Gli scricchioli nella costruzione europea aumentano di intensità. In meno di una settimana dobbiamo registrare: a) la contrarietà di Germania, Austria, Olanda e Slovacchia al taglio dei tassi di interesse da parte della Bce; b) la reintroduzione di una sanzione micidiale per i paesi che sforano il tetto del deficit, ovvero la sospensione dei “fondi europei”; c) la possibile/probabile apertura di una procedura di infrazione nei confronti della Germania per... surplus eccessivo.
Difficile non vedere l'intreccio di azioni e reazioni che legano questi tre eventi. Sulla prima vicenda, la Germania e i suoi satelliti considerano il taglio dei tassi un “aiuto” ai paesi in difficoltà, perché così questi potranno pagare interessi più bassi sui titoli di stato emessi o in scadenza (non è una certezza, perché “i mercati” si muovono in modo meno prevedibile, ma ammettiamo anche che ciò possa avvenire).
La seconda è di ieri (si veda l'articolo qui di seguito, tratto da La Stampa di oggi) e rappresenta una mazzata per quei paesi che fanno fatica a rispettare quel maledetto 3% di rapporto tra deficit e Pil, o che proprio non possono nemmeno porsi l'obiettivo di raggiungerlo. Si parla ovviamente di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia; ma non solo. Per tutti costoro verrebbe a mancare una certa quantità di ossigeno finanziario per realizzare progetti di vario genere (dagli infrastrutturali a quelli “per la coesione sociale”, o per le aree arretrate, ecc). Mentre invece sarebbero egualmente costretti a versare la propria quota comunitaria ai fondi stessi. In più, scatterebbero altre sanzioni “progressive”, a seconda della gravità dello sforamento. In pratica, questa terapia “europea” ricorda la medicina al tempo dei “salassi”, quando ad un ammalato per cause sconosciute veniva comunque estratto del sangue. Con risultati spesso mortali, com'è ovvio.
La terza è di segno contrario e svela molto sull'autentica guerra all'interno delle “istituzioni” continentali. Come si sa, quella tedesca è l'economia nazionale che più ha guadagnato dall'introduzione della moneta unica. Per motivi contingenti (il tasso di cambio con il marco concordato allora concedeva di fatto una “svalutazione competitiva” calcolata intorno al 30-40%) e per ragioni strutturali (una moneta unica che regola i rapporti all'interno di un'area caratterizzata da forti differenze di “composizione organica”, ovvero con tassi molto differenti di “produttività” derivanti da uno sviluppo tecnologico asimmetrico, favorisce soprattutto i paesi “forti” e indebolisce le economie di quelli “periferici”; ce ne siamo accorti tutti, con l'esplodere della crisi e quindi con l'accelerazione delle differenziazioni “nazionali”).
Questi vantaggi si sono manifestati in un “surplus” annuale della bilancia commerciale tedesca intorno al 6%, dal 2007 ad oggi; ovvero da quando la crisi finanziaria si è manifestata). Non serve una laurea per capire che il surplus di Berlino implica un deficit (nel rapporto export-import) per qualcun altro. E anche per il surplus esiste un “tetto” oltre cui, secondo i trattati europei, si creano squilibri comunitari che vanno corretti.
Vi risparmiamo i termini puntuali della diatriba (che potete trovare nell'articolo de IlSole24Ore qui sotto), ma è evidente che si tratta di una comprensibile “ritorsione”, peraltro istituzionalmente fondata. Il dato rilevante, però, sul piano della prospettiva a medio termine, è quello di una accelerazione delle divisioni infraeuropee su questioni “fondamentali”. Una costruzione comunitaria concepita “a freddo”, come garanzia di costruzione di un tessuto relazionale capace di impedire l'esplodere di altre guerre sul continente europeo; ma strutturalmente impostata per favorire – con il “mercato comune senza ostacoli” - soprattutto il capitale finanziario e quello industriale “di punta”; che quindi sta demolendo quel “modello sociale europeo”, welfaristico, che aveva garantito la “coesione sociale” anche nei momenti di più aspro conflitto sociale e politico... sta creando le condizioni per il proprio collasso. Moneta unica compresa.
