C'è un dato
importante per capire la situazione politica italiana: durante i 60
giorni trascorsi dalle elezioni ad oggi, “i mercati” non hanno dato
alcun segno di nervosismo per l'inconcludenza assoluta della classe
politica di questo paese.
Certo,
la società e l'economia stanno andando in putrefazione, un milione di
famiglie non vede entrare in casa neppure uno stipendio, le imprese
falliscono, i prezzi dei generi di prima necessità aumentano, i salari e
le pensioni sono fermi o arretrano (causa gli aumenti della tassazione
regionale o comunale), Equitalia e le amministrazioni locali
perseguitano chiunque debba qualche spicciolo allo Stato mentre evitano
di infastidire chi dovrebbe pagare milioni, la disoccupazione vola e non
c'è giovane che non ci faccia i conti, saltellando tra un “lavoretto”
all'altro...
Ma questi sono problemi del paese, cioè nostri.
Non dei “mercati”. Per loro la situazione risulta “sotto controllo”,
tanto che lo spread è diminuito anche in presenza degli stop più
clamorosi verificatisi nella formazione di una maggioranza e persino
nell'elezione del presidente della Repubblica. Lo hanno spiegato
ripetutamente Mario Draghi e Angela Merkel, José Barroso e il nuovo
“falchetto” dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem: è ormai in funzione un
pilota automatico che governa qualsiasi paese
dell'eurozona, a prescindere dalla composizione o dal tasso di
litigiosità interna degli esecutivi. È un governo fatto di trattati,
scadenze, verifiche comunitarie a getto continuo. Il bilancio di uno
Stato - anche a prescindere dall'“obbligo al pareggio” inscritto nella
Costituzione - viene confezionato, rivisto, corretto e integrato a
Bruxelles. Che ci sia, a palazzo Chigi, Ignazio La Russa o Nichi Vendola
è assolutamente indifferente. Le “cose da fare” non vengono più decise
in queste stanze.
Ma
non per questo l'evoluzione politica e istituzionale “interna” sono per
noi indifferenti. Il “campo di gioco” e “le regole” con cui si
confligge non possono mai esserlo.
E una cosa è diventata chiara sabato pomeriggio, con la ri-elezione di Giorgio Napolitano: siamo entrati nella Terza Repubblica. Presidenziale di fatto, per il momento, in attesa della “riforme istituzionali” che la rendano tale anche sul piano formale.
Per
due mesi la classe politica nazionale è stata lasciata “giocare” con le
proprie contraddizioni, le divisioni ininfluenti, le sordide ambizioni
individuali o di piccolo gruppo, la propria mancanza di visione storica.
La divisione in tre parti solo retoricamente
incompatibili tra loro ha contribuito notevolmente a distruggere la
credibilità di tutti i protagonisti in campo. Dissolvendo in primo luogo
il Pd, l'ultimo partito senza un monarca assoluto e luogo di
mediazione-scontro tra interessi sociali differenti.
Poi,
quando l'impotenza “collettiva” della classe politica tutta intera,
vecchia e “nuova”, renziani e grillini compresi è emersa in tutta la
sua drammatica realtà, quando lo “stato di eccezione” mostrava di non
poter essere mantenuto ancora senza danni, è calata la scure della
decisione sovrana che scioglie i nodi inestricabili. Lo spadone di
Alessandro a Gordio stavolta è stato mosso dalla Troika e ha il volto
impenetrabile di Napolitano II.
Elezione
del presidente della repubblica e governo del paese sono ora sinonimi,
al contrario di quanto prevede la povera Costituzione nata dalla
Resistenza. Il governo che Napolitano metterà ora insieme sarà
assolutamente il “suo”. Il presidente del consiglio non coinciderà
affatto con il front runner del partito che ha avuto più voti,
ma sarà l'uomo o la donna, questo è davvero secondario, per la Troika che assicura la fedele esecuzione del “programma”. Il nome di
Giuliano Amato, peraltro, sembra proprio quello che meglio può tenere
insieme il “radicalismo tecnocratico europeo” alla Monti e il
“conservatorismo clientelare” berlusconiano.
A
questo va rivisto e riletto il “programma” elaborato dai cosiddetti “10
saggi”, frettolosamente liquidato come una pura esercitazione
accademica per prendere tempo. La parte sulle modifiche istituzionali,
infatti, costituisce la base su cui Pdl, montiani, Pd e Lega si sono già
messi d'accordo. La parte economica, invece, ricalca più o meno
fedelmente l'”agenda Monti”. E non potrebbe essere altrimenti, vista
l'origine “europea” dell'elenco di “riforme strutturali” da mettere in
campo.
Costruire
l'opposizione sociale e politica è un compito che deve tener presente
in ogni momento questo relativamente nuovo campo di battaglia. Il
tentativo chiarissimo del potere è “scegliersi” l'opposizione che meno
lo disturba. Vale per il Movimento 5 Stelle, che ha perso in modo
ridicolo l'unica vera occasione per “scassare” il patto obbligato verso
il “governissimo” e isolare definitivamente Berlusconi (bastava votare
Prodi, peraltro inserito nella decade delle “quirinarie”); si è rivelato
per di più incapace di stare in piazza al punto da non riuscire a fare
entrare nemmeno il proprio leader-padrone. Un'opposizione virtuale,
politicamente moderata ancorché starnazzante su toni “hard”, rigida al
punto da esser facilmente prevedibile e quindi aggirabile da ogni lato,
che fa il pieno di tweet ma non morde nessuno.
Oppure
un'opposizione micro-indignata, capitanata da Vendola e magari dal
redivivo Cofferati, funzionale e adeguata a contenere il più possibile
la spinta proveniente dal mondo del lavoro e dai problemi sociali più
drammatici.
A nostro avviso serve davvero altro. Serve animare fin da subito un movimento politico di massa,
innervato fin da subito dalle avanguardie che stanno animando i punti
alti del conflitto sociale in questi mesi, chiaro fin da subito sui
propri obiettivi: rompere questa Unione Europea costruita per affamare i popoli.
Un
movimento anticapitalista, capace di guardare oltre le mura del modo di
vita attuale. Il futuro non è scritto e qualche penna l'abbiamo anche
noi.
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