo 1978 a dare l’assalto alla scorta che trasportava il presidente del consiglio nazionale della Democrazia cristiana Aldo Moro c’era un undicesimo brigatista dall’identità tuttora ignota, rimasto ferito nello scontro a fuoco, e non i dieci accertati storicamente (le ricostruzioni giudiziarie si fermano a nove)? 
A sostenerlo, sulle pagine del quotidiano Domani del 23 e 24 agosto scorso, in un lungo articolo in due puntate dal titolo «Non fu geometrica potenza, il brigatista ferito in via Fani», è lo storico Davide Conti, per anni ricercatore presso la fondazione Basso, autore di lavori sulla Resistenza, soprattutto romana, e di varie pubblicazioni sul fascismo e neo fascismo, nonché consulente delle procura di Brescia e Bologna nelle indagini sulle stragi, e dell’Archivio storico del Senato della Repubblica.

Se c’è sangue allora c’era un brigatista ferito e mai identificato

La tesi di Conti, che va ad aggiungersi – ultima in data – all’interminabile saga dietrologica sui misteri del rapimento Moro, prende spunto dal fatto che all’interno delle tre vetture utilizzate dal comando brigatista per allontanarsi dal luogo dell’agguato e portare via Aldo Moro, abbandonate pochi minuti dopo a circa 2 km di distanza, in via Licinio Calvo, furono trovate delle tracce di sangue la cui origine, secondo Conti, non sarebbe mai stata identificata a causa di una grave negligenza nelle indagini. Almeno una di queste tracce, se non anche altre, sostiene sempre Conti, sarebbe riconducibile al brigatista ferito. Circostanza che smentirebbe le affermazioni di Adriana Faranda, contenute nel «Memoriale Morucci-Faranda» del 1984, e di Anna Laura Braghetti presenti nel suo libro scritto con Paola Tavella, Il prigioniero, Mondadori 1998, le quali affermano che tutti i militanti delle Brigate rosse che presero parte all’azione rimasero illesi.

Aggiungi un posto in macchina...

Che si tratti di un brigatista ignoto, Conti lo desume dal fatto che una di queste tracce fu rinvenuta sul montante, il battente e la parte esterna della portiera destra della Fiat 128 bianca che fece da barriera, il «cancelletto superiore», bloccando il traffico in modo da isolare la zona dell’assalto. Su questo mezzo avevano preso posto Alessio Casimirri, come autista, e Alvaro Loiacono con funzioni di copertura verso la parte alta di via Fani. Al momento della fuga su questo mezzo, che aveva il compito di chiudere il convoglio, salì accanto al guidatore anche Prospero Gallinari, uno dei quattro assalitori travestiti con abiti dell’aviazione civile che attaccarono direttamente la sconta di Moro.

Secondo Conti, sulla Fiat 128 prese posto anche un undicesimo brigatista, quello rimasto ferito e sue sarebbero le tracce di sangue rinvenute sulla portiera. Il ragionamento di Conti è semplice: se Gallinari rimase illeso – come sostenuto da Braghetti – allora il sangue presente non poteva che essere di un undicesimo componente del commando. Conti sposta arbitrariamente Gallinari nei sedili posteriori per lasciare posto al brigatista immaginario, nonostante sia noto che dietro aveva preso posto Loiacono, che dal lunotto posteriore proteggeva le spalle al convoglio. Ne abbiamo già scritto nel volume Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, apparso per Deriveapprodi nel 2017 e recentemente ristampato dall’editore con una nuova copertina.

L’uomo in più del commando, un mantra della dietrologia

L’uomo in più è uno dei leit motiv preferiti della narrazione dietrologica, anche se a mutare ogni volta è la sua posizione e identità geopolitica: c’è chi – da Sergio Flamigni in poi – lo colloca a destra nei panni del superkiller professionista; chi lo piazza (vedi Guido Salvini nella relazione stesa per la commissione antimafia) in alto sul lato sinistro, quinto sparatore in abiti civili che poi fugge salendo via Fani verso via Trionfale; chi ritiene fosse un tiratore scelto che ha sparato con un fucile di precisione da uno dei palazzi prospicienti; chi lo colloca, invece, come supervisore dell’azione su uno dei marciapiedi di via Stresa (variante Flamigni). Poi non manca chi raddoppia, come i fan dei due motociclisti sulla moto Honda e infine chi sottrae, come i sostenitori della tesi che Moro non fosse presente in via Fani e la sparatoria sia stata solo una messa in scena per coprire un rapimento avvenuto altrove; la nota giornalista Rita di Giovacchino ha sostenuto addirittura che fosse stato portato via in elicottero.

