Trascorsi un paio di giorni con
osservazioni e critiche non precisamente vibranti, forse perché, dopo
l’accordo sulla previdenza complementare in primavera e il rapporto
Moreau di giugno, si temevano misure più dure, il tono cambia e si
annunciano proteste in tutto il paese.
Già lo scorso 10 settembre in 200 città si sono svolti manifestazioni e scioperi indetti da CGT, FSU e FO.
Si è trattato di una mobilitazione estesa su tutto il territorio
nazionale da parte di chi sa di essere comunque il reale bersaglio delle
politiche governative sul welfare. Una mobilitazione considerata
normale e, per così dire, dovuta da chi vive in un paese in cui sono
sconosciute le italiche anomalie, come l’assenza, a oltre venti mesi
dalla legge 214 del 22 dicembre 2011, di una mobilitazione forte ed
estesa contro norme che hanno messo sulla strada centinaia di migliaia
di persone, allontanando di svariati anni la data di pensionamento.
Nell’attesa dei futuri sviluppi del
confronto sulle modifiche pensionistiche transalpine, e sapendo che in
Italia il governo (qualsiasi esso sia nel medio periodo) dovrà ritornare
sulla legge 214/2011 di Monti e Fornero, qualche confronto tra
l’ipotesi francese di riforma e la realtà legislativa italiana ci sembra
opportuno per attrezzarci rispetto al futuro welfare che ci si vuol
somministrare.
La modestia dell’ipotesi del governo
francese, che circoscrive questo intervento al settore privato,
escludendone tanto i dipendenti pubblici quanto gli iscritti ad alcune
decine di regimi speciali, non deve indurre a sottovalutarne alcuni
aspetti rilevanti nel quadro più generale della politica economica
perseguita per il controllo della spesa pubblica.
Si tratta di aspetti che nel loro insieme caratterizzano un intervento i cui costi ricadono principalmente sui lavoratori, sia quelli attivi sia i pensionati,
senza misure di riduzione del danno per le pensioni di più modesta
entità, prefigurando ulteriori modifiche alle prestazioni integrative
dei redditi da lavoro; aspetti che costituiscono di fatto le ragioni
delle mobilitazioni già realizzate dalla maggioranza delle
organizzazioni sindacali e dei partiti della sinistra.
Il risparmio più significativo, infatti,
discende dallo slittamento di sei mesi, dal 1° aprile al 1° ottobre,
della rivalutazione di tutte le pensioni rispetto all’inflazione attesa,
per un importo di 2,7 miliardi di euro dal 2014 al 2020: a livello
individuale, considerato che l’importo medio della pensione diretta è di
1.270 euro mensili, la perdita per ciascun pensionato è ipotizzabile in 150 euro all’anno.
Si aggiunga che il ritardo di sei mesi della rivalutazione verrà
applicato anche all’Aspa, ex minimo di vecchiaia, una pensione
assistenziale aumentata del 25% dal governo Sarkozy e giunta quest’anno a
800 euro mensili, equivalente grosso modo ai nostri assegni sociali il
cui importo è però più modesto (circa 500 euro).
Per inciso, val la pena di osservare che
in Italia la rivalutazione delle pensioni avveniva invece l’anno
successivo da tempo immemorabile, mentre il bonus familiare
semplicemente non c’è. Si deve poi aggiungere che la legge 214/2011 ha
escluso per gli anni 2012 e 2013 la rivalutazione delle pensioni
superiori di tre volte il trattamento minimo, per cui quest’anno
l’aumento del 3% è stato riconosciuto solo ai pensionati con trattamenti
fino a 1.443 euro mensili, il che perlomeno ha consentito
l’indicizzazione piena tanto degli assegni sociali quanto delle
prestazioni di invalidità civile.
