Gli spari davanti Palazzo Chigi sono quello che sembrano: un sintomo.
La loro oggettiva importanza politica traspare dalle onde reattive che
provocano, le quali rivelano molto sul potere politico e la sua
(in)capacità di trovare soluzioni alla malattia del paese; quindi
sull'incapacità a far rientrare anche i sintomi.
Al contrario, quello che abbiamo visto in opera tra ieri e oggi –
nelle dichiarazioni dei “politici con poltrona” e negli editoriali di
molti media mainstream – è l'esibizione di una coazione a
ripetere che rifiuta di prender atto dei problemi nella loro specificità
e attualità. Una grande esibizione di retoriche pret a porter,
riesumate così com'erano 30 o 40 anni fa. Un gran gridare
all'emergenza, al pericolo, alla necessità di silenziare le critiche ai
governo uscenti o nascenti, e di mettere tra parentesi le tragedia
sociali reali per assicurare “serenità” al puro esercizio del potere
conto terzi. L'ennesimo tentativo di ridurre il complesso al semplice,
un clima generale a colpe individuali. Uno schema collaudato nei
decenni, efficace sul piano mediatico immediato, ma alla lunga
instupidente.
Proviamo ad andare con ordine.
Il muratore
disoccupato che è arrivato davanti al portone del Palazzo è anche il
primo che abbia interrotto la catena dei suicidi – tra lavoratori
licenziati e piccoli imprenditori falliti – e rovesciato in un gesto
disperato “contro la politica” quel “senso comune” che viaggia a fior di
pelle. La rottura di ogni legame sociale, ideale, politico, solidale –
che è sempre un obiettivo di ogni potere progettualmente debole – da un
lato ostacola il formarsi di un'opposizione politica di massa,
dall'altro apre la strada a mille percorsi di uscita individuale dal
tunnel. Sembra geniale, si sta rivelando invece pericoloso. Non è
affatto detto che l'autoeliminazione debba restare l'opzione preferita
dai subalterni. Ma lo sfogo individuale, per quanto estremo e omicida, è
pur sempre ciò che di meno pericoloso esiste per un sistema di potere.
Ci vanno di mezzo, di solito, i “cuscinetti protettivi” schierati
intorno ai posti di comando – le forze dell'ordine, ovviamente, ma anche
gli impiegati di Equitalia o altri dipendenti di agenzie viste come
succursali dello sceriffo di Nottingham – mentre nel “politico con poltrona”
risorge per un attimo il brivido del pensiero “in qualsiasi momento
potrei trovarmi davanti un disperato armato di pistola invece che di
suppliche”. Nulla di preoccupante, le case farmaceutiche forniscono
tranquillanti per ogni esigenza...
La reazione “governista” è
invece molto più interessante. La “fronda” parlamentare del Pd è
immediatamente rientrata (Civati ci farà sapere a ore se obbedisce agli
ordini di scuderia oppure chiude qui la sua carriera politica), mentre
il malessere della base sofferente dovrà ancora una volta scegliere tra
ingoiare quintali di rospi (l'alleato Brunetta compreso) oppure alzarsi
da tavola e andare altrove, di solito in pensione, lontano da questa “politica”.
Grillo ha fatto da parafulmine in mancanza di qualcosa di più serio, e
la sua recitazione sopra le righe, gonfia di parole tonitruanti e gesti
politici prudentemente aventiniani, è diventata la pietra dello
scandalo. Come se le Di Girolamo, gli Alemanno, i La Russa e i
Cicchitto, le Santanché, le Lorenzin o i Sallusti fossero degli esempi
di parlar forbito e understatement.
Se persino Vendola
ha cominciato a sentire “puzzetta di regime” vuol dire che il regime è
da tempo all'opera. Ma il cervello, il comando, non sta a Palazzo Chigi.
E forse non più nemmeno, o soltanto, a Bruxelles. Questo governo,
dicevamo prima della “sparatoria”, è frutto di un compromesso in cui gli
Stati Uniti hanno deciso di far pesare molto di più i propri interessi.
Anche a costo di usare la fogna berlusconiana come massa di manovra
temporanea.
Molto sta cambiando sotto i nostri occhi, anche a dispetto di quel che appare evidentissimo: una classe “politica con poltrona”
che si chiude a riccio sperando che la tempesta della crisi passi.
Molto di più cambierà nei prossimi mesi, quando le (poche) promesse
elettorali – tipo “restituiamo l'Imu” e “stimoliamo la crescita” – si
tramuteranno in tagli furibondi alla spesa pubblica, riduzione
dell'occupazione e permanente assenza di ammortizzatori sociali adeguati
(il “reddito minimo di cittadinanza” resta in Italia uno slogan buono
per tutti, ma da realizzare mai).
Una sola cosa è facile prevedere: una “classe politica con poltrona”
così debole, incollata con lo sputo ma divisa tra competenti e
incompatibili, reagirà a qualsiasi contestazione di massa come davanti
al muratore disoccupato armato. Invocherà l'intangibilità del proprio
potere e delle decisioni imposte dalla Troika, ridurrà ulteriormente i
margini di mediazione sociale (i lavoratori di Palermo, venerdì sera,
hanno già sperimentato cosa voglia dire), “consiglierà” con maggiore
fermezza quale linguaggio i media dovranno adottare (Monti e Napolitano,
sul tema, si sono già più volte esibiti in numeri da Minculpop).
Battere
questo avversario e questo modo apertamente antidemocratico di
governare si può. Ma bisogna avere rabbia calda dentro e cervello freddo
in ogni istante. Bisogna cancellare definitivamente sia la ricorrente
tentazione del rifugiarsi nel “meno peggio”, sia l'autoreferenzialità da
“piccolo gruppo”, pessima eredità di altre epoche.
Un
movimento di massa politicamente indipendente può e deve raccogliere e
coordinare la marea di conflitti esistenti, di straordinaria tensione
sociale ma tutti molto isolati; può e deve mettere in campo una proposta
di “politica che non mira alla poltrona”,
fatta di mobilitazione sociale e orizzonte anticapitalista. Questa la
nostra risposta e la nostra scommessa. A partire dalla prima assemblea, a
Bologna, l'11 maggio.
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