La sublime menzogna della narrazione dietrologica poggia su un semplice meccanismo di addizione, che rende l’angusto incrocio tra via Fani e via Stresa uno dei luoghi più affollati di Roma. Ogni nuova tesi, che secondo logica dovrebbe necessariamente escludere la precedente (se c’era lo sparatore da destra non poteva essercene uno in più a sinistra o il tiratore scelto, eccetera), in realtà si aggiunge senza che l’autore senta la necessità di smentire la versione rivale, sfidando senza remore ogni illogicità e incongruenza. Le innumerevoli tesi dietrologiche, concorrenziali e contrapposte (basti pensare alla contraddizione che oppone chi accusa la Nato, il Mossad, Gelli e company a chi punta il dito contro la Stasi, il Kgb, i cecoslovacchi o i palestinesi), si ignorano reciprocamente con un unico reale obiettivo, ossia fare fronte comune per screditare il racconto di chi in via Fani c’era davvero: i brigatisti, o il lavoro, certo confuso, lacunoso e impreciso, della magistratura che pure alla fine, dopo cinque processi (una sesta istruttoria è arenata in un nulla di fatto mentre uno dei due filoni è in attesa di archiviazione) è pervenuta ad identificare la sola responsabilità delle Brigate rosse, o ancora il lavoro, anche questo con i suoi limiti ovviamente, di una storiografia a nostro giudizio più seria e rigorosa.

C’era del sangue ma era della scorta di Moro, l’errore macroscopico commesso da Davide Conti

Dopo la richiesta del pm Luciano Infelisi, che dispose il 22 marzo 1978 una perizia sulle tracce di sangue e le impronte raccolte dalla polizia scientifica sulle vetture utilizzate dai brigatisti per individuarne l’appartenenza, secondo Conti, che cita una risposta della Digos del 26 settembre 1978 a un quesito posto dall’ufficio istruzione il 28 agosto precedente, le indagini scientifiche si sarebbero arenate. In realtà la perizia, assegnata ai professori Franco Marraccino e Giorgio Gualdi, venne consegnata il 14 novembre successivo al consigliere istruttore Achille Gallucci. Le conclusioni furono eloquenti: le tracce ematiche appartenevano a quattro dei cinque uomini della scorta di Moro. Il sangue rinvenuto sulla tappezzeria del tetto e sul sedile posteriore della Fiat 128 blu, targata Roma L55850, alla cui guida era salito Valerio Morucci che si era introdotto dopo la sparatoria nella Fiat 130 di Moro per raccogliere alcune borse, risultò compatibile con quello dell’appuntato Domenico Ricci, autista del mezzo sulla quale viaggiava Moro. Altre tracce ematiche rilevate sulla portiera anteriore sinistra della Fiat 128 blu e in provette contenenti sostanze prelevate dalla Fiat 128 bianca, targata Roma M53955, nella quale era salito Prospero Gallinari, e dalla Fiat 132 GLS 1600, targata Roma P79650, guidata da Bruno Seghetti e dove salirono Aldo Moro, Mario Moretti e Raffaele Fiore, sono risultate del gruppo “A”, compatibile con tutti i militari uccisi a eccezione di Rivera. A chiarire definitivamente la vicenda è un rapporto della dottoressa Laura Tintisona, funzionaria di polizia distaccata presso la commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, depositato il 14 dicembre 2014 (Cf. CM2 0470_001). La data è significativa poiché il consulente della Commissione Moro 2, Gianfranco Donadio, citato da Conti, divenne consulente solo nel febbraio successivo, tralasciando quanto prodotto in precedenza dalla Commissione stessa.

De relato del pentito o fonti scientifiche?

Sorprende che Davide Conti abbia elaborato la sua tesi ignorando la presenza di documenti essenziali come le perizie scientifiche, rincorrendo invece i de relato del pentito Patrizio Peci, esponente di una diversa colonna, quella torinese, totalmente ignaro della realtà romana e che sul sequestro Moro ha sempre fornito informazioni errate, come il coinvolgimento di Azzolini in via Fani. Dalle perizie balistiche, ultima quella realizzata dalla polizia scientifica per conto della Commissione Moro 2 con le più moderne tecniche forensi, avrebbe saputo – invece di rincorrere le ipotesi giornalistiche di Miriam Mafai – che i colpi sparati dall’agente Iozzino non andarono a segno. Non solo, nelle nuove indagini riaperte dalla procura di Torino sulla sparatoria alla cascina Spiotta del giugno 1975, è emersa una intercettazione che seppur illegale sul piano giudiziario dal punto di vista storico è rilevante, poiché Azzolini racconta i tormenti di Bonisoli dopo la sparatoria in via Fani nella quale rischiò di essere colpito da Iozzino e per reazione sparò numerosi colpi crivellandolo (Cf. L’Unità del 2 aprile 2025 e qui).

