Pochi giorni fa la Regione Friuli
Venezia Giulia ha varato una legge che garantisce un reddito minimo alle
famiglie che vivono sotto la soglia di povertà. Questo passo mostra
come il problema del reddito sia ormai progressivamente assunto
dal sistema politico che ne fa una forma di controllo di una povertà
sempre più diffusa. Questo intervento istituzionale investe e
sempre più investirà il significato politico tanto del reddito quanto
della povertà. Che cosa significa rivendicare il reddito nel momento in
cui esso diviene una delle risposte istituzionali alla crisi? Che cosa significa assumere la povertà come categoria universale attorno alla quale organizzare la rivendicazione di un reddito?
La domanda è tanto più urgente visto che la manifestazione di Libera
contro la povertà del prossimo 17 ottobre sarà assunta dalla nascente
coalizione sociale e non è indifferente ad alcuni settori di movimento.
Con la sua misura la giunta friulana,
presieduta dall’impagabile Signora Serracchiani, sembra aver tenuto in
scarsa considerazione le recenti dichiarazioni del suo caporeparto
Matteo Renzi, che solo qualche settimana fa ha definito il reddito di
cittadinanza una misura «incostituzionale» e «assistenzialista». Demolition Man,
però, ha anche chiarito che il governo sta lavorando per prendere
misure concrete contro la povertà e che queste misure sono previste per
il prossimo anno (senza grande urgenza, quindi, e nella speranza che le
«leggi naturali» del mercato e quelle che governano la vita riducano da
sé l’entità del problema). Alla luce di questa puntualizzazione, la legge friulana non è poi così in controtendenza rispetto alla linea del grande capo: si tratta infatti di un contributo pro-tempore
(al massimo di due anni consecutivi) per contrastare la miseria e
favorire l’inserimento lavorativo di chi attualmente è fuori dal mercato
del lavoro. 550€ mensili per non morir di fame. Un reddito della
miseria, insomma.
Parlare di reddito della miseria non significa necessariamente sputare addosso al reddito garantito.
Per chi conosce la miseria, infatti, 550€ al mese fanno la differenza
tra 550€ e poco più di niente, e i numeri delle persone coinvolte in
Friuli sono consistenti (si parla di 10mila persone). La misura potrebbe
però indicare una direzione politica generale, dato che attorno alla
parola magica del reddito si gioca una partita tutt’altro che
irrilevante sia nel processo di ridefinizione della legislazione sul
lavoro e del welfare sia per l’iniziativa politica dei movimenti.
Se la povertà diviene la condizione necessaria per accedere al reddito, dobbiamo chiederci: che cosa intendiamo quando parliamo di povertà?
La risposta deve misurarsi con gli effetti di lungo periodo della
crisi, che rendono sempre più difficile stabilire un confine netto tra
chi lavora – e dunque almeno in linea di principio dovrebbe essere in
grado di garantire la propria sussistenza – e chi non lavora e perciò
non può farlo. I licenziamenti e la cassa integrazione a esaurimento, ma
anche le riforme che hanno tolto a un’intera generazione sulla soglia
dell’età pensionabile persino la possibilità di scegliere tra la
precarietà e una pensione da fame hanno messo in scacco la vita di decine di migliaia di persone, ormai troppo in là con gli anni per rientrare nella favolosa categoria degli occupabili.
Per loro, il reddito garantito offre sì una possibilità di scelta, ma
tra alternative ancora più ristrette: la miseria (comunque, a scadenza) e
una miseria ancora maggiore. Oltretutto, non si tratta di una scelta
senza ulteriori prezzi. Il dispotismo neoliberale tratta la povertà come il fallimento di un percorso auto-imprenditoriale,
erogando di conseguenza il reddito minimo garantito solo in cambio di
una piena disponibilità al lavoro. Ciò significa che bisognerà accettare
qualunque proposta passi per i centri per l’impiego, oppure prestare
servizi di «volontariato», con l’effetto paradossale di far diventare il
reddito l’anticamera del lavoro gratuito, quando non arriva a
coincidere con un salario a sua volta misero, elargito quasi fosse
carità. Contrariamente a ciò che la legge friulana per il reddito minimo
suppone, questa quota di miseria non può essere più riassorbita
attraverso un’integrazione nel mercato del lavoro diretta
paternalisticamente dalle istituzioni assistenziali, tanto che il
reddito rischia di essere una misura per calmierare gli effetti – tanto
materiali quanto politici – di un processo neoliberale di riforma del
sistema pensionistico, da portare avanti fino allo
«smaltimento» di quegli individui che non hanno potuto mobilitare
risorse private per risolvere il problema dell’annientamento del sistema
previdenziale.