Qui entrano naturalmente in campo le diverse opzioni su come gestire – in modo programmato – questa “rottura” che si va configurando anche in assenza di interventi “soggettivi”. E non ci sembra possano esistere moltissime alternative, ma soltanto due (con ovvie “varianti sul tema”, al momento imprevedibili). Una esplosione “nazionalistica”, che prefigura un vero e proprio ritorno al passato dell'Europa sempre in guerra al proprio interno; una esplosione “internazionalista”, che veda una nuova unione “a caldo”, nel vivo della crisi, dei paesi con caratteristiche più simili e/o complementari. Come diciamo spesso in altra sede, un'area “euro-mediterranea”, una nord-germanica, ecc. Con monete ovviamente diverse, ma senza “ritorni” impossibili alla “nazione” in cerca di egemonia sulle altre.
Sono due alternative chiaramente segnate da interessi di classe opposti: quella “nazionalistica” è nella testa delle borghesie medio-piccole, che vengono triturate da economie di scala per loro inattingibili e quindi sognano “il bel tempo antico”; quella “internazionale” rappresenta invece gli interessi della stragrande maggioranza delle popolazioni. In ogni caso, non sarà un pranzo di gala...
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La Ue pronta ad aprire una procedura contro la Germania per il surplus corrente: mercoledì si decide
di Antonio Pollio Salimbeni
Mercoledì la Commissione europea deciderà se lanciare un'inchiesta approfondita sulla Germania, primo passo della procedura di sorveglianza europea sugli squilibri di parte corrente. Lo ha confermato il portavoce di Olli Rehn. Con il suo enorme surplus commerciale, la Germania ha superato la soglia critica oltre la quale il paese viene messo sotto osservazione. La discussione in Commissione si preannuncia difficile, date le reazioni critiche da parte tedesca.
Il responsabile degli affari economici Rehn, favorevole alla procedura, è tornato alla carica ricordando due cose: un aumento della domanda interna tedesca alleggerirebbe il rafforzamento del cambio dell'euro; più investimenti in Germania vanno combinati con l'impegno della Francia per riforme strutturali più profonde specie del mercato del lavoro e delle pensioni. Per quanto l'apertura di una inchiesta approfondita per accertare cause e rimedi possibili per superare gli squilibri macro-economici non sia in concreto nulla di trascendentale, è evidente che essendo sotto tiro la Germania la questione diventa subito rovente. D'altra parte, é in discussione il ruolo della Germania in quanto 'motore' della crescita dell'intera area monetaria e il peso sproporzionato che ricade sui paesi della 'periferia' del riaggiustamento economico.
Per convincere la Commissione europea della necessità di aprire la procedura di valutazione approfondita della questione 'surplus' tedesco quale elemento di squilibrio che danneggia l'intera Eurozona, Rehn ha trovato un argomento politico che in teoria potrebbe facilitare la decisione: la Germania non è il solo paese «le cui politiche esercitano una influenza nel resto dell'Eurozona». Il ruolo di 'agente di diffusione' di effetti economici altrove è svolto sia dalla Germania che dalla Francia. Questi due paesi hanno una responsabilità comune nei confronti dell'Eurozona alla quale non possono sfuggire.
Rehn premette che la discussione sul surplus tedesco è troppo semplificata e richiede una stretta adesione ai dati reali del problema. «I dati recenti indicano che il surplus di parte corrente ha superato il 6% del pil ogni anno dal 2007». La griglia di parametri sui quali si misura l'andamento di una economia relativamente agli squilibri macro da mettere sotto osservazione ed eventualmente da correggere sulla base d una serie di raccomandazioni , include un tetto al surplus di parte corrente del 6% e un tetto 'pavimento' minimo del 4%).
Le ragioni dell'ampio surplus tedesco sono varie: forte competitività derivante dall'integrazione europea, la creazione dell'euro (ha evitato che il tasso di cambio per la Germania riflettesse l'ampio surplus), l'organizzazione della catena di produzione all'est e al centro Europa, l'integrazione finanziaria. Oltre naturalmente alla forte specializzazione tedesca in prodotti ad alta tecnologia chiesti dal mondo intero, ai bassi consumi interni e a un risparmio elevato (dovuto all'invecchiamento della popolazione).
