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02/07/2013

Anche lo Stato comincia a licenziare: 7.800 "esuberi"

Partono le conseguenze "umane" dell'astratta "spending review". Inps e ministeri al centro del terremoto, per ora. Poi toccherà agli enti locali.

Anche la Pubblica amministrazione comincia a buttar fuori il personale "in eccesso". E' la logica assassina dei "tagli", che non prende in considerazione né le necessità funzionali del servizio né, tantomeno, quelle dei lavoratori che avevano messo la propria forza lavoro al servizio di un "bene comune" che avrebbe dovuto essere considerato "primario": il funzionamento dello Stato, da Palazzo Chigi fino all'ultimo ufficio territoriale.
Entro fine mese, i ministeri e altri rami della pubblica amministrazione "centrale" dovranno decidere la sorte delle circa 7.800 «eccedenze» (7.400 dipendenti, solo 400 i dirigenti) saltati fuori con il monitoraggio imposto dalla spending review. Nelle bozze del decreto «Iva-lavoro» era stata inserita una proroga, ma deve esser satata considerata "buonista". E' quindi eliminata dal testo su cui il governo Letta-Napolitano-Berlusconi ha posto la fiducia.

3.314 degli "eliminandi" si concentrano nell'Inps. Concorrono due fattori: il progetto generale di eliminazione del sistema pensionistico (non dichiarato, ma praticato ormai da quasi 20 anni) e la recente  fusione con l'Inpdap (l'istituto previdenziale dei dipendenti pubblici, peraltro senza portare in cassa i Tfr degli statali) ed Enpals (spettacolo e sport). La riorganizzazione farà quindi strage di dipendenti.
Altrettanti o quasi (3.236) dovranno andarsene dai ministeri, mentre una quota per ora minore riguarda gli "enti pubblici non economici" (Aci, Istat, ecc) o in quelli di ricerca. Pochissimi andranno via anche dall'Enac, l'ente nazionale dell'aviazione civile. Così per rendere più sicuri ed "efficienti" anche i cieli italiani.

L'unica forma di "atterraggio morbido" prevista è una selezione del personale da espellere in base ai requisiti previdenziali: chi raggiungerà entro la fine dell'anno quelli previsti prima della riforma Fornero potrà usufruire ancora delle forme di pre-pensionamento. Per gli altri, invece, si cercherà una ricollocazione (molto problematica) verso gli enti che hanno invece meno personale del richiesto in pianta organica.
Il problema è che questa "mobilità" - peraltro prevista da molti anni nell'ordinamento - non ha mai funzionato nella pratica. La ragione è semplice: erano i dipendenti a dover chiedere il trasferimento (spesso, infatti, il posto di lavoro si trova in una città diversa). Ora invece sarà obbligatorio. Si può facilmente immaginare quali problemi dovrà affrontare chi si troverà a dover "scegliere" tra cambiare città, insieme alla famiglia o senza, oppure perdere il lavoro... Chi non accetterà il trasferimento si vedrà corrispondere appena l'80% dello stipendio tabellare (escluse tutte le voci aggiuntive in busta paga, che hanno rappresentato da decenni l'unica voce "aumentabile" in sede contrattuale): il taglio effettivo può arrivare anche al 50% dello stipendio. Ma soltanto per due anni, trascorsi i quali o il dipendente pubblico accetta il trasferimento, oppure va per strada.

Il ministro della Funzione pubblica Gianpiero D'Alia ha deciso di accelerare avvalendosi dei una "collaborazione" indispensabile: «Stiamo lavorando con i sindacati per trovare criteri condivisi - ha spiegato al Messaggero - ma poi bisogna decidere». Senza complici, una manovra del genere avrebbe comunque vita difficile.

Subito dopo dovrebbe toccare anche alle pubbliche amministrazioni territoriali (Regioni, Province e Comuni). Qui le cose sono complicate dalla "legislazione concorrente" e dal fatto che nessuno ha calcolato le "medie" dimensionali tra i doversi enti. Quindi non è ancora possibile vedere in quali comuni o province supera del 40% il rapporto medio fra dipendenti e popolazione. Ovvero la "soglia" che obbliga a mettere in azione i tagli al personale.

A questo livello, peraltro, si colloca la quantità maggiore degli "esuberi" che ogni governo sogna di realizzare.

Fonte

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