Nei mesi precedenti su contropiano avevamo scritto che nonostante l’enfasi posta sul caso Bo Xilai la nuova generazione di leader non sarebbe stata la rottamatrice degli elementi socialisti ancora presenti nell’economia, nella società e nella politica cinese*.
Per tutta una serie di ragioni che invitiamo a riprendere e rileggere con attenzione in quegli articoli e in quelli di copertura del XVIII congresso del Pcc (prima parte*, e seconda parte*) sostenevamo questa tesi e abbiamo continuato a farlo per il corso dell’anno in previsione del fondamentale appuntamento del Plenum di novembre che avrebbe dovuto porre a verifica tali supposizioni(e il riscontro positivo c’è stato).
Ad un osservatore attento i segnali erano chiari che non sarebbe stato possibile uno sfondamento dei rottamatori o liberisti a seconda di come li si voglia chiamare, e che avrebbe prevalso la mediazione tra “conservatori” (marxisti-leninisti dell’ala più ortodossa) e riformisti (presunti liberalizzatori e privatizzatori) nel Partito e nell’establishment cinese.
Brevemente, i segnali ci erano dati da:
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Vari tour nelle zone più povere del paese*
da parte del Presidente Xi Jinping con l’accento posto ogni volta sulla
necessità di eliminare le ultime sacche di povertà nelle zone meno
raggiunte dallo sviluppo economico e di aiutare le persone in
difficoltà, a pochi mesi dalla nomina a segretario generale del Pcc e
ancor prima della nomina a presidente (parliamo dei periodi tra novembre
2012 e marzo 2013, nonché di quelli successivi) .
-
Questi tour sono serviti come inneschi psicologici e politici della Campagna (in perfetto stile maoista) sulla Linea di Massa *, cioè una campagna volta a rafforzare il legame tra Partito e popolo con tanto di pagelle su buoni e cattivi* di questa campagna, sessioni
di autocritica in grande stile (perfino a livello di grandi province
come l’Hebei in cui i comitati provinciali di Partito sono stati
convocati in sessioni speciali di autocritica sull’operato dei
funzionari locali, con casi di “facce rosse” e “funzionari che sudavano
freddo” *)
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Fortissima campagna anticorruzione: con lo slogan “colpire tigri e mosche*” (cioè
funzionari corrotti ad alto così come a basso livello amministrativo).
Xi Jinping e il suo establishment hanno lanciato una campagna
anticorruzione senza precedenti che ha visto cadere molte teste ai più
alti livelli così come tra i funzionari locali. Una campagna che per
incisività e durata non si era mai vista in precedenza e nella quale è
rimasto coinvolto anche Bo Xilai. Una campagna che ha senza dubbio avuto
un riscontro positivo e che ha iniziato ad andare incontro alle istanze
di quei cinesi danneggiati dalla corruzione amministrativa a vari
livelli.
-
Il continuo accento posto sul cambiamento del modello di sviluppo verso un’economia trainata dalla domanda interna*,
che implica un innalzamento dei redditi più bassi ed un miglioramento
del welfare volto a rassicurare i cinesi sul futuro e a liberarne il
potenziale di spesa nei consumi, tenendo nel frattempo sotto controllo
l’inflazione ché altrimenti eroderebbe il potere d’acquisto reale
nonostante l’aumento nominale dei salari.
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La continuazione e l’estensione del piano di edilizia pubblica * e l’accento posto su programmi mirati per la riduzione della povertà*
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La ripresa dell’enfasi che il precedente presidente Hu Jintao aveva
posto sul tema della riforma in ambito culturale e dei media affinché
rispecchiasse i valori socialisti: nei
mesi precedenti 250.000 giornalisti cinesi sono stati rispediti a
seguire corsi di formazione di base che ponevano l’enfasi sulla “visione
marxista del giornalismo” alla fine dei quali (sono ancora in corso) si
terrà a gennaio un esame, il cui non superamento implica il ritiro della
licenza per esercitare la professione*.
