Qualcuno poteva pensare che fosse una esagerazione il periodico martellamento del mio sito contro Giorgio Napolitano, considerato il principale ispiratore delle più sciagurate politiche che negli ultimi trent’anni hanno cancellato quel poco che c’era di buono (e non era tanto) nel vecchio partito comunista e nei suoi eredi.
In effetti cliccando sul nome Napolitano nella colonnina a destra in alto sul sito, di articoli polemici col presidente se ne trovano più di trenta. Ma non mi sbagliavo.
Il primo, Napolitano: non è viltà!, era dei primi tempi del sito, nell’ottobre 2009, e del presidente diceva che non era possibile considerarlo “al di sopra delle parti”, perché era un uomo di parte da decenni. Era il principale leader dell’ala “migliorista” del PCI (quella che al presunto “tutto e subito” di ipotetici massimalisti, rispondeva di fatto con un “niente e mai”, si diceva maliziosamente nel PCI). Era l’ala nata all’ombra di Amendola, e a cui si richiamavano Chiaromonte, Fassino, Macaluso, e tanti altri.
E alla memoria di Gerardo Chiaromonte non a caso Napolitano ha dedicato la sua nuova sortita contro il presunto estremismo di Bersani e a favore di un nuovo “compromesso storico” in cui al posto della DC di Moro ci dovrebbe essere il PDL di Berlusconi, Santanché e Brunetta… (e perché non il M5S? C’è una nuova conventio ad excludendum?)
Effettivamente ha però ragione Napolitano a far partire la sua crociata anticomunista e antioperaia dal 1976, e non dal 1980, anche se quell’anno in effetti concludeva una fase, con un primo decisivo successo della controffensiva padronale. Proprio Chiaromonte fornì allora le pezze di appoggio per far accettare ai militanti più ciechi quella sconfitta spacciata per vittoria, ma le premesse erano state poste almeno cinque anni prima.
Il problema è che prima di quella sconfitta era assai difficile esplicitare quelle conclusioni a cui portava il rifiuto (tutto ideologico) di quello che Napolitano chiama “estremismo demagogico”. Ancora nel 1979 Giorgio Amendola, vero e indiscusso leader dei miglioristi, aveva sferrato su “Rinascita” (n. 43 del 9 novembre 1979) un attacco ai sindacati che si univa alla campagna della destra contro la loro “tolleranza” nei confronti delle lotte “incontrollate” o “corporative” e per la loro “complicità” con l’estremismo diffuso nei principali Consigli di Fabbrica. Gli aveva risposto Giorgio Bocca, ricordando che lo stesso Amendola non a caso non aveva fatto le stesse denunce nei dieci anni precedenti, nei quali la politica sindacale non era stata elaborata a tavolino, ma in condizioni di particolare emergenza sotto la minaccia di perdere il controllo di settori non trascurabili di classe operaia.
C’era voluta la clamorosa sconfitta nel 1980 di una classe operaia ancora fortissima, ma tradita dalla doppiezza del PCI e della sinistra sindacale (dai Carniti ai Bertinotti), per poter esplicitare una linea di totale capitolazione e definitiva rinuncia alla difesa degli interessi generali della classe lavoratrice (c’erano ormai solo gli “interessi nazionali”…). Le tappe sindacali sono ben note, e non tutte ascrivibili direttamente al PCI, quelle politiche sono state quasi del tutto occultate dal culto di Sant’Enrico Berlinguer, diffusissimo anche in gran parte del PRC.
L’orientamento a cui fa riferimento Napolitano, peraltro evitando di ricordarne le conseguenze, fu l’appoggio attraverso un’astensione (o un’uscita dall’aula al Senato) a un monocolore democristiano guidato dall’astuto e infame Andreotti, che non a caso il presidente della repubblica evita di nominare. Nella sua rievocazione apologetica si tocca spesso il tasto dell’unità, che fa sempre presa sui militanti di provenienza PCI, ma l’ipocrita presidente preferisce parlare fumosamente di “banco di prova del non settarismo, del non dogmatismo”, e del “non perdere il filo del rapporto unitario con il partito socialista”, senza nominare mai quel Craxi che giustamente non è ricordato con affetto dagli stessi iscritti al PD, e che al povero Berlinguer riservò umiliazioni non minori a quelle che il M5S avrebbe riservato a Bersani secondo tutti i commentatori (non Napolitano, che ignora semplicemente l’esistenza del M5S).
