Cosa pensi della nuova ipotesi di patto sociale tra sindacati e Confindustria?
E’ una sorta di governissimo del ceto burocratico sindacale. Una mossa che porta allo scoperto la crisi di rappresentanza, di consenso e di iniziativa di queste organizzazioni. Mi pare che che cerchino di sorreggersi l’una con l’altra.Hanno parlato di uno sciopero fatto insieme tra imprenditori e lavoratori. Di che si tratta?
Non credo che si arriverà ad una manifestazione comune. E’ già grave quello che succede adesso con l’assenza totale di iniziativa. Questa idea del patto sociale è solo l’ultimo cascame della concertazione, che negli anni novanta è stata una delle cause della crisi perché ha frenato il conflitto quando i lavoratori avevano ancora la forza di farlo. E questo ci ha infilato nella crisi. Ad un certo punto i padroni non hanno avuto più bisogno della grande concertazione e quindi i sindacati si sono trovati in una posizione molto più marginale. E come tentano di uscirne? Sia Cgil che Cisl hanno investito tutto sulle elezioni per cercare di costruirsi un ruolo e tutte e due hanno perso. Sia chi aveva puntato sul centrosinistra, sia chi aveva puntato sul centrodestra. Lo stesso Squinzi si ritrova alla testa di un padronato che in realtà va in tutte le direzioni. Quindi, tutti e tre hanno interesse a pesare in una logica corporativa dei produttori che parlano alla politica.
Anche la Fiom sembra voler muovere le sue pedine e va verso una mobilitazione con al fianco addirittura un ex ministro del Governo Monti.
La Cgil è divisa tra due progetti entrambi sbagliati. Uno è il progetto maggioritario di Camusso, mentre l’altro è il progetto neolaburista di Landini, Barca e Vendola, cioè l’idea di fare in Italia un partito socialdemocratico che faccia riferimento al lavoro. In sostanza è il progetto in cui ha fallito Bersani. Non ha futuro. A me dispiace che il gruppo dirigente della Fiom investa in tutto questo. E’ la fuga dalla realtà sociale del Paese. E’ un progetto dignitoso che percorre strade già sfumate in tutta Europa. Può forse servire ad ottenere che il gruppo dirigente della Fiom esca da un certo isolamento nel palazzo ma non rilancia di un millimetro il percorso della lotta sociale. Come l’altro, non confligge. Entrambi rappresentano due versioni della stessa crisi delle organizzazioni sociali. E poi, Barca non ha fatto nemmeno un centesimo di autocritica rispetto alla sua partecipazione nel governo Monti.
Qual è secondo te la via d’uscita invece?
Bisogna smetterla di concertare e tornare alla natura originaria del sindacato. Non è vero che non si può organizzare il lavoro. Penso ai tranvieri di Bologna oppure a un piccolissimo sindacato come il “Si Cobas” che ha fatto uno sciopero piccolo ma grande degli schiavi della logistica in Emilia Romagna. La Fiom, questo, l’aveva intuito ma l’ha trasformato in immagine politica e non in pratica. Ovvero, la ricostruzione del conflitto attraverso un programma economico e sociale di rottura. Da questo punto di vista questo dibattito tra due anime della Cgil, neocorporativa e neolaburista, è un dibattito tra due anime non in grado di essere all’altezza della gravità della crisi. Voglio sommessamente ricordare che lo schieramento dei produttori è quello che ha cancellato le pensioni e l’articolo 18. Dall’altro lato, basta vedere quello che è accaduto in Europa, dove la socialdemocrazia con Hollande sta attuando in Francia le politiche della Merkel.
Cosa pensi della lettera della Direzione del Prc sulla necessità di costruire un soggetto unitario a sinistra?
Penso che sia giusto lavorarci ma bisogna partire dalla constatazione del fallimento della strategia politica del gruppo dirigente in questi ultimi dieci anni. Penso che ci sia bisogno in Italia di una sinistra antagonista che non può nascere però all’interno di un partito sconfitto. Il Prc deve aver il coraggio di mettersi in discussione.
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