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24/07/2015

Cina e Giappone, sale la tensione

di Michele Paris

La pubblicazione avvenuta questa settimana dell’annuale “libro bianco” del ministero della Difesa giapponese ha innescato un nuovo scontro diplomatico con il governo cinese in concomitanza con l’approvazione alla camera bassa del parlamento di Tokyo di un pacchetto legislativo volto a liquidare i principi pacifisti fissati dalla Costituzione nipponica.

Il documento che delinea le sfide globali alla sicurezza del Giappone dedica un’insolitamente ampia sezione alla Cina, il cui comportamento sembra suscitare “forti preoccupazioni” a Tokyo. Il tono del “libro bianco” è di forte critica verso il vicino cinese e, in particolare, contiene rimproveri altamente provocatori in merito alle operazioni di Pechino nelle acque contese dei mari Cinese Orientale e Meridionale.

La Cina, secondo il governo ultra-conservatore del premier Shinzo Abe, agirebbe in maniera “aggressiva”, cercando di forzare il cambiamento dello status quo e di promuovere le proprie rivendicazioni “senza scendere a compromessi”.

L’aspetto più controverso del documento giapponese, e maggiormente contestato da parte della Cina, riguarda la richiesta di interrompere la costruzione di piattaforme per l’esplorazione di giacimenti di gas e petrolio nel Mar Cinese Orientale.

A supporto delle proprie critiche, il ministero della Difesa di Tokyo nella giornata di mercoledì ha diffuso una mappa che indica il posizionamento delle strutture “off-shore” installate dalla Cina, in aggiunta a 14 fotografie aeree degli stessi impianti. Per il segretario generale del Gabinetto giapponese, Yoshihide Suga, le piattaforme accertate sarebbero 16, di cui 12 identificate a partire dal giugno 2013.

Lo stesso Suga ha inoltre spiegato quali sarebbero le ragioni della preoccupazione giapponese per le attività di Pechino. Il governo cinese, cioè, avrebbe costruito le strutture utili all’estrazione di gas e petrolio in un’area dove i confini tra i due paesi non sono stati ancora definiti bilateralmente.

Tokyo invita perciò le autorità cinesi a tornare al tavolo delle trattative sulla base di un accordo raggiunto tra i due paesi nel 2008, nel quale avevano concordato in linea di principio di condurre operazioni esplorative congiunte nel Mar Cinese Orientale.

Il carattere tendenzioso delle accuse formulate da Tokyo è apparso chiaro nel momento in cui il governo Abe ha ribadito che, in assenza di un accordo bilaterale, la propria posizione ufficiale in relazione al Mar Cinese Orientale prevede il riconoscimento di una linea di demarcazione che taglia esattamente a metà l’area marittima in questione. Da questo presupposto, il Giappone ha dovuto ammettere che le strutture costruite da Pechino sono situate sul lato cinese della linea mediana di demarcazione.

L’interpretazione giapponese - sia pure provvisoria - dei confini nel Mar Cinese Orientale ha dato così legittimità alle reazioni del ministero degli Esteri di Pechino, da dove è stato ribadito che le attività di esplorazione per gas e petrolio “vengono condotte in acque indisputabilmente sotto la giurisdizione cinese, la quale è pienamente all’interno della sovranità” della Repubblica Popolare.

Il Giappone, in ogni caso, teme che la propria sicurezza possa essere compromessa se le strutture “off-shore” cinesi dovessero essere utilizzate a scopi militari, ad esempio con il posizionamento di “sistemi radar” o con la creazione di “basi operative per elicotteri o droni destinati a condurre pattugliamenti aerei”. Vari commentatori e analisti citati anche dalla stampa giapponese, tuttavia, hanno espresso parecchie perplessità circa il fatto che le piattaforme esistenti possano essere convertite in strutture militari da parte della Cina.

Come già anticipato, il “libro bianco” del ministero della Difesa nipponico è stato reso noto pochi giorni dopo l’approvazione in parlamento di un provvedimento fortemente voluto dal primo ministro Abe e che dovrebbe consentire l’impiego delle forze armate del Giappone all’estero con minori vincoli. Tra l’altro, la nuova legislazione prevede la possibilità che i militari giapponesi partecipino alle avventure belliche degli alleati, a cominciare dagli Stati Uniti.

Queste leggi, oltre a essere di molto dubbia costituzionalità, sono estremamente impopolari in Giappone e la loro promozione da parte di Abe ha già provocato un vero e proprio crollo dell’indice di gradimento del premier nel paese. Il ricorso a una retorica aggressiva per demonizzare la Cina intende dunque sollecitare il sentimento nazionalista giapponese, così da contrastare la diffusa opposizione alla svolta militarista impressa dal capo del governo.

Su questo punto ha insistito la reazione cinese alla pubblicazione del documento strategico giapponese. Il ministero della Difesa di Pechino ha affermato che Tokyo “ha maliziosamente ingigantito le questioni riguardanti il Mar Cinese Orientale e il Mar Cinese Meridionale”, ma anche quelle sulla “sicurezza del web e la trasparenza militare”.

Tutto ciò, secondo quanto affermato giovedì dall’ambasciatore cinese a Tokyo, Cheng Yonghua, allo scopo di “alimentare la minaccia cinese” e favorire l’implementazione del controverso pacchetto legislativo sulla sicurezza. Lo stesso ambasciatore ha poi aggiunto che trasformare la Cina in un “nemico immaginario” non può che ostacolare il miglioramento dei rapporti tra i due paesi.

La strumentalizzazione del “libro bianco” giapponese e delle accuse alla Cina in esso contenute è stata confermata da quanto ha scritto giovedì il quotidiano nipponico conservatore Yomiuri Shimbun, secondo il quale il governo di Tokyo ha chiesto almeno dal 2013 lo stop delle operazioni esplorative di Pechino nel Mar Cinese Orientale, ma ha atteso solo ora - in contemporanea con il voto in parlamento sulla legislazione militarista - per pubblicare le immagini e la mappa delle installazioni “off-shore”.

Con la mossa di questi ultimi giorni, il governo giapponese ha aggiunto quindi un nuovo motivo di scontro con la Cina, facendo salire ulteriormente le tensioni in Estremo Oriente. L’aggravamento di conflitti territoriali considerati relativamente trascurabili per decenni nel continente asiatico è legato principalmente al ritorno ad aggressive politiche all’insegna del militarismo da parte di Tokyo.

Allo stesso tempo, queste stesse politiche sono in parte il riflesso del riassetto strategico in fase di elaborazione degli Stati Uniti, a sua volta determinato dall’espansione dell’influenza cinese in un’area del globo strategicamente ed economicamente sempre più importante.

Washington, nel tentativo di invertire il proprio declino, ha lanciato un ambizioso quanto pericoloso piano di riposizionamento delle proprie forze navali in Asia orientale, perseguendo in parallelo legami diplomatici e militari più profondi con vari paesi, molti dei quali da qualche tempo nell’orbita economica di Pechino.

In questo processo, dal Giappone alle Filippine al Vietnam, gli USA hanno incoraggiato rivendicazioni territoriali e atteggiamenti provocatori nei confronti della Cina, in una strategia di accerchiamento che rischia seriamente di portare le tensioni fino al punto di rottura.

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