Tornando alla riforma francese,
dall’ipotizzato aumento della contribuzione dello 0,3% annuo sia per i
lavoratori che per le aziende deriverà, sempre dal 2014 al 2020, un
incremento delle entrate di 2,2 miliardi di euro da ciascuno dei due
soggetti: va però rilevato che il governo, come contropartita alle
imprese, ha annunciato l’intenzione di ridurre progressivamente la
contribuzione a loro carico per assegni familiari e malattia,
trasferendola gradualmente a carico della fiscalità generale: c’est à dire, una
non trascurabile partita da 34 miliardi di euro su base annua i cui
termini saranno chiariti, a detta del primo ministro Ayrault, già entro
fine mese, con ogni probabilità in occasione della presentazione della
finanziaria 2014: visti i benefici già ricevuti dalle imprese per circa
20 miliardi, in virtù di provvedimenti governativi assunti nel corso
del 2012 a sostegno della competitività, l’unico dubbio consentito è
sull’entità di quest’ulteriore attacco al salario indiretto su cui andrà
misurata la deriva liberista del governo francese. Questione di
assoluto rilievo rispetto al processo di ridimensionamento dei costi
della socializzazione della forza lavoro, richiesta con crescente
insistenza dalla Medef – la Confindustria francese – a un governo che ne
condivide la ratio di fondo.
Altri risparmi, previsti in 1,2 miliardi di euro, deriveranno dall’assoggettamento all’imposizione fiscale del bonus del 10% riconosciuto ai pensionati genitori di tre o più figli, che riguarderà oltre tre milioni di pensioni. Per questo bonus, attualmente
goduto principalmente da maschi, si prevedono interventi finalizzati a
riequilibrare tale situazione a favore delle donne a partire dal 2020.
Altra misura prevista è l’aumento dai
41 anni e 9 mesi nel 2020 dell’anzianità contributiva, richiesta per
ottenere una pensione a tasso di sostituzione invariato, ai 43 anni nel
2035 mediante l’aumento di un trimestre ogni tre anni. Non si tocca
quindi immediatamente l’età pensionabile, costringendo però in un futuro
prossimo a un supplemento di periodi di attività lavorativa, con
relativa ulteriore contribuzione pretesa per neutralizzare l’aumento
della aspettativa di vita, ai fine di conseguire una pensione a tasso
pieno.
In Italia, dopo la legge 214/2011, da
quest’anno sono necessari per gli uomini 42 anni e 5 mesi di
contribuzione e 62 anni di età per andare in pensione senza riduzione
del tasso di sostituzione, mentre per le donne, a pari anni di età, sono
richiesti 41 anni e 5 mesi di contributi accreditati.
Dal raffronto tra le due disposizioni
normative, la misura prevista in Francia non risulta quindi
particolarmente significativa tanto in valori assoluti quanto,
soprattutto, in ordine ai tempi di realizzazione, in quanto subordinata
agli sviluppi che potrebbero derivare dall’attesa ripresa economica.
Oltralpe in effetti una qualche
credibilità di tale ipotesi può anche ritenersi plausibile, confortata
dai dati relativi all’andamento del Pil e alla recente decelerazione
della crescita dei disoccupati.
Peraltro, su questo ottimismo circa
l’uscita dalla crisi, poggia il complesso della intera riforma che punta
complessivamente a recuperare all’incirca 7 miliardi di euro entro il
2020, ritenendo accettabile che alla fine di quell’anno residui comunque
un debito pensionistico di circa 10 miliardi. Debito al lordo dei
costi derivanti da una serie di disposizioni declinate, sul versante
“buono” della riforma, a favore dei pensionati e ipotizzate in primo
luogo per indennizzare lavoratori e lavoratrici esposti a attività
usuranti, con costi posti a carico in particolare delle imprese
utilizzatrici, in secondo luogo per ridurre la penalizzazione di chi ha
periodi di lavoro a tempo parziale, spesso significativamente
prolungati soprattutto per le donne.
Ulteriori benefici sono infine previsti,
riconoscendo una copertura figurativa che li valorizzi ai fini
pensionistici, per i periodi di formazione dei giovani lavoratori.
Va puntualizzato, però, che le
disposizioni sul versante del miglioramento del livello delle
prestazioni non ha la stessa precisione e nitidezza di quelle che
prevedono il recupero di risorse per la riduzione della spesa
pensionistica prevista nel settore privato: le prime sembrano denotarsi
come variabili assai dipendenti dalla forza che sapranno mettere in
campo lavoratrici e lavoratori francesi nelle prossime settimane.
Non sarebbe male se, ove il nostro
governo riaprisse a breve l’ineludibile questione previdenziale, si
riuscisse a individuare un filo conduttore comune sul terreno di
mobilitazione di lavoratori e lavoratrici di entrambi i paesi per
arginare l’attacco al loro salario indiretto e differito che sottende le
politiche governative dell’intero continente.
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