di Michele Paris
La pubblicazione avvenuta questa settimana dell’annuale “libro
bianco” del ministero della Difesa giapponese ha innescato un nuovo
scontro diplomatico con il governo cinese in concomitanza con
l’approvazione alla camera bassa del parlamento di Tokyo di un pacchetto
legislativo volto a liquidare i principi pacifisti fissati dalla
Costituzione nipponica.
Il documento che delinea le sfide globali
alla sicurezza del Giappone dedica un’insolitamente ampia sezione alla
Cina, il cui comportamento sembra suscitare “forti preoccupazioni” a
Tokyo. Il tono del “libro bianco” è di forte critica verso il vicino
cinese e, in particolare, contiene rimproveri altamente provocatori in
merito alle operazioni di Pechino nelle acque contese dei mari Cinese
Orientale e Meridionale.
La Cina, secondo il governo
ultra-conservatore del premier Shinzo Abe, agirebbe in maniera
“aggressiva”, cercando di forzare il cambiamento dello status quo e di
promuovere le proprie rivendicazioni “senza scendere a compromessi”.
L’aspetto
più controverso del documento giapponese, e maggiormente contestato da
parte della Cina, riguarda la richiesta di interrompere la costruzione
di piattaforme per l’esplorazione di giacimenti di gas e petrolio nel
Mar Cinese Orientale.
A supporto delle proprie critiche, il
ministero della Difesa di Tokyo nella giornata di mercoledì ha diffuso
una mappa che indica il posizionamento delle strutture “off-shore”
installate dalla Cina, in aggiunta a 14 fotografie aeree degli stessi
impianti. Per il segretario generale del Gabinetto giapponese, Yoshihide
Suga, le piattaforme accertate sarebbero 16, di cui 12 identificate a
partire dal giugno 2013.
Lo stesso Suga ha inoltre spiegato quali
sarebbero le ragioni della preoccupazione giapponese per le attività di
Pechino. Il governo cinese, cioè, avrebbe costruito le strutture utili
all’estrazione di gas e petrolio in un’area dove i confini tra i due
paesi non sono stati ancora definiti bilateralmente.
Tokyo invita
perciò le autorità cinesi a tornare al tavolo delle trattative sulla
base di un accordo raggiunto tra i due paesi nel 2008, nel quale avevano
concordato in linea di principio di condurre operazioni esplorative
congiunte nel Mar Cinese Orientale.
Il carattere tendenzioso
delle accuse formulate da Tokyo è apparso chiaro nel momento in cui il
governo Abe ha ribadito che, in assenza di un accordo bilaterale, la
propria posizione ufficiale in relazione al Mar Cinese Orientale prevede
il riconoscimento di una linea di demarcazione che taglia esattamente a
metà l’area marittima in questione. Da questo presupposto, il Giappone
ha dovuto ammettere che le strutture costruite da Pechino sono situate
sul lato cinese della linea mediana di demarcazione.
L’interpretazione
giapponese - sia pure provvisoria - dei confini nel Mar Cinese
Orientale ha dato così legittimità alle reazioni del ministero degli
Esteri di Pechino, da dove è stato ribadito che le attività di
esplorazione per gas e petrolio “vengono condotte in acque
indisputabilmente sotto la giurisdizione cinese, la quale è pienamente
all’interno della sovranità” della Repubblica Popolare.
Il
Giappone, in ogni caso, teme che la propria sicurezza possa essere
compromessa se le strutture “off-shore” cinesi dovessero essere
utilizzate a scopi militari, ad esempio con il posizionamento di
“sistemi radar” o con la creazione di “basi operative per elicotteri o
droni destinati a condurre pattugliamenti aerei”. Vari commentatori e
analisti citati anche dalla stampa giapponese, tuttavia, hanno espresso
parecchie perplessità circa il fatto che le piattaforme esistenti
possano essere convertite in strutture militari da parte della Cina.
Come
già anticipato, il “libro bianco” del ministero della Difesa nipponico è
stato reso noto pochi giorni dopo l’approvazione in parlamento di un
provvedimento fortemente voluto dal primo ministro Abe e che dovrebbe
consentire l’impiego delle forze armate del Giappone all’estero con
minori vincoli. Tra l’altro, la nuova legislazione prevede la
possibilità che i militari giapponesi partecipino alle avventure
belliche degli alleati, a cominciare dagli Stati Uniti.
Queste
leggi, oltre a essere di molto dubbia costituzionalità, sono
estremamente impopolari in Giappone e la loro promozione da parte di Abe
ha già provocato un vero e proprio crollo dell’indice di gradimento del
premier nel paese. Il ricorso a una retorica aggressiva per demonizzare
la Cina intende dunque sollecitare il sentimento nazionalista
giapponese, così da contrastare la diffusa opposizione alla svolta
militarista impressa dal capo del governo.
Su questo punto ha
insistito la reazione cinese alla pubblicazione del documento strategico
giapponese. Il ministero della Difesa di Pechino ha affermato che Tokyo
“ha maliziosamente ingigantito le questioni riguardanti il Mar Cinese
Orientale e il Mar Cinese Meridionale”, ma anche quelle sulla “sicurezza
del web e la trasparenza militare”.
Tutto ciò, secondo quanto
affermato giovedì dall’ambasciatore cinese a Tokyo, Cheng Yonghua, allo
scopo di “alimentare la minaccia cinese” e favorire l’implementazione
del controverso pacchetto legislativo sulla sicurezza. Lo stesso
ambasciatore ha poi aggiunto che trasformare la Cina in un “nemico
immaginario” non può che ostacolare il miglioramento dei rapporti tra i
due paesi.
La strumentalizzazione del “libro bianco” giapponese e
delle accuse alla Cina in esso contenute è stata confermata da quanto
ha scritto giovedì il quotidiano nipponico conservatore Yomiuri Shimbun,
secondo il quale il governo di Tokyo ha chiesto almeno dal 2013 lo stop
delle operazioni esplorative di Pechino nel Mar Cinese Orientale, ma ha
atteso solo ora - in contemporanea con il voto in parlamento sulla
legislazione militarista - per pubblicare le immagini e la mappa delle
installazioni “off-shore”.
Con la mossa di questi ultimi giorni,
il governo giapponese ha aggiunto quindi un nuovo motivo di scontro con
la Cina, facendo salire ulteriormente le tensioni in Estremo Oriente.
L’aggravamento di conflitti territoriali considerati relativamente
trascurabili per decenni nel continente asiatico è legato principalmente
al ritorno ad aggressive politiche all’insegna del militarismo da parte
di Tokyo.
Allo
stesso tempo, queste stesse politiche sono in parte il riflesso del
riassetto strategico in fase di elaborazione degli Stati Uniti, a sua
volta determinato dall’espansione dell’influenza cinese in un’area del
globo strategicamente ed economicamente sempre più importante.
Washington,
nel tentativo di invertire il proprio declino, ha lanciato un ambizioso
quanto pericoloso piano di riposizionamento delle proprie forze navali
in Asia orientale, perseguendo in parallelo legami diplomatici e
militari più profondi con vari paesi, molti dei quali da qualche tempo
nell’orbita economica di Pechino.
In questo processo, dal
Giappone alle Filippine al Vietnam, gli USA hanno incoraggiato
rivendicazioni territoriali e atteggiamenti provocatori nei confronti
della Cina, in una strategia di accerchiamento che rischia seriamente di
portare le tensioni fino al punto di rottura.
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