Dopo quattro anni e mezzo di guerra civile e tanti tentativi
indiretti di rovesciare il presidente Bashar al-Assad, ora il conflitto
diventa reale. Gli Stati Uniti hanno annunciato l’intenzione di usare i
raid aerei per colpire non solo lo Stato Islamico, ma chiunque metta in
pericolo le unità delle opposizioni moderate finanziate e armate
dall’Occidente. E nel calderone dei potenziali target finisce ovviamente
anche l’esercito di Damasco.
Eppure le truppe governative combattono la stessa battaglia,
quella contro l’estremismo islamico di Isis e al Qaeda. Oggi dopo due
giorni di duri scontri un’altra città, al Qaryatain, alla periferia di
Homs, è caduta in mano agli uomini del califfo. Ieri tre
attentatori suicidi si sono fatti saltare in aria vicino a checkpoint
del governo e poco dopo hanno occupato la comunità, strategica perché
lungo la strada che porta a Palmira, già strappata a Damasco a maggio.
Controllare la zona est di Homs e Palmira, al centro, permetterà
all’Isis di muoversi liberamente e trasferire senza grossi ostacoli armi
e uomini.
Sul terreno Assad è ad oggi, insieme alla resistenza kurda a
nord, l’unico bastione contro l’avanzata islamica. Ma alla coalizione
occidentale pare interessare poco e combatte la propria battaglia, come
fosse separata dal resto: ieri gli Stati Uniti hanno lanciato il primo
raid sul nord della Siria partendo dalla base aerea di Incirlik, in
Turchia, che Ankara dopo mesi di pressioni ha messo a
disposizione della coalizione anti-Isis. Immediata la reazione siriana.
Il ministro degli Esteri Mouallem ha ripetuto quanto detto in passato
dallo stesso Assad, ma sempre negato da Washington: “Gli Stati Uniti ci
hanno contattato prima di mandare questo gruppo [i ribelli addestrati in
Turchia, ndr] e confermato che stanno combattendo l’Isis e non
l’esercito siriano. Abbiamo detto che sosteniamo ogni sforzo per
combattere l’Isis in coordinamento con il governo siriano, altrimenti
sarebbe una violazione della sovranità siriana”.
Dietro le quinte si muovono, però, in tanti. Stati Uniti e
Russia hanno raggiunto un accordo su una bozza da presentare alle
Nazioni Unite, volta a individuare i responsabili dell’utilizzo di armi
chimiche in Siria. Una mossa che segue gli incontri tra il
ministro degli Esteri russo Lavrov e il segretario di Stato Usa Kerry,
durante i quali le due potenze hanno discusso concretamente di eventuali soluzioni
alla guerra civile. Tra queste l’uscita di scena di Assad, che potrebbe
così essere abbandonato anche da Mosca, fino ad ora alleata di Damasco.
A resistere alle pressioni internazionali è l’Iran che, forte del
potere archiviato con l’accordo sul nucleare e con la presenza fissa e
fondamentale sul terreno della lotta al califfato, presenterà all’Onu un
piano per uscire dalla crisi siriana. Il piano di pace, fa
sapere il vice ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian,
è stato redatto dopo dettagliate consultazioni con il governo siriano
ed è “uno dei più seri ed efficaci piani dell’agenda Onu”. Non si hanno
ancora dettagli confermati, ma pare che il piano si fondi su quattro
punti: cessate il fuoco immediato, formazione di un governo di
unità nazionale, emendamenti alla costituzioni sui diritti delle
minoranze e elezioni sotto la supervisione internazionale.
Una proposta concreta che dimostra l’intenzione di Assad –
consapevole dell’incapacità di vincere il conflitto, anche senza
perderlo – di scendere a patti per porre fine alla crisi del paese e
alle interferenze dei nemici storici dell’asse sciita, da Ankara a
Riyadh che da anni stanno ostacolando il raggiungimento della pace.
Un elemento esce, però, con forza dall’attuale equilibrio dei poteri. L’Iran
– in Siria e in Yemen – sta rivestendo un ruolo nuovo, capace di
rafforzarlo ulteriormente all’interno della comunità internazionale: il
ruolo di mediatore, di risolutore delle crisi non attraverso la forza
militare e i finanziamenti a pioggia verso soggetti destabilizzatori
della regione. Qualsiasi cosa accada ad Assad, Teheran ne uscirà più potente e credibile.
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