di Roberto Prinzi
“Le Alture del Golan resteranno sempre nelle mani d’Israele”. A dichiararlo è stato ieri il premier israeliano Benjamin Netanyahu
durante la consueta riunione di inizio settimana che l’esecutivo di
estrema destra ha avuto però questa volta, per la prima volta, proprio
nel Golan. Come ci ha abituato in questi anni, il premier non ha usato
troppi giri di parole per esprimere le sue intenzioni: “Israele
non si ritirerà mai da qui. Ci sono due semplici fatti che devono essere
ammessi: il primo è che qualunque cosa ci sarà al di là della frontiera
[in Siria, ndr], il confine non cambierà. Il secondo è che dopo 50 anni
è giunta l’ora che la comunità internazionale riconosca le Alture del
Golan sotto la sovranità israeliana”.
Una dichiarazione non molto sorprendente, ma che assume più
importanza se si va al di là del significato letterale delle parole. Il
premier, infatti, ha voluto mandare tre messaggi ieri. Innanzitutto, ha
smentito le voci secondo cui Tel Aviv sarebbe pronta alla cessione del
“suo” territorio. Una possibilità che non è assolutamente presa in considerazione dai vertici israeliani.
Il secondo era diretto alle voci riottose all’interno della sua
coalizione che lo accusano da tempo di essere troppo “debole” con i
palestinesi. Il suo è stato un vero e proprio atto di forza:
ribadire a gran voce che l’unico e vero difensore dell’incedibilità
dell'”Eretz Yisrael” (“la Terra d’Israele) è stato e resta solo lui. Che
si astengano, pertanto, dall’impartire lezioni di inflessibilità contro
i “nemici” dello stato ebraico i vari Bennet (Casa Ebraica), Lieberman
di “Yisrael Beitenu” (attualmente fuori dal governo) o le figure
emergenti del suo stesso partito. Il terzo, di importanza ancora maggiore, alla comunità internazionale:
in qualunque futuro processo negoziale con i palestinesi e qualunque
entità si verrà a creare in Siria post-guerra, mettetevi il cuore in
pace perché Tel Aviv non restituirà nemmeno un palmo di terra che ha
occupato nel 1967. Con buona pace dell’Unione Europea, Nazioni Unite e
di quei politici del centro sinistra israeliano (ma ora lo fanno sempre
più di meno anche loro) che continuano a recitare come mantra la
formula “pace in cambio di terra”.
Ma il leader di destra ha forse voluto mandare anche un terzo
messaggio più velato ai suoi partner “ribelli” siriani dall’altro lato
del confine: no alla presenza “minacciosa” di milizie Hezbollah
o iraniane in quel lembo di terra che vi resta (un timore ripetutamente
sbandierato dalle autorità israeliane in questi anni di caos siriano).
Del resto, come spiegò con chiarezza qualche mese fa il ribelle siriano
(rinnegato?) Kamal al-Lawbani, dall’altro lato del Golan non pochi
concordano con il premier israeliano.
Torna, dunque, in prima pagina la questione delle Alture del Golan la
cui occupazione (e annessione) israeliana la gran parte della stampa e
dei governi occidentali spesso tende a “dimenticare”. Lo stato ebraico
confiscò 1.200 chilometri quadrati di terra del Golan dalla Siria
durante la Guerra dei Sei Giorni (1967) annettendoli successivamente in
una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.
Le parole di Netanyahu rappresentano una nuova implicita intromissione israeliana nel sanguinoso conflitto siriano. La posizione di Tel Aviv su quanto accade in Siria è stata solo apparentemente di guardinga attesa:
Tel Aviv ha sostenuto l’indebolimento del presidente Bashar al-Asad sin
dall’inizio del conflitto sebbene non lo abbia mai espresso
pubblicamente. Gran parte dello spettro politico israeliano (e della
carta stampata) ha fatto il tifo per l’indebolimento del regime Ba’ath
caldeggiando un “caos controllato” (che non necessariamente avrebbe
dovuto portare alla sua caduta). Al-Asad è figura sgradita negli
ambienti israeliani: non tanto perché rappresenta una minaccia allo
stato ebraico – al di là della retorica pro-palestinese, da quando è
salito al potere nel 2000 non sono stati registrati grossi problemi al
confine siro-israeliano – ma perché è uno strenuo alleato dell'acerrimo
“nemico” (l’Iran).
Israele ha più volte bombardato il territorio siriano (fatto
riconosciuto ufficialmente solo la scorsa settimana dal premier)
colpendo convogli di armi diretti a Hezbollah ed eliminando,
recentemente, il “terrorista” Samir Qantar (eminente figura dei libanesi
di Hezbollah) in un raid nei pressi di Damasco. Israele,
inoltre, proprio dal Golan, ha fatto passare centinaia di
combattenti ribelli siriani (alcuni di questi anche estremisti) per
curarli nei suoi ospedali nel nord del Paese. Una decisione,
quest’ultima, che ha scatenato violente proteste da parte della comunità
drusa d’Israele che sostiene il presidente siriano al-Asad e teme (non a
torto) che una eventuale conquista del potere da parte di forze
islamiste possa segnare l’inizio della loro mattanza. Incontrando di
recente il Segretario di Stato John Kerry, il premier israeliano ha
detto di non “opporsi ad un accordo diplomatico in Siria”. Ovviamente,
sia chiaro, “a patto che questo non comprometta la sicurezza dello stato
d’Israele”.
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