Gli avvenimenti degli ultimi due mesi hanno di positivo la sempre più
radicale chiarificazione di quale sia la situazione dell'Italia, al di
là di quello che i mass-media riversano su di un'opinione pubblica
attonita difronte al totale scollamento fra la situazione reale del
Paese e le manovre della nostra classe dirigente.
Una prima
constatazione è indispensabile, anche se non sembra ve ne sia traccia
tra gli innumerevoli commenti sulla vittoria elettorale del Movimento
Cinque Stelle: per la prima volta infatti si è affermata elettoralmente
in Italia una forza politica di valenza nazionale diversa dai partiti
che presero forma e potere settant'anni fa, dopo la caduta del fascismo,
il 25 luglio 1943. Il Movimento Cinque Stelle, infatti, non ha più
alcun riferimento né storico né ideologico né internazionale rispetto a
quelli che hanno caratterizzato i partiti nati o rinati nel tragico e
travagliato biennio 1943-45.
È senza dubbio questa, in realtà, la
novità che maggiormente preoccupa e sorprende l'establishment dei
partiti italiani: li preoccupa e li sorprende perché, per la prima volta
in settant'anni di vita, è il sistema dei partiti a trovarsi ridotto
sulla difensiva e perciò obbligato, qualunque sia la collocazione
ideologica o pseudo-ideologica di ogni singolo partito, a manifestare
senza più mascheramenti la natura conservatrice della propria politica -
arroccandosi nella difesa a oltranza di un sistema che pure ha ormai
dimostrato, davanti all'opinione pubblica italiana e internazionale, di
avere fatto il suo tempo da ogni punto di vista, incapace com'è stato di
proporre e attuare soluzioni efficaci dinnanzi alla complessità delle
sfide di questo momento storico.
Il vergognoso spettacolo offerto dai
partiti storici nel corso delle elezioni del presidente della
Repubblica, la completa disgregazione politica e morale dell'unico
superstite partito di massa italiano (l'ex Pci), la rielezione del
presidente che maggiormente ha contribuito all'affermazione,
dimostratasi del tutto fallimentare, dei "tecnici" come ultima ratio per
la conservazione del sistema - tutto ciò dimostra che questa ostinata
strategia difensiva è davvero difficile da giustificare davanti al
Paese, perché i problemi maggiori dell'Italia sono senza meno
riconducibili proprio al potere che i partiti hanno assunto nella
democrazia parlamentare italiana ed al modo con cui essi lo hanno
utilizzato.
I partiti, da pure associazioni di cittadini destinate a
"concorrere" alla determinazione della politica nazionale, secondo
quanto recita l'art. 49 della Costituzione, sono in realtà divenuti
costose istituzioni parallele dello Stato: come tali hanno condizionato
non solo la vita politica ma la gestione operativa delle pubbliche
amministrazioni, da quelle centrali a quelle periferiche; essi, a causa
dell'inesauribile fame di denaro delle loro macchine clientelari, hanno
permesso e beneficiato di un patologico intreccio affaristico con i
poteri economici, ivi compresi i contro-poteri occulti (come quello
delle mafie), piegando ai loro desiderata, spesso grazie allo
spargimento di sangue di innocenti concittadini o di servitori dello
Stato, la vita della collettività; essi sono i garanti della
collocazione internazionale del nostro Paese rispetto alle grandi forze
egemoni di livello mondiale, impedendo l'enuclearsi di un'autonoma
visione degli interessi dell'Italia e di una chiara e coerente strategia
per il loro perseguimento.
Dopo la rielezione di Napolitano
assisteremo alla costituzione di un ennesimo "governo tecnico",
impegnato a mettere in pratica le indicazioni di quei cosiddetti "saggi"
che hanno formalizzato in due documenti di straordinaria miopia quel
pugno di soluzioni di piccolo cabotaggio ritenute necessarie a
perpetuare il sistema nel suo insieme, partendo dal presupposto che, in
un momento di giganteschi mutamenti come quelli in corso a livello
mondiale (crisi del capitalismo finanziario; spostamento sul Pacifico
della competizione geo-politica; riemergere su scala mondiale della
questione sociale; progressivo indebolimento dell'Europa unita), questo
sia sufficiente a garantire ai partiti la perpetuazione del loro potere e
degli equilibri affaristici che lo alimentano.
