Negli oltre cinquemila scioperi, cortei, sit-in che la governance egiziana in salsa islamista ha registrato negli ultimi cinque mesi (per tutte ricordiamo quella localistica e popolare di Port Said che aveva generato dei comitati di autogestione) si collocano anche talune manifestazioni degli uomini in nero: i poliziotti.
Categoria ad altissima capacità rivendicativa e contrattuale e diciamo pure ricattabilità. Quella che esplicano verso gli altri, istituzioni comprese. A gennaio e poi nuovamente a marzo gli agenti organizzarono varie proteste con cui richiedevano aumenti dei benefit, migliori condizioni di lavoro e armi adeguate. Esecutivo e presidenza della coppia Qandil-Mursi cercarono di temporeggiare e promettere, ma come per altri settori pubblici e privati furono evasivi. Gli uomini in nero se la legarono al dito, attuando una sorta di sciopero celato che rendeva “sindacale” quella latitanza amministrativa attivata già dall’autunno 2012. Di fatto introducevano un’assenza di vigilanza civile e di controlli verso la criminalità, dalle bande di quartiere ai piccoli malfattori di strada oppure i molestatori e stupratori, tanto per ricordare un gravissimo problema che affligge le donne egiziane.
Inimicarsi questa casta e cercare di forzare il rapporto con l’Esercito, di cui era pur sempre il capo supremo, è costato caro a Mursi che comunque appariva colloquiante e disponibile a rapportarsi a ogni figura dell’apparato statale. Ma in Egitto alcune strutture sono totem per lo stesso immaginario di una buona parte della popolazione ancorata alla tradizione ben oltre l’appartenenza politica e l’espressione di voto. Abdel Al-Sisi, che aveva rimpiazzato Hussein Tantawi pensionato da Mursi a quaranta giorni dall’assunzione dell’incarico presidenziale, è un militare assai devoto all’Islam, com’era Sadat, però difende la lobby d’appartenenza non meno della bandiera e della nazione. E lo sviluppo degli eventi con l’esplosione dei Tamarod l’ha dimostrato in pieno. Solo lo staff di Mursi e lui stesso evidentemente pensavano a una benevolenza per fede del generale. Peraltro non avevano soppesato la funzione di collante operata dal movimento dei ribelli che, al di là della veridicità sui milioni delle firme raccolte, ha riunito una trentina di gruppi e gruppuscoli d’opposizione alla Confraternita, e negli ultimi giorni della disobbedienza finanche i salafiti.
La seconda casta che ha determinato la messa all’angolo di Mursi è la magistratura, contro la quale il professore prestato alla politica aveva polemizzato con un contrasto reiterato e mai ricucito. Quei giudici si sono in gran parte formati nel sistema mubarakiano che gli garantiva interessi corporativi in cambio di contenimento e intralcio alla marcia islamica verso il potere. Erano presenti nella Commissione elettorale perorando le bocciature di candidati come Al-Shater perché ex “estremista e terrorista” cioè aderente alla Fratellanza. Oppure sciogliendo l’Assemblea del Popolo, dove il Freedom and Justice Party aveva la maggioranza dei deputati eletti regolarmente, o ancora contrastando con alcune personalità giuridiche la stesura della nuova Costituzione sino all’aperta critica verso il decreto con cui Mursi varava la Costituzione stessa. Nel conflitto di competenze quello coi magistrati è stato il più intenso e ha visto lo stesso ex presidente cercare di farsi strada a colpi rimozioni che, come nel caso del pm Abdul Maguid Mohamoud, si sono trasformate in boomerang.
Lo spirito con cui lo scontro fra le parti s’è sviluppato per mesi si
ritrova nelle azioni compiute da figure che non a caso ritornano.
L’incarico di Capo di Stato ad interim non è offerto ad Adly Mansour
solo perché presidente della Corte Costituzionale. Quest’uomo aveva
bloccato una norma che avrebbe impedito a Shafiq di correre per la
presidenza. Cosicchè l’ex ministro di Mubarak, implicato insieme ai
figli del raìs nell’accaparramento tutt’altro che trasparente di
migliaia di acri nel Delta del Nilo, rappresentava un feloul cui i
giudici permisero d’inseguire il sogno di diventare Capo di Stato. Per
non perdere la faccia e il controllo d’una situazione ora rovesciata e
diventata favorevole Mansour, Al-Sisi, Baradei dovrebbero gestire una
sfida elettorale che rappresenta comunque un’incognita. Perché il pezzo
del Paese che segue la Fratellanza rintuzza nelle piazze il torto e
l’abuso ricevuti e lo scontro riprende e s’allarga. Un Badie “evaso o
fatto evadere” dagli arresti domiciliari l’ha sottolineato sul palco
cairota del “venerdì del rifiuto” che è costato la vita ad altri
attivisti della Confraternita ma anche a vari poliziotti presi a
fucilate. Solo ieri trenta morti. Se la partita con Mursi s’è chiusa
quella con la Fratellanza, altra metà del Paese, è apertissima ma prende
i tragici contorni della guerra civile.
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