di Sandro Moiso
Stefano Valenti, La fabbrica del panico, Feltrinelli 2013 – 2014, pp. 122, € 11,00
Recensisco
soltanto ora, con colpevole anche se inconsapevole ritardo, uno dei
testi narrativi più significativi pubblicati in Italia negli ultimi
anni. Stefano Valenti, al suo primo romanzo, non solo ha vinto la
cinquantaduesima edizione del Premio Campiello per la migliore opera
prima, ma ha scritto un testo cupo ed agghiacciante. Coinvolgente dalla
prima all’ultima pagina, senza mai un calo della tensione che lo ha
ispirato.
L’ennesimo noir? Un altro horror ben congegnato? No.
Soltanto un libro sulla fabbrica. Sulla
condizione operaia. Sulla morte operaia. Un testo che cancella
ogni forma di epica, un’opera assolutamente anti-eroica e anti-retorica.
Sincera fino allo strazio. Un testo politico, profondamente politico ed
umano. Come ben pochi altri.
Sarebbe troppo semplice annoverare
il libro tra quelli dedicati, in anni recenti, alle problematiche del
lavoro e dell’inquinamento ambientale e, più in particolare, alle
malattie che ne derivano.
Certo il dramma è scatenato dall’asbestosi
e dalla morte per mesotelioma del padre dello stesso autore, ma la
narrazione scava più in profondità, non solo nell’animo di Stefano e
nelle sue paure. Scava fino all’osso e all’essenza della coscienza e
dell’odio di classe.
Scava l’autore basandosi innanzitutto, oltre
che sulla sua drammatica esperienza, sulle vicende che hanno
accompagnato la formazione e la lotta di una delle realtà più importanti
di auto-organizzazione operaia degli ultimi decenni, quel Coordinamento Operaio di Sesto San Giovanni da cui si sarebbe poi sviluppato il Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio
ancora oggi così vigile, attivo e combattivo per tutte le realtà di
lotta createsi intorno alle questioni delle nocività sui posti di
lavoro, dell’inquinamento ambientale e della devastazione territoriale.
Scava
e non lascia spazio all’idealismo nella lotta di classe. Perché la
coscienza di una classe non nasce dall’idea. La presa di coscienza
scaturisce dalla paura, dal dolore, dalla solitudine, dalla vergogna,
dall’odio, dalla morte dei compagni e dalla consapevolezza di non poter
sfuggire altrimenti ad un destino già scritto nei contratti di lavoro.
Nasce dalle regole di ingaggio degli operai della grandi e piccole
fabbriche. Regole di ingaggio di una guerra sempre presente e mai
dichiarata tra capitale e lavoro. Tra capitale e vita della specie.
“La
fabbrica non era la soluzione, era il problema, un problema più grave
della disoccupazione […] In fabbrica faceva cose che non avrebbe mai
fatto in vita sua. Obbediva a ordini a cui non avrebbe mai obbedito […]
Ogni giorno si chiedeva come fosse possibile accettare tutto questo,
come fosse possibile accontentarsi, si chiedeva qual era il limite oltre
il quale non era concesso, non era lecito andare e ogni giorno varcava
questo limite” (pp. 47-48)
“Hai mai conosciuto un essere
umano più triste di un operaio? mi ha chiesto un giorno tuo padre, dice
Cesare. Ha mai regnato sulla terra una tristezza pervasiva come quella
che incartoccia l’operaio davanti alla macchina? mi ha chiesto, dice
Cesare. E nella tua infelicità, isolato nel rumore, nella
polvere, nella paura, ha continuato tuo padre, ti sei mai chiesto se
esiste un essere umano che soffre di solitudine come un operaio?, dice
Cesare. La coscienza di classe è consapevolezza di vivere una
condizione uguale a quella di altri, ha concluso tuo padre. Non è dunque
l’indigenza più della vergogna a unirci in un comune destino. Una
vergogna determinata da un’urgenza che in fabbrica diventa necessità
impellente, occorrenza estrema. Erano pensieri come quelli, pensavo,
dice Cesare, parole come quelle a fare male. La consapevolezza che la
vita era un’ingiuria, un’offesa continua” (pp. 60-61)
“Ho
saputo di operai che per liberarsi della fabbrica si procuravano
mutilazioni volontarie, Ritenevano di esercitare il controllo. Una
contusione, un’abrasione. Capitava loro di tornare a casa senza un dito,
senza una falange. Comunque a casa, e in malattia […] Cento operai su
cento soffrono di disturbi alle prime vie respiratorie, sia in fonderia,
sia in forgia, sia alle macchine. Sessantasette operai su cento
soffrono di bronchite cronica in fonderia, trentacinque alle macchine,
quindici in forgia. Settantuno operai su cento soffrono di artrosi e
reumatismi in fonderia e in forgia, trentacinque alle macchine. Sessanta
operai su cento soffrono d’ansia alle macchine. Ventidue operai su
cento soffrono di silicosi in fonderia” (pp.64-74)
“Ne
sono morti una ventina in reparto, diciannove operai su ventisei. E la
direzione non ha detto niente perché a loro e al sindacato interessava
il lavoro e di tanto in tanto concedevano qualche adeguamento di
stipendio, nient’altro” (pag. 32) Gli operai muoiono, di mesotelioma, ma la macchina deve andare avanti. The show must go on! Lo
spettacolo della produzione e della produttività deve continuare ad
essere rappresentato, con la complicità del sindacato e del riformismo.