Secondo la Commissione circa un terzo del surplus tedesco può essere spiegato dal ritorno degli asset accumulati all'esterno prima della crisi, sia nel resto dell'Eurozona che fuori Ue. Invece di aumentare gli investimenti per migliorare la produttività tali asset finanziari «hanno nutrito i boom del credito e le bolle immobiliari» in diversi paesi«, scrive Rehn. I paesi della periferia, alla fine, hanno conosciuto la 'caduta' che poi ha significato per le banche tedesche perdite da aggiungere a quelle cumulate negli Usa. Nello stesso periodo gli investimenti in Germania «sono caduti dal 21,7% del pil nel 2000 al 17,6%, una quota significativamente più bassa che in altri paesi eurozona».
Negli ultimi due anni c'è stato un aumento della domanda interna tedesca, ciò però non significa che certe strozzature non debbano essere superate dato che quest'anno si prevede una nuova caduta degli investimenti privati. In particolare Bruxelles segnala la riduzione della tassazione sul lavoro e degli oneri sociali specialmente per i bassi salari, un aumento della concorrenza nei servizi, lo sblocco degli investimenti privati nelle reti energetiche, degli investimenti nelle reti infrastrutturali.
In ogni caso, Rehn mette in guardia da ricette miracolose: «Un aumento della domanda in Germania può non portare direttamente o immediatamente a un ampio aumento delle esportazioni dall'Europa del sud». Può però contribuire a un riequilibrio dell'economia dell'intera area facilitando anche la riduzione delle pressioni al rialzo dell'euro.
Quanto alla Francia, il suo ruolo è altrettanto importante: sono necessari interventi nel mercato del lavoro, per migliorare la competitività del sistema produttivo, vanno riforma le pensioni: Francia e Germania devono procedere in coppia, questo il messaggio di Rehn, non solo quando si tratta di costruire «assi» politico-istituzionali nel corso dei negoziati europei per impedire che il primato franco-tedesco si indebolisca su grandi progetti della costruzione europea, ma nella dimensione della politica economica di tutti i giorni.
da IlSole24Ore
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Fondi europei a rischio per chi sfora il deficit
Marco Zatterin
L’Europa rafforza le sanzioni destinate a colpire chi non rispetterà le linee guida di Bruxelles per la virtuosa manutenzione dei conti pubblici e della competitività dei sistemi economici. D’intesa col Consiglio (i governi) e la Commissione, l’Europarlamento si appresta a reintrodurre la possibilità di sospendere i fondi strutturali a chi non si atterrà alle raccomandazioni Ue. La durissima sanzione era stata soppressa dall’assemblea comunitaria in prima lettura, ma è in tornata nel testo la scorsa settimana. Inutile la resistenza di italiani, belgi, spagnoli e portoghesi, traditi anche dal fronte francese diviso. Hanno vinto i falchi in un match gravido di pericoli per Roma e le altre capitali che arrancano.
E’ un brivido in più con cui deve misurarsi l’Italia, purtroppo uno dei tanti che agitano la settimana degli esami europei che s’inizia in queste ore. La Commissione Ue procede col calendario del «semestre europeo», il coordinamento delle politiche fiscali e macroeconomiche che porta alla valutazione delle leggi di Stabilità nazionali, e dei piani di azione strutturale mirati a ridare verve al ciclo indebolito dalla recessione. Domani l’esecutivo presenta due documenti: il «Rapporto annuale sulla Crescita» e l’Analisi degli squilibri macroeconomici. Fra giovedì e venerdì sarà la volta delle opinioni e delle raccomandazioni, cioè i giudizi sulle finanziarie (nessuna è stata respinta, s’è appreso ieri) e delle ricette per accelerare l’uscita dalla crisi.
