L'ultima azienda di telecomunicazioni italiana – Telecom Italia, che
contine al suo interno anche la “gallina dalle uova d'oro, Tim –
diventerà, con molta probabailità, cinese.
Versione Hong Kong, si sarebbe detto una volta. Ma ormai non fa
più molta differenza, visto il rientro dello staterello ex colonia tra
le braccia della grande Cina.
È questo il risultato delle
“privatizzazioni” varate nella seconda metà degli anni '90 dal governo
Prodi, in cui brillava un giovane ministro dello sviluppo
economico che di privatizzazioni e liberalizzazioni ne fece a iosa.
Anzi, a “lenzuolate”. Si chiamava Pierluigi Bersani.
In soli 15
anni, dunque, il nostro paese scompare dal panorama dei titolari di
almeno un'azienda in un settore tecnologicamente strategico come le
telecomunicazioni.
Di tutte le promesse fatte al tempo (maggiore
efficienza, maggiore crescita, prezzi più bassi, più occupazione, ecc)
ne è stata parzialmente realizzata soltanto una: i prezzi si sono
effettivamente abbassati un po', per effetto di una concorrenza spietata
cui si è aggiunto il peso di un investimento eccessivamente oneroso per
l'acquisto delle frequenze (la famosa asta “3G” gestita dal ministro
Cardinale). Tutto il resto è finito a rotoli, complice un'imprenditoria
italiana sveltissima ad afferrare l'occasione delle plusvalenze senza
rischio, ma assolutamente inabile a gestire aziende di grandi
dimensioni, per periodi lunghi, con strategie efficaci, con management
efficiente.
Una debolezza strutturale e culturale che ha
vanificato, e infine regalato, un patrimonio tecnologico e di conoscenze
costruito in decenni, grazie alla proprietà statale; un patrimonio che
produceva utili, o almeno li ha prodotti finché la “cagnotta” pretesa
dalla “politica” non divenne troppo alta, ovvero fin quando il
management era scelto tra i migliori “boiardi” di stato e non tra gli ex
portaborse di qualche segretario di partito.
La storia infelice
delle telecomunicazioni italiane, passate dal primato internazionale a
terra di conquista, è la dimostrazione migliore di come l'ideologia che
ritiene “il privato” comunque superiore al “pubblico” è fumo negli occhi
per gli imbecilli. Non esiste infatti alcuna ragione perché un privato
“faccia meglio”, se il “pubblico” fa le sue scelte puntando sulla
competenza e l'onestà, invece che sull'obbedienza lecchina.
*****
Li Ka Shing e il lungo addio dell'Italia al settore della telefonia
articoli di Simone Filippetti, Antonella Olivieri e Stefano Carrer
Se
Li Ka Shing entrerà in Telecom Italia, in quindici anni l'Italia avrà
definitivamente perso tutte le sue aziende di tlc. Tutto è iniziato con
l'allora Omnitel finita agli inglesi di Vodafone, poi è stata la volta
della 3 Italia, venduta ai cinesi; e Wind, passata addirittura da uno
straniero all'altro: dall'Enel all'egiziano Naguib Sawiris e da Sawiris
all'oligarca russo Mikhail Fridman. Senza dimenticare Fastweb, regina
della new economy ora nelle mani dei riservati e taciturni svizzeri di
Swisscom.
Da fine anni 90, quando partì l'epoca delle
liberalizzazioni e fu un fiorire di compagnie telefoniche, alla fine
dell' "indipendenza", in un tempo record. L'ex monopolista telefonico è
rimasto l'unica azienda tricolore. E ora, nel vuoto della politica, con
un paese che – seppur in recessione rimane l'ottavo paese
industrializzato al mondo – è senza un governo da un mese e mezzo, anche
l'ex colosso pubblico potrebbe fare passaporto estero (cinese per
l'appunto). Ovvio che il libero mercato non ha e non può avere bandiere
nazionali, ma l'eventuale epilogo delle tlc in Italia è anche figlio
della mancanza di una politica industriale. Che non ha mai definito gli
interessi nazionali e creato dei poli di riferimento.
Il magnate
di Hong Kong (si veda altro articolo in pagina) ha risorse
apparentemente illimitate, ma 3 Italia, nata dalle ceneri di Andala
(fondata da Renato Soru e Franco Bernabè) non si presenta con una dote
propriamente invidiabile a un eventuale matrimonio con Telecom Italia,
guidata da quello stesso Bernabè: circa 8 miliardi di perdite cumulate
nel corso degli anni. Un solo bilancio in utile (quello del 2010, per
appena 150 milioni) in undici anni (anche se la società non brucia più
cassa da qualche anno ormai e ha un Mol in nero). Su 3 Italia pesa da
sempre il peccato originale delle fatidiche licenze Umts, messe in
vendita dallo stato a peso d'oro, strapagate dagli operatori e
rivelatesi un flop. Il gruppo fa solo telefonia mobile e dopo aver
tentato, senza troppo successo, la via delle video-chiamate, ha trovato
un business model di successo con le chiavette internet. Ma il conto
economico ancora arranca. E il magnate cinese da anni versa senza sosta
soldi nell'azienda. L'ultimo assegno è stato staccato a inizio 2012: un
maxi-prestito da un miliardo. Liquidità che si va ad aggiungere ai 4,4
miliardi versati nei soli ultimi cinque anni e che dovrà servire per
ripianare le perdite e continuare a sostenere gli investimenti. 3 Italia
conta 9,6 milioni di clienti (soprattutto in banda larga mobile, oggi
il segmento di mercato più ricco): un portafoglio abbonati che
proietterebbe Telecom a sfondare la soglia dei 40 milioni (dai 33
milioni), superando di slancio Vodafone (oggi quasi appaiata a quota 29
milioni). Il nodo è che ciascun di quei clienti ha una spesa media in
continuo calo (18,44 euro l'Arpu totale del 2012 contro i quasi 20
dell'anno prima).
Il paese che ha inventato la telefonia mobile
rischia di trovarsi nella paradossale situazione di non avere una
compagnia telefonica nazionale (ci sarebbe Tiscali ma il gruppo di Soru è
assolutamente troppo piccolo). A fine anni '90 l'Italia era
all'avanguardia nelle tlc: la Tim guidata da Vito Gamberale lanciò,
prima al mondo, le carte sim. Fu l'allora giovane manager Roberto
Colaninno a dare il via al valzer: la Olivetti vendette la Omnitel alla
tedesca Mannesmann (e con il ricavato la Olivetti fece la provvista per
la scalata alla Telecom Italia del "nocciolino duro"
post-privatizzazione) che a sua volta fu comprata dalla Vodafone. Il
famoso logo verde di Omnitel rimase in vita qualche anno per poi essere
sostituito dal rosso Vodafone. Poi fu la volta di Wind quando l'Enel
della gestione di Paolo Scaroni decise di abbandonare la strategia della
multiutility. Spuntò Sawiris che ha tenuto Wind per sei anni e poi l'ha
venduta ai russi di Vimpelcom (attuali proprietari). Nel frattempo
anche Fastweb, la creatura di Silvio Scaglia e Francesco Michel, ha
preso la via dell'estero: la svizzera Swisscom. La stessa sorte toccherà
anche a Telecom?
da IlSole24Ore
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