Ieri due soldati turchi sono morti e altri 24 sono stati feriti in un attacco condotto contro una base militare nella provincia orientale di Agri, nel distretto di Dogubayazit, a poca distanza dal confine con Iran e Armenia. Durante la notte un trattore imbottito di esplosivo è stato scagliato da militanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan contro la base militare.
Nella provincia sud orientale di Mardin – anche questa a maggioranza curda – un soldato è stato ucciso e quattro feriti all’alba di ieri a causa dell’esplosione di una mina al passaggio di un convoglio militare diretto nel distretto di Midyat. Sempre ieri militanti del Pkk hanno attaccato alcuni Tir dell’esercito carichi di rifornimenti per le truppe a Dersim, distruggendoli completamente. Distrutti vari blindati, elicotteri e carri armati nel corso dei diversi attacchi. Il centro stampa delle HPG - il fronte combattente del Pkk - ha riferito che i guerriglieri hanno anche sabotato un pozzo petrolifero nel villaggio Kara Ali e distrutto una macchina per la produzione di petrolio, 3 container e un serbatoio.
Il giorno precedente le squadre speciali della polizia avevano fatto irruzione in una abitazione ad Agri e avevano ucciso tre militanti del Partito Democratico dei Popoli, dopo che centinaia di agenti avevano circondato e bloccato un intero quartiere noto per il radicamento della resistenza curda. Sezai Yaşar 26 anni, suo fratello Ahmet Yaşar e Mirzettin Görtürk sono stati giustiziati a freddo durante le perquisizioni e a lungo non è stato consentito l’ingresso nella zona neanche dei mezzi di soccorso.
Negli ultimi giorni le truppe turche e la polizia hanno sistematicamente militarizzato il Kurdistan turco, e in particolare alcuni quartieri di Diyarbakir, dove migliaia di manifestanti contrari ai bombardamenti contro il Pkk e la maxiretata 'antiterrorismo' (che finora ha portato all'arresto di 1300 militanti curdi e dell'estrema sinistra turca e di poche decine di fondamentalisti) sono stati attaccati e dispersi con lacrimogeni, idranti e pallottole di gomma.
Intanto Ankara sembra aver incassato da Washington un sostegno completo alla propria strategia che mira a imporre nel nord della Siria una ‘zona cuscinetto’ controllata dal regime turco e che otterrebbe tre risultati: dividere in due i cantoni curdi governati dal Pyd, partito gemello del Pkk; deportare nella cosiddetta ‘safe zone’ centinaia di migliaia di profughi siriani; mettere i piedi in territorio siriano, con il sostegno delle grandi potenze internazionali (finora né Mosca né Pechino hanno opposto un netto ‘no’ al piano) ponendo le condizioni per il rovesciamento del governo di Damasco. Il consiglio degli ambasciatori dell’Alleanza Atlantica di pochi giorni fa non sembrava entusiasta dei progetti turchi, al contrario di un’amministrazione statunitense che sembra aver completamente sacrificato il rapporto – ambiguo e altalenante, ma incontestabile – con la guerriglia curda siriana utilizzata di fatto finora come ‘fanteria’ contro i combattenti dello Stato Islamico.
Da Washington ora Ankara ha ottenuto il via libera a intervenire militarmente contro chiunque – esercito siriano compreso – attacchi i miliziani ai quali la Turchia vuole affidare il controllo della ‘zona cuscinetto’ da realizzare in Siria. L’ulteriore step nella collaborazione tra Stati Uniti e Turchia – una rinnovata complicità dopo anni di freddezza e di aperto conflitto – è stato comunicato ieri da alcuni funzionari della Casa Bianca e riportata dal Wall Street Journal. Anche se Casa Bianca e Pentagono si rifiutano di confermare le indiscrezioni, fonti anonime hanno raccontato che l’aviazione statunitense coprirà l’avanzata sul terreno dei miliziani ‘siriani’ – in realtà molti di loro vengono da altri paesi – che la Turchia sta addestrando e che presto invierà nel nord della Siria per prendere possesso di una fascia lunga 100 km e profonda 50. Si parla di circa 5500 miliziani, addestrati, armati e finanziati da Washington e da Ankara con il contributo di altri paesi. Chiunque si metterà contro questa forza mercenaria – i jihadisti dell’Is, ma soprattutto i combattenti curdi o i militari di Damasco – subirà gli attacchi dell’aviazione militare statunitense. Intanto stamattina un caccia siriano si è schiantato su una zona commerciale di Ariha, cittadina in mano agli islamisti vicino al confine con la Turchia, causando almeno 12 morti (alcune fonti parlano di 25). Il caccia sarebbe precipitato per un guasto, ma certo i dubbi su un possibile intervento esterno sono legittimi.
