di Mario Lombardo
Le crescenti
tensioni tra Cina e Giappone nel quadro di una contesa territoriale al
largo dei due paesi dell’Estremo Oriente hanno fatto registrare una
nuova escalation in questi giorni a seguito di una decisione presa in
maniera relativamente inaspettata dal regime di Pechino e duramente
condannata sia da Tokyo che dagli Stati Uniti. Nella giornata di sabato,
il ministero della Difesa cinese ha annunciato la creazione di una
“zona di identificazione per la difesa aerea” (ADIZ) che copre il Mar
Cinese Orientale e si estende fino a circa 130 km dalle coste
nipponiche, includendo le isole Diaoyu (Senkaku in giapponese),
controllate da Tokyo e al centro appunto di un’accesa disputa con
Pechino.
La “zona di identificazione” cinese si sovrappone in
parte a quella già fissata dal Giappone, così che quest’ultima questione
promette di creare ulteriori contrasti tra la seconda e la terza
economia del pianeta. Tanto più che la Cina ha minacciato di prendere
iniziative militari se i velivoli stranieri che entreranno in quest’area
non dovessero rispettare i termini della sua implementazione stabiliti
da Pechino.
Una “zona di identificazione per la difesa aerea”, come ha spiegato l’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua,
è un’area situata “al di fuori dello spazio aereo di un determinato
paese” e che consente a quest’ultimo di avere tempo a sufficienza per
identificare possibili minacce e prendere le misure necessarie a
prevenirle. Un aereo che entra in questa zona è tenuto a fornire
informazioni in merito alla sua rotta, destinazione o qualsiasi altro
dettaglio richiesto dalle autorità del paese in questione. I primi a
stabilire una “zona di identificazione” furono gli Stati Uniti negli
anni Cinquanta del secolo scorso e a tutt’oggi una ventina di paesi
hanno fissato tali spazi.
La mossa di Pechino ha prevedibilmente
suscitato le dure reazioni giapponesi, scatenando un susseguirsi di
critiche e minacce di ritorsioni che hanno immediatamente coinvolto
anche l’amministrazione Obama. Il ministero degli Esteri di Tokyo ha
dapprima definito la decisione cinese “deplorevole e totalmente
inaccettabile, visto che [la zona di difesa] include territorio facente
parte dello spazio aereo giapponese al di sopra delle isole Senkaku”.
Il
governo conservatore del premier Shinzo Abe ha poi espresso una
protesta formale a Pechino tramite i canali diplomatici ufficiali. La
questione è stata inoltre ripresa dallo stesso primo ministro durante un
intervento in Parlamento lunedì, durante il quale ha sollecitato i
cinesi a tornare sui propri passi per evitare “pericolosi e imprevisti
incidenti” tra gli aerei di entrambi i paesi che conducono regolari
ricognizioni nell’aera contesa.
In precedenza, lo stesso governo
cinese aveva manifestato il proprio malcontento per le prese di
posizione di Tokyo e degli stessi Stati Uniti, invitati a non
interferire nelle dispute territoriali nel Mar Cinese Orientale.
Da
Washington, infatti, le critiche nei confronti di Pechino erano giunte
ancora prima delle dichiarazioni ufficiali di Abe. Il segretario di
Stato americano, John Kerry, aveva denunciato da Ginevra la creazione
della “zona di difesa aerea”, definita come una “azione unilaterale che
costituisce un tentativo di modificare lo status quo nel Mar Cinese
Orientale”, aumentando “le tensioni nella regione e il rischio di
incidenti”.
A conferma ulteriore del coinvolgimento americano
nelle rivalità che mettono di fronte la Cina agli alleati di Washington
in Estremo Oriente, un altro esponente di spicco dell’amministrazione
democratica si è aggiunto al coro delle proteste contro Pechino. Il
numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, ha così ricordato che i termini
dell’alleanza tra USA e Giappone comprendono anche le isole
Senkaku/Diaoyu, lasciando intendere che, in caso di guerra con la Cina,
gli Stati Uniti si schiererebbero automaticamente al fianco di Tokyo.