Una leggerezza che tuttavia non l’ha indotto a maggiore prudenza, ma al contrario l’ha spinto a ulteriori conclusioni: come l’aver sposato la leggenda della verità concordata tra brigatisti e potere, pari per falsità solo ai Protocolli dei savi di Sion. Accordo, narra la vulgata, che avrebbe trovato soluzione nel “Memoriale Morucci”: «Redatto in carcere – scrive ancora Conti – a partire dal luglio 1984 nel quadro di una fitta e costante interlocuzione con uomini dei servizi di sicurezza, figure politiche e religiose e direttori di giornali». In realtà il “memoriale” venne solo assemblato in quel periodo, poiché costituito fondamentalmente dai verbali degli interrogatori resi davanti la magistratura nelle fasi istruttorie e processuali precedenti e nei quali Morucci aggiunse i nomi ai numeri con i quali in precedenza aveva indicato i componenti del commando che agirono in via Fani (circostanza che permise l’arresto e la condanna di Alvaro Loiacono), allegando al testo la ricostruzione fatta in sede processuale anche da altri protagonisti, come Franco Bonisoli, Alberto Franceschini (all’epoca non ancora dietrologo) e altri brigatisti dissociati.

Del lavorìo preparatorio che condusse al “Memoriale” erano al corrente Francesco Cossiga, futuro presidente della Repubblica e ministro dell’Interno al momento del rapimento Moro, e Ugo Pecchioli, esponente di rilievo del Pci. Lo si apprende dal promemoria fatto pervenire nel luglio del 1985 dallo stesso Cossiga, poco dopo essere stato eletto Presidente della Repubblica, a Ferdinando Imposimato, allora giudice istruttore dell’inchiesta sul sequestro Moro, e al ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro. (Acs, Migs busta 20 e Cf. La polizia della storia, Deriveapprodi 2022).

È noto che a partire dal 1993 con Mario Moretti, e poi a seguire tutti gli altri fino a Gallinari, ultimo nel 2008, i brigatisti che presero parte al rapimento Moro hanno avuto modo di raccontare in libri o testimonianze processuali il ruolo avuto nella vicenda. Cristallizzare la storia del sequestro Moro unicamente nel racconto fatto da Morucci e Faranda è dunque inesatto dal punto di vista del metodo e delle fonti storiche che, nella realtà, si mostrano molto più ricche.

Raffaele Fiore e la Fiat 132

Conti affronta anche il ritrovamento a distanza di tempo delle tre macchine impiegate nel sequestro, sottovalutando che le forze di polizia, andate in tilt nelle prime ore che seguirono l’assalto in via Fani, le rinvennero a distanza di tempo commettendo errori su errori. Si accorsero solo dopo molte ore che la Fiat 128 bianca ritrovata in via del Forte Braschi, zona Pineta Sacchetti (Ansa delle 19.03 del 16 marzo), non era quella dei brigatisti. Solo allora ripresero le ricerche tornando in via Licinio Calvo. Per confermare la sua interpretazione richiama un servizio del Tg1 che avrebbe dimostrato l’assenza della Fiat 128 blu, in via Licinio Calvo, al momento del rinvenimento della Fiat 128 bianca. Tutto ciò per sostenere la tesi del garage limitrofo (via dei Massimi), dove sarebbero state provvisoriamente parcheggiate le auto (insieme a Moro, nascosto in una prigione momentanea) per essere posizionate successivamente, una alla volta, in via Licinio Calvo. Versione ribadita in una puntata di Report alla quale lo stesso Conti aveva partecipato.

L’autore sembra ignorare le conclusioni dell’indagine realizzata nel settembre del 2015 dal Servizio centrale antiterrorismo per conto della commissione Moro 2. L’accertamento ha definitivamente smentito questa narrazione tossica. Il punto di ripresa dell’operatore tv, che ha girato le immagini il 19 marzo ma diffuse dal servizio del Tg1 il 20 marzo 1978, non aveva alcuna visibilità sul tratto di via dove le due Fiat 128, la bianca e la blu, erano state lasciate dai brigatisti il 16 marzo precedente. Quelle immagini non hanno mai provato nulla (Cf. Cm2 0329_009). Recentemente una inchiesta pubblicata dal sito Sedicidimarzo sulle foto riprese dalla polizia scientifica al momento del ritrovamento della Fiat 128 bianca ha mostrato come sul posto fosse già presente la Fiat 128 blu, autovettura sulla quale erano poggiati distrattamente alcuni agenti di polizia.