“Non voglio entrare nello specifico delle nostre regole di ingaggio ma abbiamo detto fin dall’inizio che avremmo dovuto prendere le misure necessarie per garantire che tali forze potessero svolgere con successo la loro missione” ha ammesso il portavoce del Consiglio di Sicurezza della Casa Bianca Alistair Baskey.
Di fatto la Turchia ottiene, almeno potenzialmente, il massimo del risultato – vedersi riconosciuto il proprio ruolo e le proprie pretese rispetto all’eliminazione dell’autogoverno curdo e del governo siriano – senza sobbarcarsi in prima persona lo sforzo militare, visto che le forze di terra saranno mercenarie e la copertura aerea sarà gentilmente offerta da Washington. Che poi Ankara invii qualche centinaio di “consiglieri” militari nel nord della Siria è nell’ordine delle cose, ed ovviamente governi e stampa occidentale gireranno gli occhi da un’altra parte.
Ma occorrerà vedere se tutto andrà per il verso giusto e se Ankara non dovrà intervenire direttamente con il proprio esercito. Finora infatti migliaia di miliziani addestrati e armati allo scopo di operare in territorio siriano per conto di Ankara e Washington hanno fatto una brutta fine. In molti casi sono passati – soldi e armi al seguito – nelle file delle varie sigle jihadiste, di Al Qaeda o direttamente dello Stato Islamico, oppure si sono sbandati. Oppure, come è accaduto pochi giorni fa, sono stati rapiti da quelli del Fronte Al Nusra non appena varcato il confine. E’ accaduto la scorsa settimana a un gruppo di 18 mercenari, mentre altri 5 sono stati uccisi, appartenenti alla cosiddetta ‘Divisione 30’, finiti nelle mani dei combattenti qaedisti con tanto di comandante. Un segnale esplicito servito a convincere i loro commilitoni dell’Esl ad abbandonare alcune postazioni intorno ad Aleppo e a lasciare campo libero agli estremisti.
Ma era già successo a marzo quando il gruppo Harakat Hazm, foraggiato da Washington, era stato costretto a sciogliersi e a passare dalla parte dei teorici nemici dell’occidente. E prima ancora la stessa sorte l’avevano subita molte delle brigate del cosiddetto ‘Esercito Siriano Libero’, annientate militarmente dai qaedisti e dal Califfato oppure convinti a cambiare casacca.
Che il contrasto dello Stato Islamico rimanga il principale scopo dell’amministrazione statunitense e di alcune potenze europee, al contrario della Turchia che invece non fa mistero di considerare Damasco e la resistenza curda il nemico principale, o dei cosiddetti ‘ribelli moderati’ telecomandati da Washington e da Ankara hanno poche o nessuna possibilità – e voglia, se è per questo – di impegnarsi in una lotta contro i miliziani del Califfato che costerebbe loro assai cara.
Man mano che la strategia turco-statunitense si delinea e si dispiega, valgono i ragionamenti che abbiamo provato a proporre nei giorni scorsi. E che anche un giornalista lucido come Alberto Negri ha delineato senza troppi giri di parole su Il Sole 24 Ore dei giorni scorsi.