Una
fonte anonima del governo USA ha poi rivelato alla stampa che nei
prossimi giorni ci sarà con ogni probabilità una non meglio specificata
dimostrazione da parte dei militari americani, volta a chiarire che
questi ultimi continueranno ad operare nell’area in questione senza
accettare interferenze da parte cinese.
Per
sottolineare la delicatezza della situazione, nella giornata di sabato
il governo nipponico ha fatto infine alzare in volo i propri aerei da
guerra nel Mar Cinese Orientale dopo che due velivoli militari di
Pechino erano entrati nella “zona di identificazione per la difesa
aerea” del Giappone.
Il confronto in corso è solo l’ultimo
episodio di una lunga serie di provocazioni e dispute attorno alle isole
Senkaku/Diaoyu che, per il momento, hanno provocato solo sporadici
scontri tra i due paesi vicini, i quali hanno però visto peggiorare
sensibilmente le proprie relazioni diplomatiche e commerciali.
Nel
corso degli ultimi mesi, la Cina ha innalzato il livello della retorica
attorno alla contesa territoriale con il Giappone, inviando
frequentemente navi e aerei da guerra a pattugliare l’area. In uno dei
momenti più delicati dello scontro, la Marina cinese era giunta
addirittura a puntare le armi delle proprie navi militari su obiettivi
giapponesi prima di fare opportunamente marcia indietro.
Se la
presunta maggiore aggressività cinese in Estremo Oriente, così come il
sensibile incremento delle spese militari da parte di Pechino, viene
definita dai media occidentali e nipponici come la conseguenza
dell’espansione economica e dell’aumentata influenza di questo paese
nella regione, una simile evoluzione ha in realtà molto di più a che
fare con la necessità di rispondere alla crescente invadenza
statunitense in questa parte del globo.
Con l’annunciata “svolta”
asiatica da parte dell’amministrazione Obama, gli USA hanno infatti
inaugurato da qualche anno una politica più aggressiva in funzione
anti-cinese, incitando i propri alleati nella regione (Giappone,
Filippine, Corea del Sud) ad intraprendere a loro volta un percorso
fatto di militarizzazione e di provocazioni contro la Cina,
concretizzatosi in un clima esplosivo anche a causa del riemergere di
innumerevoli dispute territoriali mai del tutto sopite.
In questo
senso, un ruolo importante dovrebbe svolgerlo proprio il Giappone, dove
il premier Abe sta cercando di modificare la costituzione pacifista del
paese per consentire una maggiore intraprendenza delle proprie forze
armate.
Forse non a caso, l’annuncio di Pechino del fine
settimana in relazione alla “zona di identificazione per la difesa
aerea” è giunto poco dopo la fine di un’esercitazione militare
giapponese su vasta scala nei pressi dell’isola di Okinawa e che,
secondo gli analisti, avrebbe simulato un attacco contro le forze navali
cinesi.
La
“svolta” asiatica dell’amministrazione Obama, inaugurata per garantire
agli USA una ancora maggiore presenza militare in un’area cruciale del
globo, così da far fronte al declino della propria economia, rischia
dunque di trasformarsi in un boomerang, facendo riesplodere vecchi
conflitti che minacciano di sfociare in una guerra dalle conseguenze
potenzialmente devastanti per tutti gli attori coinvolti.
Il
rischio che le provocazioni si trasformino in uno scontro vero e
proprio, infine, non riguarda soltanto la Cina da una parte e gli
alleati di Washington dall’altra, ma anche esclusivamente questi ultimi.
Proprio nel fine settimana è apparso infatti un articolo allarmato sul New York Times
che ha ricordato come i governi di Corea del Sud e Giappone siano ai
ferri corti attorno ad una polemica che risale al periodo coloniale
nipponico nella penisola di Corea.
La disputa continua ad
ostacolare il raggiungimento di un accordo - voluto dagli USA - che
dovrebbe sancire una partnership militare e in materia di intelligence
tra i due pilastri della strategia americana in Asia orientale. Ad
impedire l’esito voluto da Washington sono però proprio i timori
suscitati a Seoul dal ritorno a politiche all’insegna del militarismo da
parte del governo giapponese, a loro volta messe in atto con il pieno
sostegno degli Stati Uniti.
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