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Le presunte dichiarazioni di Xi sulla fine dell’Urss* : “nessuno sarebbe stato abbastanza coraggioso da opporsi alla fine del Pcus nell’1989”
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Il “presunto”documento numero 9 che indicava nella democrazia
occidentale e nel costituzionalismo pericoli per il sistema cinese e
denunciava il continuo tentativo del nemico di inserirsi nella sfera
ideologica*
Ora è ovvio che con premesse del genere non ci si poteva aspettare altro che elementi di continuità con la linea tracciata al XVIII esimo congresso e anche in continuità con le linee di riforma avviate durante il decennio Hu-Wen della quarta generazione di leader. Ovvero non ci si poteva aspettare che i “riformatori liberisti” sfondassero rispetto alla linea di compromesso stabilita all’ultimo congresso.
Eppure nel terzo trimestre di quest’anno e all’inizio del quarto la stampa internazionale sinologica ha iniziato a strumentalizzare alcune dichiarazioni dei leader che parlavano di questo Plenum come di un appuntamento che avrebbe preso provvedimenti “senza precedenti” e “onnicomprensivi”, nel senso di suggerire che durante quest’appuntamento sarebbero state promosse delle riforme in senso liberista e privatizzatore. E è stata montata una vera e propria campagna di lobbying internazionale. Sono scese in campo la Banca Mondiale*con il suo rapporto china 2030*, la camera di commercio dell’Unione Europea*, decine di articoli su portali anche ben informati come agi china, che sostenevano che il terzo plenum si sarebbe concentrato molto sulla riforma (leggi privatizzazione) delle aziende di stato e meno su questioni che interessano molto di più ai cinesi come la riforma del sistema di residenza (hukou) e della parificazione tra welfare urbano e rurale.
Ovviamente questa previsione-speranza degli establishment liberisti mondiali è stata accompagnata da analisi anche un po’ buffe che vedevano nel ruolo crescente del “maoista” lo stesso Xi Jinping*, che a loro avviso andava in giro in lungo e in largo per la Cina predicando eguaglianza e giustizia sociale ma poi sarebbe dovuto scendere a compromesso coi liberisti sul piano economico*.
Insomma moltissime voci si sono levate da dentro e fuori la Cina per chiedere meno stato e più mercato, prendendo a modello il solito leitmotiv sulla competitività, il privato e il mercato in un momento della vita internazionale in cui la popolarità di tali elementi è ai minimi storici per effetto della crisi capitalistica. Buffo no?
Ma quali erano prima del Plenum le aspettative e le preferenze dei Cinesi sui temi che il plenum avrebbe affrontato? Quali argomenti erano ritenuti dal pubblico i più importanti e urgenti?
Nell’unico sondaggio a tutt’oggi disponibile sul tema che è stato condotto in Cina e pubblicato dal global times risulta che la stragrande maggioranza dei cinesi vuole il miglioramento del welfare e la riduzione del gap tra ricchi e poveri*.
Solo il 33% si è dichiarato a favore di riforme del sistema politico. E questa fetta è stata nuovamente delusa proprio un giorno prima del plenum, che ha messo di nuovo le mani avanti se mai ci fosse stato ancora il dubbio*.
Ma sul resto, la campagna internazionale avrebbe avuto qualche successo o il Plenum avrebbe affrontato i temi che stanno a cuore alla maggioranza dei cinesi secondo il sondaggio?
In un crescendo di aspettative, interviste a economisti liberisti dichiaratamente* antimaoisti e criticati in patria*, che hanno strumentalizzato alcune citazioni fuori contesto di Li Keqiang sul ruolo tra stato e mercato*, sfruttando il fatto che erano da mesi che, nonostante ormai dal tempo di Hu Jintao si fosse tornati alla definizione di Deng Xiaoping sul “socialismo con caratteristiche cinesi” anziché alla definizione “socialismo di mercato” più in voga all’epoca di Jiang Zemin, la formula tornata in auge non venisse accompagnata da una dichiarazione che ribadisse il ruolo dominante della proprietà pubblica e quello guida della proprietà statale nell’economia cinese, si è insinuato in molti l’idea che questo plenum potesse modificare le scelte politiche di fondo prese in precedenza.
