La promozione dell'ignoranza è da anni la cifra genetica di tutti i
ministri dell'istruzione, da Lombardi e Berlinguer a Profumo, passando
per Gelimini, ecc.
Promozione dell'ignoranza perseguita in due modi: prima
dequalificando al massimo la formazione offerta (corsi semestrali,
proliferazione di università, dipartimenti, corsi di laurea senza
docenti all'altezza, ecc), e in secondo luogo alzando le tasse di
iscrizione oltre la soglia delle possibilità delle famiglie meno ricche.
Un dispositivo classista mirante esplicitamente a bloccare la scala
sociale, lasciando ai piani bassi chi da lì parte (per le singole
eccezioni, naturalmente una soluzione si trova sempre e non contraddice
la regola).
Abbassando al massimo il rapporto qualità-prezzo,
infatti, si ottiene esattamente questo risultato: i rampolli delle
famiglie benestanti vanno immediatamente verso le università private
(detto fra noi: con ben poche "eccellenze" in cattedra, compresi gli
economisti), mentre quelli "da lavoro dipendente" rarefanno le
iscrizioni anno dopo anno.
Non sono mancati i complici, naturalmente.
Dagli ex portaborse ricollocati come "docenti", ai professori pavidi
tutti desiderosi di diventare capi-dipartimento (e quindi favorevoli per
decenni alla proliferazione insensata di nuovi corsi inutili), a quella
parte di studenti che pensava di essere ribelle quando chiedeva un
"apprendimento lento" e "compatibile con le esigenze di vita".
*****
Record
negativo di iscritti all'università in Italia: nel 2012/2013
immatricolati solo il 57,7% dei diplomati. In 24 mesi il sistema
universitario italiano ha perso quasi 100mila iscritti. Le cause sono
nelle politiche di de-qualificazione portate avanti dai governi negli
ultimi anni.
Sempre più cara, sempre più d’elite, sempre meno di massa. Che l’università italiana stesse vivendo un periodo non facile in
termini di immatricolazioni, di qualità della didattica e di appeal,
gli studenti lo denunciavano da anni con le loro mobilitazioni. Nei
giorni scorsi è però arrivato il dato che certifica una situazione che
va ben oltre la criticità: nell’anno 2012/2013 solo il 57,7% dei diplomati hanno poi deciso di proseguire gli studi.
Calcolare
il tasso di diplomati che ogni anno si immatricolano è molto semplice:
basta incrociare i dati forniti dal Ministero dell’Istruzione che
quantificano in numeri assoluti i diplomi annuali con quelli resi noti
dalle Università. Il risultato documenta il drammatico fallimento del sistema d’istruzione italiano
che negli ultimi 10 anni ha visto pericolosamente abbassarsi il tasso
di laureandi e di laureati. In realtà, andando molto indietro nel tempo,
il record negativo toccato quest’anno regge per ben 30 anni, visto che nel 1982 oltre 7 giovani diplomati su 10 proseguirono gli studi. Un dato che è risultato in crescita costante sino al picco del 1991/1992
quando gli immatricolati furono il 79,9% dei diplomati. Da allora
risultati altalenanti ma comunque positivi negli anni ‘90, fino al
continuo trend negativo degli anni 2000 e al record negativo di
quest’anno, che ragionando in termini assoluti rende ancor più l’idea
delle proporzioni del fenomeno: in soli 12 mesi il sistema universitario
italiano ha perso quasi 100mila immatricolazioni.
Un risultato,
quello italiano, ancor più grave se si travalicano i confini nazionali
per fare un confronto col contesto europeo. Con il suo misero 19,8% di popolazione compresa tra i 30 e i 34 anni fornita di laurea,
l’Italia è il paese europeo con il minor tasso di laureati.
Lontanissime Germania e Francia, che rispettivamente registrano tassi
del 30% e del 43%. Altrettanto irraggiungibili, allo stato dei fatti,
gli obiettivi fissati dall’Unione Europea che per il 2020 prevedeva
percentuali del 40%. Cifre astronomiche, soprattutto per l’Italia, che
ricordiamo essere stato uno dei pochissimi paesi che in tempo di crisi
ha cercato di reperire risorse proprio dal mondo dell’istruzione, con
tagli al bilancio tra il 2010 e il 2012 nell’ordine del 10%. Così,
mentre l’Italia nel 2008 si apprestava a sforbiciare 100mila cattedre,
la Germania incrementava il numero degli insegnanti del 13% e la Turchia guidava il filotto di paesi che puntavano sull’istruzione con un aumento del 16,5% degli investimenti.
Il
perché in tempo di crisi in molti puntino sull’istruzione è molto
semplice: solo con una qualificazione della mano d’opera e con lo
sviluppo tecnologico è possibile reggere la concorrenza di sistemi
economici impostati sullo sfruttamento e sul basso costo del lavoro. La
considerazione non è nemmeno troppo d’avanguardia se è vero che molti
economisti negli ultimi anni si sono spesi nel definire l’istruzione e la cultura due veri e propri volani per l’economia.
Investire oggi per quadruplicare i benefici domani è però una teoria
che solo i nostri governanti non hanno compreso. Persino dalle parti di
Bruxelles, dove i conti li sanno fare bene, si sono convinti
dell’importanza degli investimenti in università e ricerca, tanto che
proprio l’Italia è stata nei mesi scorsi oggetto di un forte richiamo da parte della Commissione,
che per bocca di Androulla Vassiliou commentava: "Se gli Stati membri
non investono adeguatamente nella modernizzazione dell'istruzione e
delle abilità ci troveremo sempre più arretrati rispetto ai nostri
concorrenti globali e avremo difficoltà ad affrontare il problema della
disoccupazione giovanile".
Parole che suonano come un’accusa
nemmeno troppo velata contro le politiche messe in campo dagli ultimi
governi che avrebbero dovuto, nelle intenzioni sbandierate, snellire e
rilanciare l’università italiana nel segno della meritocrazia, e che
invece hanno solo avuto l’effetto di rendere alienante la didattica (a
causa della riduzione e dell’invecchiamento dei professori) e di
aumentare i costi chiudendo le porte ai meno abbienti. Un vero disastro,
dunque, che sembra non dispiacere però a qualche nostro miope politico
visto che per il nascente governo Letta qualcuno ha fatto il nome di Mariastella Gelmini per il ministero dell’istruzione. Come a dire, al peggio non c’è mai fine.
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