La crisi ha però fatto di peggio. La mobilità coatta tra un lavoro e un altro e l’intermittenza dei rapporti contrattuali vincolano la povertà al regime del salario,
ovvero a una lotta costante per conquistarlo e per sfuggire a una
condizione sempre possibile anche per chi lavora. Il salario, in altri
termini, diviene una porta aperta verso la povertà e non una via
d’uscita da essa. La povertà è sempre meno la condizione eccezionale di
quanti sono esclusi dalla «cittadinanza» del mercato del lavoro e sempre
più il risultato prevedibile di una precarietà ormai entrata pienamente
a regime. In questa situazione, l’idea che per anni ha
alimentato le più mature rivendicazioni del reddito di base, quella di
un reddito contro la precarietà e il comando del lavoro, è completamente
rovesciata. Proprio perché diventa un beneficio esigibile solo
in cambio di lavoro, il reddito minimo garantito diventa esso stesso
l’equivalente di un salario che risarcisce e garantisce la piena
disponibilità al lavoro. Questo è il problema politico che abbiamo di
fronte quando parliamo di reddito in rapporto alla povertà: si tratta
davvero di uno strumento per politicizzarla o è soltanto un nuovo
ammortizzatore sociale?
Anche in questo secondo caso ci sarebbe
evidentemente un’utilità che potrebbe far respirare migliaia di uomini e
donne (almeno in Friuli, poiché la freddezza dei calcoli e la
spietatezza della necessità «tecnica» rischiano sempre di aspettarci al
varco, soprattutto in regioni caratterizzate da tassi ben più alti di
«povertà assoluta»). Si tratta, semmai, di provare a pensare
(fuori dai decennali facili slogan e parole d’ordine di partiti,
coalizioni, movimenti) che cosa significa considerare il reddito una
risposta alla povertà se quest’ultima non è una condizione
congiunturale ma strutturale e se non è una condizione omogenea ma
segnata da differenze. Bisogna allora riconoscere che un reddito così
inteso segna il definitivo tramonto del welfare,
o meglio, la sua effettiva universalizzazione. Non si tratta
dell’universalità dei bei tempi andati, quando il lavoro dava accesso a
risarcimenti per lo sfruttamento conquistati con molte lotte. Si tratta
semmai di un’universalizzazione neoliberale: il reddito diventa lo strumento per estorcere lavoro
anche a chi è stato «rifiutato» dal mercato e ha subito il furto dei
propri contributi, oppure una sorta di «prestito» da reinvestire secondo
un criterio di auto-imprenditorialità (il nome nobile, carico di
libertà e speranze, della disponibilità coatta al lavoro). Anche il
welfare è ormai travolto da questa epocale eterogenesi dei fini: richiedere oggi un welfare universale rischia perciò di andare nella direzione di universalizzare soltanto la povertà, trattando l’uguaglianza come una comune condizione di necessità alla quale eventualmente sfuggire investendo su se stessi.
Ciò che questo reddito non conferisce, in ogni caso, è la forza di rifiutare il lavoro.
Non si tratta semplicemente della possibilità individuale di sceglierne
uno migliore, ma di quella generale di sottrarsi al destino di
sfruttamento, che anzi diventa paradossalmente una condizione necessaria
all’erogazione del reddito nell’attuale regime del salario. Oppure,
esso rischia di presentarsi come misura del governo della mobilità
che, costringendo chi ne usufruisce ad accettare un lavoro purchessia e
ovunque sia, vincolerebbe i movimenti di precari, operai e migranti
alle esigenze produttive d’impresa. Le caratteristiche precedentemente
delineate alludono del resto, nel complesso, a una sorta di via italiana
al tanto criticato Hartz IV tedesco.
Non è quindi più sufficiente chiedersi chi potrà beneficiare di questo reddito e a quali condizioni per allargarne le maglie. Bisognerebbe interrogarsi sui rapporti di forza che si definiscono attorno a questa rivendicazione.
Per chi, come il Movimento 5 Stelle, fino a oggi ha portato avanti la
bandiera del reddito all’interno delle istituzioni, l’obiettivo sembra
essere quello di contestare il Jobs Act offrendo un correttivo
all’altezza dei tempi, che tuttavia lascia campo libero all’attacco ai
salari come pure al razzismo implicito nel riferimento al «reddito di
cittadinanza» – una questione che i movimenti si ostinano a relegare in
secondo piano. Un razzismo che, va chiarito, è solo ridimensionato ma
non cancellato dall’estensione del beneficio, prevista da alcune
proposte di legge, a chi – pur non avendo la cittadinanza italiana –
abbia almeno due anni di residenza. Semmai, il principio di residenza adegua più drastici criteri di esclusione dei migranti agli imperativi del governo della mobilità
e, al contempo, reintroduce la dimensione interna del razzismo
istituzionale, facendo della residenza un criterio di cittadinanza.