Lo
imparano a loro spese gli operai. Proprio in fabbrica si scopre
l’inutilità e la nocività delle dottrine del lavorismo. Lì nasce il
rifiuto del lavoro coatto. Non di quello creativo che, per quanto negato
all’operaio per default, può, come per la pittura nel caso del padre di
Stefano, rappresentare l’unica fuga, l’unica momentanea salvezza
individuale. Se non del corpo, ormai condannato, almeno della
mente. Chiedere pane e lavoro per non morire di fame per poi morire di
lavoro. Questa la drammatica, inutile e crudele contraddizione per la
classe operaia del ‘900.
“La sofferenza della morte
industriale. Lontana anni luce dall’immagine stratta della morte. Non
conosciamo altro modo di vivere, dice Cesare. Enormi fabbriche che
rastrellano la terra facendo strage di tutta la vita che trovano.
Meccanismi che distruggono le menti, l’habitat necessario alla specie, e
rompono l’equilibrio biologico. Uno solo di questi mattatoi fumanti e
rumorosi può uccidere decine e decine di uomini […] Negli anni sono
stati introdotti divieti, ma queste misure non sono state sufficienti a
porre un freno al disastro. Nuove devastanti modalità di produzione
sostituiscono le vecchie. Il capitale sfida le convenzioni
internazionali e l’opinione pubblica con una violenta e insensata caccia
al profitto […] La nefasta pratica della produzione intensiva applicata
a livello mondiale separa, trita, ingurgita” (pag.78)
Non vi
è spazio per l’orgoglio operaio nelle pagine di Valenti. Non c’è spazio
per l’orgoglio di categoria per gli operai di fabbrica. L’operaio-massa
lavora e muore oppure si ribella, come gli antichi schiavi. Spartaco
muore per liberare le potenzialità prometeiche della sua classe, ma può
farlo soltanto combattendo.
“Gli uomini che trascorrono la
vita in fabbrica si chiamano operai. Esistono gli operai ed esistono gli
altri uomini, dice Cesare […] Cesare ricorda il primo giorno in
fabbrica, in fonderia, e dice Era come essere in guerra
[…] La vita dentro la fabbrica la conoscono gli operai, e gli altri
uomini non la conoscono, dice Cesare. Nessuno conosce la fabbrica perché
è organizzata come un carcere di massima sicurezza in cui a nessuno è
consentito entrare, tranne ai carcerati, ai loro familiari e alle
guardie, gli unici a cui è concesso vivere in quel luogo, dice Cesare” (pp. 78-79)
Ci
si stupisce oggi del Jobs Act, dei provvedimenti e delle pretese di
Marchionne. Drogati da decenni di riformismo e di vuoti statuti ci siamo
forse dimenticati che: “La legge del capitale in fabbrica è il
profitto di impresa, l’incondizionata accettazione da parte dell’operaio
della regola dello sfruttamento intensivo del lavoro […] La riduzione
dei costi. Ma dal momento che il lavoro in fabbrica è in gran parte
illogico e detestabile, al fine di ottenere un’adesione degli operai al
progetto d’impresa è necessario esercitare una pressione sul lavoratore,
che finisce di frequente per cedere, in fabbrica accadono episodi
inenarrabili. La sopraffazione è la norma, le umiliazioni una prassi, il
ricatto un’abitudine” (pag. 79)
Non esiste un capitale
democratico e non esiste via parlamentare verso la liberazione dal
lavoro salariato. Anzi, tutte le riforme e tutti gli illusori diritti,
raggiunti sempre e comunque a costo di lotte estenuanti, sembrano alla
fine soltanto prolungarne la triste e feroce esistenza. Apparentemente
indistruttibile, come l’amianto. “Incorruttibile, inestinguibile,
non infiammabile, resistente all’attacco degli acidi e alla trazione.
L’amianto è indistruttibile, facilmente friabile e altamente cancerogeno
[…] Gli operai non lo sanno e giocano a tirarsi palle di fibre di
amianto” (pp. 81-82)
Fino a quando la classe operaia potrà
ancora rinviare la negazione delle basi del proprio sfruttamento e delle
condizioni materiali della propria sottomissione? Ma, soprattutto, fino
a quando vorremo ancora partecipare a questo gioco mortale, le cui
regole sono dettate dal capitale? Fino a quando vorremo lasciarci ancora
illudere dagli esorcismi elettorali, parlamentari e referendari? Fino a
quando attenderemo ancora, prima di lasciare esplodere la nostra
frustrazione, la nostra rabbia, la nostra insoddisfazione e il nostro
odio? Fino a quando? Grazie Stefano, per non esserti più tenuto dentro
tutto ciò che tuo padre, la sua esperienza di fabbrica e la sua morte ti
hanno trasmesso.
N.B.
E grazie anche
all’instancabile lavoro di Michele Michelino (identificabile, nel
romanzo, nella figura di Cesare), animatore, insieme a tutti gli altri
operai, del Centro di iniziativa proletaria G. Tagarelli e
del Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e del
territorio, cui si rinvia per altri due importantissimi testi: Michele
Michelino, 1970-1983 La lotta di classe nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni, Milano 2003 e Michele Michelino e Daniela Trollio, Operai, carne da macello. La lotta contro l’amianto a Sesto San Giovanni,
Milano 2005 entrambi reperibili presso il Centro di Iniziativa
Proletaria “Gianbattista Tagarelli” di Sesto San Giovanni (MI) – cap
20099 – via Magenta n. 88 tel. 0226224099 oppure al cell. 3394435957 o
all’e-mail: michele.mi@inwind.it
Fonte
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