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18/04/2016

La realtà senza scorciatoie

Di “analisi della sconfitta” ne è pieno il senno del poi della sinistra da qualche decennio a questa parte. E’ d’altronde inevitabile fare i conti con un arretramento costante che non lascia spazio a illusioni di rivincita o di tenuta: raccontarci chiacchiere consolanti, magari per risollevarci il morale, continua ad essere la disciplina olimpica dei compagni, che però non cambia la dura realtà dei fatti. Le continue sconfitte elettorali sono lo specchio di questo arretramento. Il referendum di ieri non fa allora storia a sé, si situa piuttosto in un solco decennale.

Da qualche tempo c’è la convinzione, da parte di una certa sinistra, che lo strumento referendario possa essere utilizzato come strumento che attivi partecipazione o addirittura mobilitazione politica. Tale capovolgimento della realtà, che avviene peraltro ad ogni tornata elettorale, si scontra puntualmente con i dati di fatto di una realtà che certifica la marginalità sociale e dunque politica di ogni espressione organizzata nel campo delle sinistre. Il referendum, esattamente come la candidatura elettorale, dovrebbe al contrario certificare un processo politico, una mobilitazione, l’ultimo passaggio attraverso cui attestare un rapporto di forza nella società. Il referendum è un termometro delle diverse spinte sociali; viene al contrario utilizzato come termostato, capace secondo alcuni di regolare la temperatura e non di misurarla. Stravolgendo questo rapporto di causa-effetto, si cerca di rianimare il cadavere a valle e non a monte, attraverso espedienti legali o giuridici, che sono utili quando servono a sedimentare giuridicamente i frutti di una mobilitazione, ma divengono inutili o controproducenti se confermano l’opposto, ossia l’irrilevanza politica. Tentare la via delle campagne d’opinione bypassando una presenza sociale è la scorciatoia che ha sempre portato alla sicura sconfitta in quest’ultimo trentennio. Tentare di spostare le convinzioni di un’opinione pubblica controllata militarmente dai media mainstream – televisioni, radio, giornali, social network – attraverso qualche trovata cabarettistica su facebook, è come minimo velleitario, magari romantico ma sicuramente perdente.

Nel caso odierno la questione non è mai stata sulla giustezza o meno del quesito, ma sulla forza che si ha per proporlo e ingaggiare una battaglia che non aveva alcuna possibilità di successo. Si può giocare il jolly – vale per il referendum come per le candidature improponibili di questi anni – ma se si è marginali nella società non si potrà raccogliere altro che una sconfitta. Farsi contare quando si è pochi e male organizzati non è decisamente una prova d’intelligenza, e neanche di coraggio. L’idea che le elezioni rispondano alla logica delle lotterie – ci provo, magari mi va bene, eleggo qualche deputato o vinco qualche referendum impossibile, e così riacquisto credibilità nella società – potrebbe valere se nel frattempo se ne fosse azzeccato uno di tentativo. Si dirà dei quattro referendum su acqua e nucleare del 2011. Vero, se non si tenesse in conto che tre mesi prima uno tsunami in Giappone aveva travolto una centrale nucleare provocando la perdita di radiazioni e l’esodo di una popolazione. Certo: se in questi due o tre mesi una qualche trivella avesse provocato qualche disastro ambientale rovinando l’ecosistema italiano, avremmo sicuramente avuto qualche chance di vittoria. Ma affidarsi a questo, si converrà, significherebbe abdicare a qualsiasi ruolo politico, seguire gli istinti massificati, inseguire populismi o le cabale: affidarsi al caso, insomma.

Ci sarebbe poi anche un ragionamento da fare su questa mitologia della democrazia referendaria à la Svizzera. L’idea di una cittadinanza che si esprime direttamente su una larga varietà di temi, scavalcando qualsiasi mediazione politica organizzata, è presuntamente più democratica, ma in realtà rappresenta una regressione notevole rispetto alla sostanza della democrazia. L’opinione pubblica è una costruzione artificiale, non un campo neutro da conquistare. Le idee che si formano sono veicolate da specifici agenti preposti, dai media generalisti ai messaggi culturali meno espliciti ma che agiscono più in profondità. Pensare che una costruzione del genere, che è saldamente in mano ai centri di potere ultra-capitalisti monopolisti, possa essere potenzialmente contendibile, rientra nel velleitarismo di cui sopra. Senza presenza sociale organizzata, senza internità nelle contraddizioni generali della società, ma anche – più semplicemente – senza una mobilitazione in corso, il campo mediatico è l’unico percorso ma è per definizione fuori dalla nostra portata. L’assenza di soggetti intermediari attraverso cui formarsi un’opinione politica, una visione del mondo, un’idea specifica su questo o quel tema, porta al populismo odierno, all’assenza di strumenti culturali e politici per far fronte al flusso ininterrotto di messaggi palesi e subliminali che costruiscono opinione pubblica. Il referendum può essere dunque uno strumento praticabile, così come le elezioni. Ma se il campo entro cui si gioca la partita è unicamente quello mediatico dell’opinione pubblica, bisogna chiarirsi: non vinceremo mai. A meno che una qualche tragedia concentri per un momento l’attenzione di “elettori”, altrimenti assuefatti e rassegnati alla mobilitazione social.

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