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La «strana» campagna anti-Isis di Erdogan
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore
La Turchia è la soluzione o il problema nella lotta al Califfato? Per gli Stati Uniti, la Nato e gli europei in questo momento appare la soluzione ma presto potrebbe rivelarsi il problema perché la battaglia contro l’Isis per Ankara è soltanto un’opportunità per sbarazzarsi dei curdi, occupare una parte del territorio siriano e tenere a bada il Kurdistan iracheno.
Obiettivi legittimi dal punto di vista di Ankara, ossessionata dall'idea che possa nascere uno stato curdo ai suoi confini, ma che non coincidono con lo scopo principale dichiarato dalla coalizione internazionale, cioè la lotta allo Stato Islamico. Se questo davvero è ancora l’obiettivo della coalizione, oppure, al contrario, si cerca di abbattere il regime di Bashar Assd e regalare un’affermazione agli Stati sunniti come una sorta risarcimento per l’accordo con Teheran sul nucleare.
Il presidente Tayyip Erdogan, dopo avere affondato il processo di pace con i militanti del Pkk di Abdullah Ocalan, propone adesso che i politici del partito filo-curdo Hdp collegati a “gruppi terroristici” siano spogliati della loro immunità parlamentare e bombarda a tutto spiano le postazioni del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) nel sud est della Turchia. La guerra per Erdogan rappresenta anche un’opportunità per regolare i conti interni dopo le elezioni del 7 giugno in cui l’Akp ha perso la maggioranza assoluta dopo 13 anni di incontrastato dominio, proprio a causa dell’ingresso in Parlamento del partito filo-curdo Hdp.
Non solo. L’accordo con gli Stati Uniti in base al quale la Turchia ha concesso la base aerea di Incirlik in cambio dell’insediamento di una fascia di sicurezza in territorio siriano appare una sorta di imbroglio diplomatico-militare. La Turchia autorizza soltanto i raid contro l’Isis ma l’intesa non comprende la copertura aerea ai miliziani curdi che combattono contro i jihadisti nel nord della Siria, almeno così affermano le fonti ufficiali del governo di Ankara.
Se così stanno le cose, gli americani dovranno raccontare ai curdi un’amara verità: che in cambio del coinvolgimento della Turchia, membro della Nato da 60 anni, hanno abbandonato, almeno in parte, la loro “fanteria” che combatte strenuamente da oltre un anno contro i jihadisti. Un deludente esempio di come esportare princìpi e valori occidentali dopo avere incensato l’”eroica resistenza” dei curdi di Kobane.
Ma i guai potrebbero non finire qui. L’intervento delle forze armate turche è appena iniziato è già gli arabi reagiscono con veemenza. Dura la presa di posizione del primo ministro iracheno Haider al Abadi, che ha bollato la campagna turca contro le postazioni del Pkk nel Nord dell’Iraq come «una pericolosa escalation e un assalto alla sovranità dell’Iraq». In un tweet Abadi ha assicurato comunque che Baghdad «si impegna a impedire qualsiasi attacco diretto verso la Turchia dall’interno dell’Iraq», e chiede ad Ankara di «rispettare le buone relazioni tra i due Paesi».
In difficoltà appare anche il leader del Kurdistan iracheno Massud Barzani, perfettamente cosciente che sono stati i peshmerga del Pkk a contribuire nell’estate scorsa alla controffensiva dei curdi contro l’avanzata dell’Isis che aveva occupato Makhmur, a mezz’ora di auto dalla capitale Erbil. Barzani appoggia i curdi siriani ma ha anche ottimi rapporti di affari con la Turchia verso la quale esporta gas e petrolio.
Il groviglio turco-siriano-iracheno si complica sempre di più. Preoccupata la Germania, anche per motivi di politica interna, avendo una forte presenza curda in casa. In una telefonata il ministro degli Esteri tedesco, Walter Steinmeier, ha concordato con Massoud Barzani sul fatto che «il Pkk e la Turchia debbono riprendere il processo di pace». Ma sembrano affermazioni di prammatica di una diplomazia, quella europea, più preoccupata di compiacere la Turchia che di combattere il Califfato.
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