Partono le conseguenze "umane" dell'astratta "spending review". Inps e
ministeri al centro del terremoto, per ora. Poi toccherà agli enti
locali.
Anche la Pubblica amministrazione comincia a buttar fuori il
personale "in eccesso". E' la logica assassina dei "tagli", che non
prende in considerazione né le necessità funzionali del servizio né,
tantomeno, quelle dei lavoratori che avevano messo la propria forza
lavoro al servizio di un "bene comune" che avrebbe dovuto essere
considerato "primario": il funzionamento dello Stato, da Palazzo Chigi
fino all'ultimo ufficio territoriale.
Entro fine mese, i ministeri e
altri rami della pubblica amministrazione "centrale" dovranno decidere
la sorte delle circa 7.800 «eccedenze» (7.400 dipendenti, solo 400 i
dirigenti) saltati fuori con il monitoraggio imposto dalla spending review.
Nelle bozze del decreto «Iva-lavoro» era stata inserita una proroga, ma
deve esser satata considerata "buonista". E' quindi eliminata dal testo
su cui il governo Letta-Napolitano-Berlusconi ha posto la fiducia.
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degli "eliminandi" si concentrano nell'Inps. Concorrono due fattori: il
progetto generale di eliminazione del sistema pensionistico (non
dichiarato, ma praticato ormai da quasi 20 anni) e la recente fusione
con l'Inpdap (l'istituto previdenziale dei dipendenti pubblici, peraltro
senza portare in cassa i Tfr degli statali) ed Enpals (spettacolo e
sport). La riorganizzazione farà quindi strage di dipendenti.
Altrettanti o quasi (3.236) dovranno andarsene dai ministeri, mentre una quota per
ora minore riguarda gli "enti pubblici non economici" (Aci, Istat, ecc) o
in quelli di ricerca. Pochissimi andranno via anche dall'Enac, l'ente
nazionale dell'aviazione civile. Così per rendere più sicuri ed
"efficienti" anche i cieli italiani.
L'unica forma di
"atterraggio morbido" prevista è una selezione del personale da
espellere in base ai requisiti previdenziali: chi raggiungerà entro la
fine dell'anno quelli previsti prima della riforma Fornero potrà
usufruire ancora delle forme di pre-pensionamento. Per gli altri,
invece, si cercherà una ricollocazione (molto problematica) verso gli
enti che hanno invece meno personale del richiesto in pianta organica.
Il
problema è che questa "mobilità" - peraltro prevista da molti anni
nell'ordinamento - non ha mai funzionato nella pratica. La ragione è
semplice: erano i dipendenti a dover chiedere il trasferimento (spesso,
infatti, il posto di lavoro si trova in una città diversa). Ora invece
sarà obbligatorio. Si può facilmente immaginare quali problemi dovrà
affrontare chi si troverà a dover "scegliere" tra cambiare città,
insieme alla famiglia o senza, oppure perdere il lavoro... Chi non
accetterà il trasferimento si vedrà corrispondere appena l'80% dello
stipendio tabellare (escluse tutte le voci aggiuntive in busta paga, che
hanno rappresentato da decenni l'unica voce "aumentabile" in sede
contrattuale): il taglio effettivo può arrivare anche al 50% dello
stipendio. Ma soltanto per due anni, trascorsi i quali o il dipendente
pubblico accetta il trasferimento, oppure va per strada.
Il
ministro della Funzione pubblica Gianpiero D'Alia ha deciso di
accelerare avvalendosi dei una "collaborazione" indispensabile: «Stiamo
lavorando con i sindacati per trovare criteri condivisi - ha spiegato al
Messaggero - ma poi bisogna decidere». Senza complici, una manovra del
genere avrebbe comunque vita difficile.
Subito dopo dovrebbe
toccare anche alle pubbliche amministrazioni territoriali (Regioni,
Province e Comuni). Qui le cose sono complicate dalla "legislazione
concorrente" e dal fatto che nessuno ha calcolato le "medie" dimensionali tra i doversi enti. Quindi non è ancora possibile vedere
in quali comuni o province supera del 40% il rapporto medio fra
dipendenti e popolazione. Ovvero la "soglia" che obbliga a mettere in azione i tagli al personale.
A questo livello, peraltro, si colloca la quantità maggiore degli "esuberi" che ogni governo sogna di realizzare.
Fonte
S'inizia a profilare anche per l'Italia il calvario greco...
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