Napolitano si riallaccia idealmente a Enrico Berlinguer, rivendicando l’impegno al suo fianco di Chiaromonte “nella scelta e nella gestione di una collaborazione di governo con la Democrazia Cristiana dopo decenni di netta opposizione”. Ma sottolinea subito il dissenso che egli ebbe con lo stesso Chiaromonte, quando seguì Berlinguer in quella che Napolitano chiama “la concitata chiusura, da parte del PCI, dell’esperienza della solidarietà nazionale”.
Evidentemente la scelta ideologica di Napolitano, che era anche orientata verso “la sinistra europea” (e israeliana, aggiungo, perché Napolitano aveva stretto un forte rapporto con Simon Peres per facilitare il traghetto del PCI nelle file non gloriose della socialdemocrazia), non era stata intaccata dalla verifica dei primi risultati negativi di quell’alleanza subalterna con una DC che era in crisi, ma che veniva aiutata in ogni modo a superarla. Al contrario Chiaromonte, che pure aveva auspicato un rafforzamento del PSI e un ridimensionamento del PCI, per eliminare gli ostacoli alla sua partecipazione al governo, non esitò ad accettare almeno inizialmente il cambiamento di linea dopo le prime verifiche dei pessimi risultati ottenuti.
Questa nuova sortita di Napolitano, che rivela la sua testardaggine ideologica, spiega meglio di ogni altra cosa i guai di Pierluigi Bersani. Il quale già ha pagato caro il lungo appoggio a Monti, che gli ha impedito di spiegare agli elettori il senso della sua miserabile “salita in politica”, ma si trova di fronte una contraddizioni di fondo: non può spiegare ai suoi seguaci che Napolitano non è al di sopra delle parti, come tutti hanno ripetuto per sette anni, ma sta tenacemente e pervicacemente da una parte sola, da quella dei padroni. Che è indifferente alle sofferenze di chi è costretto a vivere (in due…) con una pensione di 500 euro, e a 62 anni non può andare in pensione, mentre nessuno ha toccato da decenni i profitti dei capitalisti, degli speculatori, degli evasori. Che se ne infischia delle fabbriche che chiudono una dopo l’altra, o dimezzano i loro dipendenti, in paese in cui tutti ripetevano che era difficile licenziare…
Napolitano è allucinato, ha incubi inverosimili, vede estremisti dovunque, mentre non se ne trova più uno neanche a pagarlo a peso d’oro. Siamo in un paese in cui non ci si ribella alle ingiustizie, si reagisce al massimo col suicidio. E si diffonde di nuovo l’ideologia dell’elemosina, per rendere sopportabile la povertà…
Una sinistra potrà rinascere solo ricominciando a esprimere disprezzo, rigetto (escrache, come dicono argentini e spagnoli), non solo per Berlusconi e la sua corte, ma per tutti i complici e fiancheggiatori delle politiche antioperaie, a partire dal re dell’inciucio, Napolitano, e da chi non ha il coraggio di rompere con essi e li considera interlocutori validi. Non alludo solo alla penosa appendice caudale del PD, SEL, ma anche al PRC, che insieme al fratello gemello PdCI, ha puntato su Ingroia per riuscire ad agganciare il PD e poter garantire la propria aspirazione a “governare”…
Bisogna ricostruire quella sinistra che – come nei primi decenni della sua esistenza – non contava sui finanziamenti di uno Stato (che considerava giustamente nemico), ma solo sulle sue modestissime forze e sullo spirito di sacrificio dei suoi militanti. E che capisca che si può pesare di più dall’opposizione che dalle anticamere del Palazzo.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento