Fine ingloriosa della teoria economica che ha guidato fin qui le
decisioni della Troika. Rogoff e Reinhart tra banali errori di calcolo e
previsioni sballate.
“Grigia è la teoria, amico mio, ma verde è l'albero eterno della
vita”. Il vecchio Mefistofele se la riderebbe alla grande anche oggi,
leggendo le pagine economiche dei giornali. Perché se le teorie,
oltretutto, sono quelle nate all'interno della “scienza triste” allora
c'è davvero ben poco da salvare.
Un nuovo studio statunitense ha scoperto che i calcoli alla base della teoria che sta orientando le “ricette anticrisi” della Troika (Bce, Ue, Fmi) sono semplicemente sbagliati.
La teoria si chiama “austerità espansiva” ed era stata illustrata
dettagliatamente in un celebre libro di Kenneth Rogoff e Carmen
Reinhart, scritto nel 2010, all'indomani dell'esplosione della più grave
crisi della storia capitalistica. Quindi di tutta la storia umana.
Le teorie sono sempre molto complesse, ma il dibattito
politico-giornalistico inevitabilmente è costretto a semplificarle per
poterle maneggiare in spazi più limitati e porle quindi a fondamento –
magari solo retorico – di decisioni operative. Siano queste prese dagli
stati o, come sta avvenendo in Europa, da istituti sovranazionali privi
di ogni legittimazione democratica. Il nocciolo della teoria
dell'austerità espansiva è tutto in una soglia numerica: un
rapporto del 90% sul Prodotto interno lordo è il livello massimo di
indebitamento sostenibile per un paese. Le economie nazionali
appesantite da un debito pubblico superiore al 90% si troverebbero
dunque per forza di cose con la crescita zero o negativa.
Come avevano fatto Rogoff e Reinhart a individuare questo (presunto)
limite? Analizzando i trend di crescita e indebitamento di una serie di
paesi, in determinati anni. Chiaro che se il campione scelto è troppo
ristretto (pochi paesi, troppo pochi anni, ecc) si rischia di sbagliare
qualcosa. Se poi si evita di prendere in considerazione quei paesi o
quei periodi in contraddizione con le proprie convinzioni, ecco che i
risultati non possono che diventare arbitrari. Della serie: si dimostra
quello che si voleva dimostrare, non come funziona davvero il mondo.
È quello che i due economisti statunitense di fede repubblicana hanno
fatto. Non solo. Hanno sbagliato sia i calcoli veri e propri sui dati,
sia le “stime” o previsioni.
Il critico più drastico di questa
teoria è naturalmente Paul Krugman, “keynesiano spinto”, secondo cui la teoria va semplicemente rovesciata: è il basso livello di crescita economica (del Pil, insomma) a far aumentare il debito pubblico,
non viceversa. Ma esistono esempi che invalidano anche questo
rovesciamento (il debito italiano è cresciuto mentre l'economia andava
discretamente, negli anni '80).
Messa così diventa la classica
discussione se sia nato prima l'uovo (l'indebitamento) o la gallina (la
crescita). E sorge il legittimo sospetto che qualsiasi decisione presa
seguendo queste due versioni opposte della stessa visione del mondo (il
capitalismo come unico modo possibile di produrre e vivere) sia
semplicemente sbagliata e controproducente. Aumentare la spesa (quindi
il debito) ha dei limiti oltre cui l'aumento di liquidità disponibile
non si traduce più in crescita; tagliare la spesa, al contrario, provoca
immediatamente la recessione e non parte mai la “fase espansiva”.
In Italia questa teoria ha la faccia di teflon di Mario Monti; il quale
non ha mai negato che le sue politiche avevano un intento recessivo
immediato, ma nella convinzione che le “riforme strutturali” (taglio a
pensioni, sanità e istruzione, mercato del lavoro devastato
dall'eliminazione di diritti e contratti nazionali, ecc) avrebbero prima
o poi ripristinato le condizioni per una “crescita”.
Nella
realtà di ogni giorno sappiamo che non è così. Ma nessuno ci avrebbe
potuto garantire che prima o poi la ripresa, per questa via
deflazionistica, sarebbe potuta arrivare. In fondo, già Schumpeter aveva
elaborato qualcosa di simile – anzi, di molto più radicale e
interessante – quando aveva parlato di “distruzione creatrice” come
comportamento tipico del modo di produzione capitalistico. E Marx,
sicuramente, aveva fatto di meglio analizzando il rapporto tra sovrapproduzione – crisi – distruzione del capitale in eccesso – nuova
partenza dell'accumulazione.
Ora i governi
mondiali e la Troika si ritrovano senza più una teoria che faccia da
guida per l'azione. Ma non dubitiamo che andranno avanti sulla strada
seguita fin qui. In fondo abbiamo capito da tempo che la loro azione non
è davvero orientata da teorie, ma da precisi interessi economici.
