All'ottavo anno di crisi – ricordiamo che l'inizio ufficiale è databile all'agosto 2007, con il botto dei mutui subprime Usa – bisognerebbe cominciare a dirsi che da questa situazione nessuno (tra i grandi “esperti” neoliberisti) sa più come uscire.
Arriva a proposito l'ennesimo Outlook del Fondo Monetario Internazionale che rivede al ribasso, come al solito, le previsioni di crescita globali per l'anno in corso e il successivo (non si azzardano più a guardare su tempi superiori). Revisione seria per l'intero pianeta (solo il 3,5% per il 2015, uno 0,3 meno delle precedenti stime) e quindi drastica per l'intera area europea, che già oscillava su percentuali da prefisso telefonico. Appena un +0,4% per l'Italia (da 0,8, un dimezzamento netto), e altrettanto per le altre economie continentali (il +1,2% attribuito all'intera area euro sembra addirittura ottimistico, visto che solo la Spagna raggiungerà forse il +2%). Naturalmente accompagnata da rischi crescenti di deflazione (già conclamata nel caso italiano), e quindi di spirale depressiva continua.
La cosa interessante è che queste tristi previsioni danno per scontata la decisione della Bce di dare il via, dopodomani, all'acquisto di titoli di stato dei paesi europei in difficoltà e quindi a una sostanziale svalutazione della moneta unica (i primi effetti si sono visti con la dinamica esplosiva del franco svizzero, ora sganciato dall'euro). Altrimenti neanche quei numeretti lì potrebbero essere raggiunti. Ed anche il crollo verticale del prezzo del petrolio non servita a nulla. Lo spiega lo stesso capo-economista del Fmi, Olivier Blanchard: «Nuovi fattori a sostegno della crescita, come il calo dei prezzi del petrolio, ma anche il deprezzamento dell'euro e dello yen, sono più che compensati dal persistere di forze negative, compresa l'eredità della crisi e la crescita potenziale più bassa in diversi Paesi».
Ma quali fattori hanno impedito che le precedenti previsioni fossero rispettate? Il Fmi – come tutti gli altri istituti sovranazionali – si aspettava un aumento degli investimenti grazie alle politiche monetarie espansive (Usa e Giappone, fin qui, ora anche la Bce) e alle “riforme strutturali” in una lunga serie di paesi (soprattutto europei, ma anche gli Stati Uniti non scherzano, quanto a riduzione generalizzata del salario medio). Ma gli “investitori”, ovvero gli imprenditori o capitalisti che dir si voglia, sono rimasti alla finestra.
Perché? Non vedono buone occasioni di investimento nell'economia reale globale, che continua a restare debole e deflazionata; con i paesi esportatori di petrolio che necessariamente dovranno ridurre le loro importazioni (che corrispondono poi a buona parte delle esportazioni “nostre”) e gli altri “emergenti” impegnati a barcamenarsi con problemi similari. La Cina, per esempio, pur continuando a crescere a ritmi lunari per gli altri concorrenti (+7%), sta in questo momento preoccupandosi di consolidare il proprio sistema finanziario – decisamente stressato da anni di frenesia senza limiti – e quindi di fatto non spinge granché nello “stimolare” la crescita.
Il prezzo del petrolio e le sanzioni porteranno certamente la Russia a perdere punti considerevoli di Pil (-3% secondo il Fmi, addirittura -4,8 secondo la Bers), trascinando al ribasso anche la sua area di influenza (Kazakistan, Bielorussia, ecc). Il Giappone dell'Abenomics, dopo un anno di lieve ripresa in seguito a iniezioni di liquidità di dimensioni folli, è già ricaduto in “recessione tecnica” (due trimestri negativi consecutivi). L'unica voce positiva tra i paesi occidentali viene dagli Stati Uniti (ci si attende un +3,6%), grazie a una ripresa della domanda interna e all'espansione della produzione di shale oil (petrolio da fratturazione geologica); ovvero da un settore messo fortemente a rischio dal crollo del prezzo del greggio. Probabile, dunque, una prossima revisione al ribasso anche per Washington.
Ma è sulle “cause” che il Fmi rifiuta di interrogarsi. Lo “sciopero degli investimenti” messo in atto dagli imprenditori contraddice la principale argomentazione neoliberista: “lasciate fare al mercato, tenete basse le tasse per il grande capitale, e avremo crescita per tutti”. Mai come oggi i grandi patrimoni godono delle migliori condizioni ipotizzabili. Oxfam, l'altro ieri, ha calcolato che nel 2016 – domani mattina, in pratica – l'1% più ricco del pianeta avrà a disposizione la stessa ricchezza in mano al restante 99%. Non è più uno slogan da “occupy qui e là”; è realtà empirica. Ma proprio questa divaricazione inimmaginabile dell'indice di Gini (quello che misura la distribuzione della ricchezza) sembra impedire qualsiasi ulteriore crescita economica.
Non è un problema di cattiva e/o ingiusta distribuzione patrimoniale (anche se è ovviamente la più ingiusta che si possa immaginare), ma di limiti oggettivi alla “valorizzazione del capitale”; o meglio dei singoli capitali. Che infatti girano vorticosamente da una borsa all'altra, dai “prodotti derivati” ai titoli di stato, dai titoli azionari ai cds e viceversa... ossia nella pura finanza speculativa, senza quasi mai tornare sulla terra delle attività reali.
E ci sembra evidente che quel limite non è rappresentato dalla “resistenza della forza lavoro” globale, ma dal capitale stesso e dal suo modo di funzionare.
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