Diaboliche speranze ovviamente e fortunatamente smentite dalla realtà, voi direte... Eppure ieri è avvenuto un fatto che mette tremendamente a disagio.
Nonostante l’attesa di notizie provenienti dal Plenum a porte chiuse durante tutto il weekend e le notizie generali sulle otto aree di intervento circolanti precedentemente* , a poche ore dalla fine del plenum non era ancora circolato niente di ufficiale.
Tuttavia il giorno precedente era apparso un pezzo sull’agenzia ufficiale Xinhua* secondo cui la riforma avrebbe previsto la possibilità di ingresso dei privati nelle aziende di Stato fino a possedere una quota pari al 15% dell’azionariato, confermando così che la pressione dei mesi precedenti per l’ingresso dei privati nel tempio sacro dei gioielli di famiglia dell’economia cinese aveva sortito i suoi effetti.
In mancanza di notizie, che verranno rilasciate gradualmente nel corso delle implementazioni delle misure nei prossimi mesi (il plenum ha stabilito solo le linee generali), il fatto che questa notizia fosse la prima rilasciata e in assenza di altre che riguardano argomenti molto più sentiti da milioni di cinesi come la riforma del sistema dell’hukou e della parificazione e interscambiabilità dei sistemi di welfare tra città e campagna, era già di per sé un pessimo segnale.
L’articolo citava dichiarazioni di Bai Yingzi, direttore della commissione di riforma delle imprese* e della commissione statale che le amministra (Sasac in inglese) ed è tutt’ora disponibile allo stesso link sul sito dell’agenzia Xinhua.
Tuttavia un articolo sul portale agi china* riportava un paragrafo in cui si menzionava la smentita di tale anticipazione.
Almeno secondo il quotidiano basato a Hong Kong, il South China Morning Post, la smentita effettivamente c’è stata, da parte di Zhang Jinting (vedere al seguente link*).
In tarda serata sono poi apparsi sul Global Times (costola del quotidiano del popolo) articoli che hanno riportato la posizione classica di mediazione del congresso precedente* (e di quelli precedenti ancora dal tempo della definizione stessa di socialismo di mercato) e ribadito le tradizionali linee di politica economica cinese, speficicando il ruolo dominante della proprietà pubblica come guida di quella statale.
Un po’ di chiarezza dunque è stata ristabilita*, con uno strascico di delusioni tra chi sperava che la riforma dell’economia cinese per i prossimi dieci anni* si traducesse alla fine in una perestroika (riforma economica) diluita in più di trent’anni dal 1978 per evitare l’instabilità postsovietica, avendo ormai rinunciato all’idea che il Pcc lanci una sostanziale glasnost (riforma politica).
Ebbene che ritentino al prossimo congresso, chissà magari saranno più fortunati.
Tutto è bene quel che finisce bene? Vedremo nei prossimi giorni, settimane e mesi come si svilupperanno le concrete misure nel corso della loro elaborazione e terremo aggiornati i nostri affezionati e amati lettori.
Tuttavia già da ora a nome di coloro invece che pongono l’accento sulla parte “buona”, “rossa”, dell’economia cinese ancora maggioritaria e fatta di aziende statali e di cooperative come elemento imprescindibile dell’analisi macroeconomica cinese e sulla natura del sistema stesso, con le loro migliori condizioni di lavoro, ritmi di lavoro meno stressanti e migliore welfare collegati, non ho timore d'affermare che, almeno per stasera, superato l’iniziale spavento, dormirò sonni più tranquilli.
Speriamo che la riforma dei media in corso e “report più accurati” mettano a riparo da futuri brutti scherzi di questo tipo.
Ps. Uno speciale ringraziamento al compagno Zhang Jinting per aver smentito l’inaccuratezza del report sulle presunte dichiarazioni di Bai Yingzi
Fonte
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