Il presidente algerino ‘Abd al-Aziz Boutlefika ha annunciato mercoledì un piano di emergenza per porre fine agli scontri etnici avvenuti martedì nella città di Ghardaia in cui sono morte 22 persone (dati della Prefettura). In una nota ufficiale, la
presidenza ha spiegato che il progetto si articola su tre punti che
riguardano la sicurezza, la giustizia e lo sviluppo della regione.
Ad implementare le disposizioni della presidenza sarà il comandante
militare della regione, il Generale Sherif ‘Abd ar-Rezak a cui
Bouteflika ha chiesto di “supervisionare le azioni dei servizi di
sicurezza e delle autorità locali per ristabilire l’ordine”. Il
presidente ha inoltre ordinato al procuratore dell’area di Ghardaia di
arrestare tutti “i criminali con diligenza e severità”.
I sanguinosi fatti di martedì, scoppiati nella povera regione
desertica di Ghardaia (600 km a sud di Algeri), sono solo l’ultimo
episodio violento di una area dove regna costante negli ultimi anni la
tensione tra arabi e berberi. Tensione che, sporadicamente, ha dato vita
a violenze etniche. Oltre all’elevato numero di vittime, martedì si
sono registrati anche atti di vandalismo contro negozi, macchine e
edifici pubblici nelle città di Guerrara, Ghardaia e Berianne.
Secondo fonti sanitarie locali, la maggior parte delle vittime è
stata uccisa con colpi di arma da fuoco a Guerrera (120 km a nord ovest
di Ghardaia). Notizia confermata dal quotidiano algerino al-Watan che ha
parlato di “orde a volto coperto su grandi moto che hanno setacciato i
quartieri di Guerrara seminando terrore fra la popolazione”.
La risposta delle autorità algerine è stata affidata al ministro
degli interni che ha indetto una riunione di sicurezza straordinaria per
ristabilire l’ordine nella regione. Tra i presenti al vertice vi erano
anche il primo ministro ‘Abed Malek Sellal, alcuni ufficiali della
difesa e il capo di stato maggiore Ahmed Gaid Salah.
La zona maggiormente investita dagli scontri etnici è stata Ghardaia, sito patrimonio dell’Unesco. Oltre
ad avere una lingua diversa rispetto alla maggioranza degli algerini, i
membri della comunità berbera del posto (i mozabiti) appartengono ad
una scuola religiosa islamica diversa. I berberi mozabiti
seguono infatti la fede ibadita, una forma di Islam che precede la
divisione tra sunniti e sciiti. Gli arabi Chaamba sono invece sunniti.
Ma la differenza linguistica e religiosa è solo un pretesto:
gli scontri tra i gruppi rivali derivano da una lotta per accaparrarsi
le poche risorse disponibili nel sud povero del Paese. Hanno
cause economiche e sociali (lotta per un posto di lavoro, per terra e
casa) piuttosto che culturali e religiose. In un articolo su al-Watan,
il professore Rosto el-Jazairia, berbero mozabita, ha denunciato la
marginalizzazione della sua comunità a causa delle politiche settarie
delle autorità algerine. Al-Jazairiyya ha parlato di “un piano per
asfissiare una intera popolazione [berbera]” e “di tentativo ben
strutturato per isolarla moralmente e politicamente”. Algeri, secondo il
professore, “sta cercando di dettare con minacce e terrore i termini
della sottomissione [della comunità mozabita]”.
Del gap tra berberi e arabi è consapevole anche Bouteflika il
cui programma a tre punti annunciato mercoledì include anche uno
sviluppo economico e sociale dell’area. Una piano che, però per
dimensioni e risorse investite in questo ambito, non ha soddisfatto
tutti. Il quotidiano La Tribune ha criticato le disposizioni di
Algeri osservando come ogni volta che c’è una riacutizzazione del
conflitto nella zona, il governo annuncia solo misure sicuritarie senza
trattare le cause che sono all’origine delle tensioni. Il fallimento –
sostiene il quotidiano – riflette una più ampia crisi che si vive in
Algeria dove “la specificità di una regione e dei suoi valori
ancestrali” tendono ad essere ignorate dalle autorità. I berberi costituiscono il 30% della popolazione algerina e sono stati a lungo marginalizzati dalla maggioranza araba.
Il clima tra i due gruppi si è fatto teso dopo che un cimitero mozabita è stata profanato nel dicembre 2013.
Dall’ottobre dello scorso anno una dozzina di persone sono rimaste
uccise negli scontri tra arabi e berberi dell’area. Centinaia sono stati
i feriti.
Più o meno nelle stesse ore in cui martedì avvenivano gli scontri sanguinosi nella regione di Ghardaia, il
ministero della difesa algerina annunciava con orgoglio che dall’inizio
del 2015 102 jihadisti sono stati uccisi, catturati o si sono pentiti.
Nella nota, riportata dall’agenzia di stampa nazionale Aps, si fa
riferimento anche alla “grande quantità di armi e munizioni – tra cui
armi automatiche, granate a razzo e quasi 1.300 ordigni esplosivi –
sequestrate dalle forze di sicurezza tra gennaio e giugno”.
Un problema, quello dell’Islam politico radicale, che è ancora una
ferita aperta nel Paese. Gruppi jihadisti hanno insanguinato l’Algeria
negli anni ’90 e, sebbene la violenza di stampo fondamentalista sia
diminuita sensibilmente, cellule terroristiche sono ancora attive nella
parte centrale e orientale dello stato arabo dove sferrano di tanto in
tanto attacchi alle forze di sicurezza.
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