Se conosco Shakespeare? Perbacco! A casa nostra lo chiamavamo: Guglielmo!
Così diceva Totò a Lia Zoppelli in Chi si ferma è perduto, e non scherzava. Ho ancora in casa libri in cui Shakespeare è chiamato, effettivamente, Guglielmo.
E come cosa, effettivamente, fa ridere, ed è ammissibile solo in due
casi: se te lo impone un dittatore (la polibibita, il tuttochesivede,
l’italianissimo cialdino), o se sei un babbeo: a pensarci bene, il
motivo è uno, ed è lo stesso.
Questo, fino a ieri. Poi il sindaco Marino (che non avrà tutte le
colpe ma nemmeno può sempre dire che sono stati i folletti e le
cavallette), se ne esce che Roma non è più Roma, ma Rome, anzi RoMe and
You, una cosa che fa rabbrividire perfino gente forgiata nell’acciaio
del marketing, e il nostro Presidente del consiglio dei ministri (anzi,
Premier, come la Premier League), se ne esce col Devid di Maichel
Engelo. Che fa molto meno ridere di Totò, perché non voleva essere una
spiritosaggine.
E non è nemmeno ignoranza: è qualcosa di peggio.
Lasciando da parte il discorso idiota della sacralità dell’italico
idioma (che per fortuna delle accademie se ne strafotte, ed è per questo
che noi, oggi, non parliamo come Massimo D’Azeglio, con l’ovvia
esclusione di alcuni premi Strega), non è l’ignoranza che mi spaventa.
Sono convinto che Renzi e Marino non siano persone di cultura, e queste
cose da loro me le aspetto (loro lo sanno, e non sia mai che mi
deludano). Quello che non mi piace, e che trovo perfettamente in linea
con questo zeitgeist dai pettorali scolpiti e dall’alito puzzolente che
ci avviluppa, è quello che fanno tutti i giorni i peggiori esperti di
marketing e i peggiori editor: lo spiegone.
Chiamare Roma, Rome e il David, Devid, fa parte di
quella infame corrente di pensiero che ti incita: spiega, spiega, se no
la gente non capisce. La casalinga di Voghera è diventato l’hillbilly
del Kentucky, e stiamo abbassando la soglia dello spiegone perché tutti
devono capire, a costo di chiamare Maichel Engelo il Buonarroti.
Il fatto è che è sbagliato. Non tutti devono capire: se non capiscono, lo sforzo di chiamare Roma e non Rome
la capitale d’Italia, lo dovranno pur fare, cazzo: mica gli si chiede
di declamare a memoria i sonetti del Belli in romanesco, ma cazzo,
imparati a dire Michelangelo. E invece no: più si abbassa la soglia, non
di ignoranza ma di ciucciaggine volontaria, di strafottenza verso
qualsivoglia tipo di cultura, fosse anche mandare a memoria un fetente
di nome di quattro lettere, più le cose vanno a puttane. Poi è ovvio che
un editor ciuccio, un redattore bestia, ti dice riscrivilo (il libro,
il film, la serie, l’articolo) perché se no non si capisce. Il
problema è che loro vogliono farlo capire alle galline, ai posacenere,
ai loro parenti, ai loro amici: cose e persone, cioè, che nell’ignoranza
in cui sguazzano andrebbero lasciate, anzi segregate, per paura che
escano a far danni.
Una cosa è portare dappertutto la cultura, un’altra è chiedere il permesso al guardiano dei porci per gettarla nella merda.
Non capisci? Bene, o mi dimostri che sei un bracciante di Cerignola
del 1930, nel qual caso io vengo e te lo spiego con calma, oppure levati
il telefonino dal culo e impara a pronunciare Michelangelo. Io ti odio:
è per portare la cultura a gente come te che escono libri di merda, si
scrivono giornali di merda, si sente musica di merda, si fanno film di
merda.
Tu non capisci perché non vuoi capire, e fai anche bene, perché sei una bestia. Ma mai come quelli che ti vengono appresso.
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