Diciamo che avranno qualche imbarazzo in più per giustificare le
proprie decisioni. Ma troveranno sempre un Alesina o un Giavazzi pronti
ad apportare quelle modifiche ad hoc sufficienti per argomentare che
proprio quello bisognava fare.
È un vecchio mestiere, quello di sparar cazzate per coprire comportamenti criminali.
*****
L'articolo che La Stampa ha dedicato alla “scoperta” dell'errore.
Scricchiola il mito dell’austerità
Stefano Lepri
L’alto debito pubblico è una palla al piede della crescita economica?
Forse no, o forse non tanto. Negli Stati Uniti una disputa accademica
tra economisti sta diventando materia di dibattito diffuso, dilaga su
Twitter, viene rilanciata nel mondo dalle agenzie di stampa. Si scopre
che sono sbagliati i calcoli di un libro famoso, pubblicato anche in
Italia: «Questa volta è diverso. Otto secoli di crisi finanziaria» (Il
Saggiatore 2010).
Gli autori, il celebre Kenneth Rogoff e
Carmen Reinhart nata Castellanos, docenti a Harvard, concludevano che
quando in un Paese il debito pubblico supera il 90% rispetto al prodotto
lordo, la crescita economica si azzera. Avevano rielaborato i dati di
venti Paesi avanzati dal 1945 in poi. Ora altri tre economisti, della
poco lontana università statale del Massachusetts, hanno scoperto due
punti deboli in quel lavoro: un errore materiale e una ponderazione
discutibile. Rifacendo i conteggi, i tre – Michael Ash, Thomas Herndon e
Robert Pollin – dagli identici Paesi nei medesimi anni raggiungono un
risultato assai meno persuasivo: un solo punto in meno di crescita dove
il debito è oltre il 90%, rispetto a dove è tra il 60% e il 90% del Pil
(ovvero 2,2% annuo contro 3,2%). Reinhart e Rogoff riconoscono l’errore,
ma insistono che la differenza è significativa usando anche altre serie
di dati, che prendono in considerazione più Paesi e più anni.
In poche ore, la polemica si è allargata a dismisura. Negli Usa ha
estrema attualità politica, con la Camera a maggioranza repubblicana che
sostiene l’urgenza di ridurre il deficit tagliando la spesa, mentre la
sinistra preme su Barack Obama perché attenui l’austerità finché i
disoccupati sono tanto numerosi.
Rogoff, consigliere di John
McCain nella campagna elettorale del 2008 oltre che Gran Maestro di
scacchi, è un repubblicano moderato. Il Premio Nobel Paul Krugman,
capofila degli economisti di sinistra, si getta nella mischia a testa
bassa come suo solito: pur non mettendo in dubbio la buona fede di
Rogoff, gli rimprovera di perseverare nell’errore.
Facendo i
conti anche lui sui soli Paesi del G-7, Krugman nota che la relazione
tra debito e bassa crescita vale per Giappone e Italia, non vale affatto
per la Gran Bretagna. Mentre Ash, Herndon e Pollin professano cautela,
lui taglia netto: «La storia ci dice che sia l’Italia, sia soprattutto
il Giappone, hanno fatto ingenti debiti a causa della bassa crescita,
non il contrario».
In Italia non ne siamo tanto sicuri. Il
nostro debito pubblico si gonfiò soprattutto negli anni ’80, quando
l’economia non andava affatto male, 2,5% di crescita in media all’anno,
contro il 2,4% scarso della Germania. E che sia un grave rischio, questo
debito, lo abbiamo sperimentato in abbondanza prima nel 1992, con la
lira, poi nel 2011, con l’euro. Se indebitarsi fosse sempre efficace,
molti nostri governi sarebbero riusciti a mantenere le loro promesse.
Il dibattito tra gli economisti ferve, e continuerà. Il libro di
Reinhart e Rogoff era piaciuto a molti per le parti sull’euforia
finanziaria che porta alle crisi, e sulle illusioni con cui la gente si
tappa gli occhi quando vi partecipa; resta valido anche se la
correlazione stretta tra debito pubblico e crescita cade. Del resto il
Fondo monetario internazionale, fino a ieri gran predicatore
dell’austerità, oggi sostiene che in Europa rischiamo di averne troppa,
anzi esorta la Germania a spendere un po’ di più.
Di risparmio
ce n’è tanto nel mondo, ce n’è anzi in eccesso. Lo stesso Rogoff lo ha
scritto più volte. E se i privati non investono, in una certa misura a
questo risparmio è bene che attingano gli Stati. Il guaio è che con una
finanza mondiale instabile forse solo gli Stati di cui i mercati si
fidano, come gli Usa, possono continuare a indebitarsi senza rischio;
mentre dell’Italia si fidano poco.
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