Sfuma quindi
nell'immediato la possibilità che, dopo le recenti elezioni, pure poteva
disegnarsi per l'Italia, di realizzare una democrazia liberata dalla
partitocrazia: tema questo che, come è ben noto, rappresenta dalla fine
dell'Ottocento una delle esigenze più gravi e documentate della storia
della democrazia occidentale - giacché troppo spesso si dimentica che la
crisi che negli anni Venti del XX secolo portò alla nascita dei regimi
totalitari in Europa ebbe una delle ragioni del loro indiscusso seguito
di massa nell'incompiutezza dei sistemi democratici, nei quali proprio i
partiti avevano cercato di conquistarsi un ruolo determinante nelle
istituzioni, esattamente quello che in Italia hanno raggiunto pienamente
nel secondo dopoguerra, grazie all'influenza sulle grandi masse del
cattolicesimo e del marxismo-leninismo.
È ora del tutto evidente che
all'arroccamento della partitocrazia italiana si può rispondere solo con
una moltiplicazione di forze morali ed ideali: è infatti necessario
oramai pensare in termini di ricambio di classe dirigente, riuscendo nel
difficilissimo compito di formarla con la necessaria rapidità e
profondità, senza che sia più sufficiente, a nostro avviso, l'idea che
internet, la tecnologia virale e gli strumenti social siano sufficienti a
dare un'impostazione strategica al cambiamento. Solo uomini
disinteressati e preparati, con una visione d'insieme e la necessaria
determinazione per perseguirla, possono affrontare il compito.
Sul
piano ideale, sarebbe infatti tragico limitarsi all'elencazione di quei
dieci o venti provvedimenti, pur necessari ed applicabili, che
l'attualità richiede a viva forza. Se essi non vengono inseriti in una
visione di insieme, nella quale siano affrontate le questioni di fondo
che i mutamenti contemporanei sollevano, a poco servirebbero: occorre
parlare di riorganizzazione del sistema sociale, inclusa la concezione
del lavoro, della proprietà e della moneta, avendo chiara la relazione
con i diritti individuali e con i beni comuni; occorre disegnare,
nell'orientamento complessivo dell'economia e dei suoi obiettivi,
modelli di sviluppo alternativi, in grado di equilibrare capacità,
risorse e sostenibilità nel tempo; occorre affrontare la questione della
collocazione internazionale dell'Italia, rispetto sia alla questione
dell'unificazione europea che a quella di un atlantismo superato dai
fatti; occorre lavorare per liberare cultura, istruzione e ricerca dai
vincoli opprimenti con cui economia e partitocrazie le condizionano.
Si
raggiunge questo chiaro ma difficilissimo obiettivo rendendo i
cittadini consapevoli di cosa debba essere oggi un organismo sociale
sanamente e non patologicamente attivo: in esso, nelle società
post-industriali complesse, si deve rendere armoniosa ed efficiente la
coesistenza fra le esigenze di uno sviluppo culturale intellettuale
scientifico, come motore ideale della società, quelle di
un'amministrazione politico-giuridica equa e funzionale e quelle di
un'economia cui non sia più possibile invadere, grazie al potere della
moneta e del lavoro fatti merce, le altre sfere della società.
La
democrazia, se vuole affrontare con efficacia il presente per il futuro,
deve in sostanza emanciparsi definitivamente dai residui feudali che
ancora la soffocano: da un lato quelli derivanti dalla partitocrazia,
dall'altra quelli dei potentati economici, non a caso tra loro
reciprocamente intrecciati. Solo in questo modo, con la piena libertà di
espressione delle capacità individuali, con l'equa applicazione dei
diritti del cittadino, con la solidarietà richiesta dalla crescente
interdipendenza delle relazioni economiche (produzione, circolazione,
consumo), possiamo pensare che i popoli possano conquistare la
responsabilità e la dignità, attraverso l'autogoverno e la piena
sovranità.
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