Così, è certamente possibile pensare che sui singoli territori le
campagne per una legislazione regionale sul reddito aprano spazi
imprevisti di mobilitazione e persino la possibilità di portare a casa
qualcosa, rinsaldando legami comunitari contro la disgregazione di
quelli sociali. Tuttavia, è altrettanto vero che proprio la dimensione
locale in cui queste campagne si muovono pone un limite sostanziale alla
possibilità di produrre una tensione nel generale quadro politico di
sistematizzazione della precarietà che ha luogo sul piano nazionale e
all’interno di un processo transnazionale. Rischiamo perciò di essere
davvero troppo lontani dall’uso di classe delle istituzioni
che si è intravisto in Grecia, ovvero al tentativo di agire all’interno
di una contraddizione per indebolire la presa del capitale e far valere
una situazione nazionale oltre lo Stato, trasformandola in un problema
europeo, cioè in un’azione politica realmente transnazionale.
Il fatto che questa parola
d’ordine del reddito occupi finalmente un posto rilevante nel dibattito
politico-istituzionale e mediatico non è necessariamente il segno di una
vittoria, così come il riconoscimento della povertà come
condizione diffusa non significa puntare all’organizzazione di movimenti
dei poveri. Significa piuttosto chiedere alla società, più o meno
civile, di farsi carico del problema. Non è quindi un caso che questi
primi esperimenti di «reddito minimo garantito» non siano l’effetto
delle lotte, ma una concessione il cui scopo è quello di correggere i
difetti più eclatanti di una condizione data. Si tratterebbe quindi di
discutere quale via imboccare: se quella dell’inseguimento – per dettare
correttivi e condizioni che chi ha in mano le redini del governo ha già
dichiarato di non volere accettare – oppure il dislocamento del terreno
dello scontro – per creare gli strumenti, i discorsi e le pratiche che permettano di partire dalle condizioni globali che producono la povertà,
all’intreccio tra salario, mobilità e neoliberalizzazione del welfare.
Pensare che l’ultimo anello della catena consenta di affrontare l’intera
questione significa prendere l’effetto per la causa. Il problema è
invece di tenere insieme il lato nascosto e quello visibile dello sfruttamento e cogliere la sua azione socialmente dispiegata.
Si tratta di una scelta che è destinata a
pesare soprattutto sul piano dell’organizzazione. Anche per i sindacati
che ora prendono in considerazione la rivendicazione del reddito – come
la FIOM – questa rivendicazione rischia di trasformarsi in una specie
di via di fuga dal problema, sempre irrisolto, di cogliere politicamente
la connessione tra il lavoro e le condizioni politiche e sociali del
suo sfruttamento. Anche in questo caso il rischio è chiedere un
reddito universale per l’impossibilità e l’incapacità di mettere in
discussione i rapporti di forza sul piano del lavoro e del salario.
Ciò pone problemi non secondari a chi saluta con favore il proliferare
di coalizioni e la possibilità di una loro reciproca ibridazione: su
quale piano, infatti, questa potrebbe avvenire? A noi sembra che i
terreni più interessanti e utili di connessione siano quelli che
travolgono sul piano organizzativo, e non solo su quello retorico, i
limiti dati non tanto delle appartenenze politiche o di gruppo, ma da
una supposta rappresentanza sociale che attribuisce a certi sindacati
una presenza in certi luoghi della produzione e del lavoro e ad altri
soggetti la capacità di dare voce a istanze diverse. La direzione
imboccata sembra però andare in direzione opposta. Così, una coalizione
anche ampia di realtà associative sarà certamente disposta a mobilitare
le forze della società civile per rivendicare se non questo reddito,
almeno un reddito alle migliori condizioni. In che misura tutto questo possa effettivamente dare voce a milioni di precarie, migranti e operai
che ogni giorno cercano di sfuggire alla loro povertà, lottando per il
salario e praticando la mobilità per sfuggire al suo regime, è invece una domanda che resta aperta.
Chiedere un reddito universale per aggirare l’enigma del salario è in
fondo una strategia ancora lavorista, che presuppone che tutti debbano
essere lavoratori in modo da poter avere tutti diritto a un reddito.
Pensare di poter rispondere alla povertà con la concessione di un
reddito, rischia di costruire la figura di un «povero» segnata dal
bisogno, universale e omogenea, senza porsi il problema della sua
diretta presa di parola. Il rischio, infine, è quello di abbandonare lo sciopero come progetto politico capace di produrre novità reali e rompere le gerarchie sociali – perché
offre la possibilità di parola a chi altrimenti è messo in silenzio
dalle condizioni oggettive in cui vive e lavora e perché mette realmente
in discussione le appartenenze politiche e sindacali –, assumendo
invece come propria principale controparte il sistema politico al quale
chiedere reddito e risposte a nome della società.
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