Infine Conti contesta anche che sia stato Fiore a condurre la Fiat 132 in via Licinio Calvo, poiché questi non riferisce la circostanza nella testimonianza rilasciata ad Aldo Grandi, nel volume L’ultimo brigatista, Bur 2007. Un vuoto che porta Conti a concludere che alla guida ci sia stato l’ennesimo ulteriore brigatista (o chi per lui), rimasto ignoto (a rigor di logica sarebbe il dodicesimo). Ma non riferire non vuol dire negare. Non c’è spazio qui per affrontare una delle problematiche tipiche sollevate dalla storia orale quando raccoglie testimonianze a tre decenni dai fatti. Va però considerato che Fiore non era romano e scese nella Capitale solo per l’azione Moro. Appare comprensibile che la sua memoria abbia fatto dei salti, semplificando dei passaggi, soprattutto se l’intervistatore non l’ha incalzato correttamente con domande pertinenti, fermandolo, chiedendogli di precisare o ricordare. Noi abbiamo chiesto a Fiore perché la Fiat 132 era stata parcheggiata in modo diverso dalle due Fiat 128. Pur avendo studiato a lungo la topografia della zona, volevamo da lui un ulteriore chiarimento perché un rapporto della Digos firmato dall’ispettore Mario Fabbri, riferiva il rinvenimento del mezzo, per altro in un orario, le 10:00, contraddetto da un altra fonte dei carabinieri, che indicava le 9:47, e dal brogliaccio della centrale operativa che anticipava la prima segnalazione, da parte di una autocivetta denominata Squalo 4, alle 9:23. Secondo il rapporto, il mezzo era parcheggiato sulla parte alta di via Licinio Calvo, a pochi metri dall’incrocio con via Lucilio con l’avantreno rivolto verso via Festo Avieno. Nel rapporto non ci sono immagini allegate. Ad oggi, nonostante le migliaia di documenti consultati, non siamo mai incappati nelle foto del ritrovamento della Fiat 132. Si tratta sicuramente di una anomalia che speriamo venga colmata nel tempo o comunque trovi una risposta soddisfacente.

In effetti il mezzo, come ci ha confermato Fiore, aveva realizzato un percorso diverso dalle Fiat 128. In Brigate rosse (op. cit.) avevamo già segnalato la cosa, sottolineando come la Fiat 132, ritardata dal trasbordo di Moro nel furgoncino Fiat 850 in piazza Madonna del Cenacolo, fosse partita quando le due Fiat 128 erano già andate via. Fiore ci rispose che nella concitazione saltò la svolta in via Licinio Calvo e fu costretto a proseguire via Festo Avieno fino in fondo, per girare a destra verso piazza Ennio e ridiscendere via Lucilio. Da qui il parcheggio poco accurato all’inizio di via Licinio Calvo che facilitò l’immediato ritrovamento del mezzo, la cui targa era stata già segnalata poco dopo la sparatoria in via Fani da diversi testimoni.

La caccia ai fantasmi

Nel corso di cinque processi (ben 15 corti di giustizia) sono state condannate per il sequestro Moro trentuno persone, cinquanta furono quelle inquisite durante le istruttorie, anche se i responsabili effettivi della vicenda furono solo sedici. Eppure dopo quarantasette anni c’è chi scambia ancora il sangue degli uomini della scorta di Moro con quello di un brigatista immaginario. La coscienza di questo Paese è davvero malata se pur di non interrogarsi su quel che avvenne in quel decennio, soprattutto a sinistra, si rincorrono fantasmi, si intossica la memoria, si inquina la storia (vedi  qui e qui).

Sarebbe auspicabile che in futuro gli studiosi cercassero con maggiore cura prove e riscontri alle proprie legittime ipotesi, confrontandosi anche con quanto già scritto ma, soprattutto, con la documentazione esistente, vasta, importante e imponente, da tempo disponibile per chiunque voglia approfondire quella vicenda. E che nel caso si vogliano correggere conclusioni ritenute infondate, lo si facesse senza rilanciare circostanze già da tempo dimostrate fallaci.

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