Mentre si avvicina il centesimo giorno del settimo mandato da presidente
di Robert Mugabe, due rapporti usciti a meno di una settimana di
distanza uno dall'altro, pubblicati da Amnesty International e da Human Rights Watch,
sottolineano che lo Zimbabwe ha ancora molta strada da fare in termini
di rispetto dei diritti umani e di infrastrutture idriche e sanitarie.
Anche se la situazione politica ed economica negli ultimi anni è migliorata, le
violazioni dei diritti umani, soprattutto nei confronti dei
giornalisti, degli attivisti e degli oppositori politici, non si sono
mai fermate. L'applicazione della nuova Costituzione, entrata in
vigore a maggio, che prevede la tutela dei diritti economici, sociali,
culturali, civili e politici, è ostacolata dalla corruzione, dalla
cattiva amministrazione e dalla mancanza di volontà che hanno segnato la
vita politica dello Zimbabwe sin dalla sua definitiva indipendenza dal
Regno Unito nel 1980.
Il governo di coalizione che ha guidato il Paese tra il 2009 e il 2013,
composto dall'Unione Nazionale Africana Zimbabwe - Fronte Patriottico
(Zanu-Pf) di Mugabe e dal Movimento per il Cambiamento Democratico (Mdc)
del suo avversario Morgan Tsvangirai, ha consentito al Paese di non
sprofondare nel vortice della violenza seguito alle contestate elezioni
del 2008. Ma non è riuscito ad attuare le riforme istituzionali necessarie a garantire trasparenza e democrazia né a prendere le distanze dagli errori del passato e a migliorare le condizioni per il 70 per cento della popolazione che vive sotto la soglia di povertà.
I dati di Transparency International dimostrano che negli ultimi anni la corruzione è persino cresciuta
e il Paese è passato dalla 24esima posizione tra gli Stati più corrotti
al mondo nel 2008 alla tredicesima nel 2012. A ottobre, inoltre, la
Zimbabwe's Revenue Authority (Zimra) ha stimato che lo scorso anno il
paese ha perso due miliardi di dollari a causa della corruzione.
Secondo Amnesty International, il nuovo governo deve stabilire un'agenda
dei diritti umani da seguire tra il 2013 e il 2018, per garantire alla
popolazione la libertà di espressione, di associazione e di riunione,
per cancellare il clima di impunità che aleggia nel paese e per rendere
giustizia alle vittime.
Nel suo rapporto "Human Rights Agenda for the New Government - 2013 to
2018", l'organizzazione denuncia che ancora oggi gli attivisti e gli
oppositori politici vivono in un clima di sospetto e di repressione.
Molti di loro sono arrestati arbitrariamente e detenuti per periodi più o
meno prolungati senza accuse e contro la legge, come è successo a Okay Machisa, direttore della Zimbabwe Human Rights Association, che a gennaio ha passato due settimane in carcere. Le forze dell'ordine, inoltre, continuano a usare la forza per reprimere ogni voce critica: il 19 settembre, per esempio, la polizia ha attaccato un corteo pacifico organizzato dal movimento Women of Zimbabwe Arise, diretto al Parlamento per presentare una petizione.
Gli abitanti dello Zimbabwe, d'altra parte, hanno ancora molto da conquistare anche dal punto di vista delle infrastrutture. Milioni di persone solo nella capitale, infatti, non hanno accesso all'acqua potabile né ai servizi sanitari,
come sottolinea il rapporto di Human Rights Watch "Trubled Water". Le
tubature di Harare sono vecchie e malandate e non sono in grado di
soddisfare le necessità di una popolazione che in due decenni è passata
da 600mila a quattro milioni di persone. Molte abitazioni, quindi, sono
prive di acqua corrente e le famiglie fanno affidamento sui pozzi, molti
dei quali sono contaminati. I liquami spesso fuoriescono dai tubi rotti
e si riversano nelle strade, dove giocano i bambini. La mancanza di
latrine, poi, aumenta i rischi per la salute, soprattutto delle donne.
Queste condizioni, avverte Hrw, potrebbero favorire la diffusione di
malattie nei sobborghi densamente popolati della città, a cinque anni dall'epidemia di colera che fece quattromila morti nel Paese.
L'89enne Mugabe, al potere da 33 anni, reinsediatosi il 22 agosto
dopo aver vinto le elezioni con oltre il 60 per cento dei voti, non
sembra intenzionato a dare una svolta alle politiche disastrose che
hanno portato il Paese a classificarsi al decimo posto nell'indice degli
Stati falliti 2013, redatto dal centro di ricerca Fund for Peace in
collaborazione con Foreign Policy. La pena di morte continua a essere
consentita nel Paese e il nuovo esecutivo non ha previsto alcuna misura a
favore delle 700mila persone che nel 2005 furono costrette ad
abbandonare le loro case nell'ambito della cosiddetta Operazione Murambatsvina,
lanciata dal governo per demolire le baracche illegali nelle aree
urbane. Trascorsi quasi cento giorni dal suo settimo insediamento,
dunque, nessun segnale fa sperare che il prossimo mandato di Mugabe sarà
diverso dai precedenti.
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