Roma è fra i sorvegliati speciali anche quest’anno, per i motivi di sempre. La Commissione intende ribadire che il Bel Paese resta caratterizzato da rilevanti disequilibri, in particolare per il debito (oltre i massimi della tabella dell’euroverifica) e la dinamica poco competitività del sistema. Criticità sono individuate sull’export, anche se la situazione migliora. La bassa produttività viene nuovamente considerata una barriera alle aspettative di crescita e alla capacità di competere a livello internazionale. La Commissione sottolineerà l’esigenza di avanza con piglio deciso sul fronte delle riforme.
Il testo sugli squilibri macroeconomici ha ottenuto ieri il via libera dei tecnici della Commissione. A proposito dell’Italia si punta il dito su malanni ben noti, particolarmente sul debito, la cui misura frena i progressi strutturali di riduzione imposti dalle regole Ue, complica la manovra di alleggerimento della pressione fiscale e schiaccia la domanda interna. Non è cambiato molto dallo scorso anno, così anche stavolta Bruxelles ritiene che sia necessario avviare «un’analisi approfondita» della nostra situazione, per esaminare i rischi connessi agli squilibri. Durerà quattro-cinque mesi. E - come successo la scorsa primavera - non ci si attende che dia luogo a punizioni speciali.
Saranno tredici i paesi soggetti all’«opinione» della Commissione Ue, in pratica tutta l’Eurozona (Germania compresa), meno le capitali sotto programma, come Atene e Madrid. Venerdì le valutazioni porteranno alle raccomandazioni, tutte cose - si intende - che dovranno avere l’approvazione del Consiglio, cioè degli stati. A fine percorso, chi avrà un disavanzo superiore al 3% sarà anzitutto punito con una procedura di deficit eccessivo. Chi non rispetterà i consigli macroeconomici, dovrà sottostare a una serie crescente di sanzioni che vanno dal deposito infruttifero a una multa dello 0,1% del pil.
L’ultima in materia è che, se il Parlamento voterà in questo senso la prossima settimana come ci si attende (c’è ancora discussione con gli Stati sui tagli complessivi al bilancio), gli stati potranno perdere una parte dei fondi strutturali, disastro vero perché la politica regionale è un sostegno chiave alle economie più in difficoltà. Nel chiudere il voto sul bilancio 2014-2020, la commissione Affari regionali dell’assemblea a dodici stelle ha reintrodotto l’art. 21 che lega il funzionamento dei finanziamenti Ue al mantenimento di «un solido governo dell’economica». Lo ha fatto sotto pressione del Consiglio, che minacciava di rinviare il progetto qualora si fosse agito altrimenti. L’urgenza di avere una contabilità funzionante ha convinto i Paesi dell’Est a sostenere l’emendamento, gradito a Consiglio e Commissione.
«Le condizionalità macroeconomiche prefigurano un regime sanzionatorio parallelo a quello del “Six pack” (le norme per il governo economico Ue) e paradossalmente più severo», denuncia Roberto Gualtieri, eurodeputato Pd. Il comma 8 attribuisce alla Commissione la facoltà di proporre la sospensione di fondi in casi specifici: se una capitale non ha fatto il possibile per correggere il deficit; se dopo due raccomandazioni sulla stessa materia non ci si è allineato; se uno stato non dimostra di voler rispettare il programma di aggiustamento definito col Consiglio.
Spiegano le fonti che il governo Letta ha cercato di riaprire la partita e riscrivere la decisione con cui l’esecutivo Monti aveva invece accettato il compromesso sulle prospettive finanziarie (il bilancio ‘14-’20) in febbraio. Non è andata bene, Roma si è trovata isolata, senza l’aiuto sperato della Francia di Hollande. I critici fanno notare che si tratta di «una condizionalità asimmetrica», poiché in proporzione pagano di più le regioni maggiormente arretrate, mentre si rischia di affossare l’idea di un rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche basato su incentivi alimentati da una nuova fiscal capacity (meccanismo di bilancio comune). Per l’Italia non buona notizia. La morsa europea si stringe, come previsto. Mentre il debito è sempre oltre il 130% del pil. E le riforme strutturali languono nella litigiosità della politica.
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