Nonostante il doppio turno sia stato ormai introdotto dal 1993 spesso ci si dimentica che i risultati, a 15 giorni di distanza tra la prima e la seconda elezione, possono portare significati politici diversi. Due esempi recenti: la vittoria della Le Pen al primo turno delle regionali francesi e quella di Hofer, sempre alla prima tappa elettorale, alle presidenziali austriache. In entrambi i casi, con la sconfitta delle destre, il secondo turno ha cambiato il senso della tornata elettorale. Nel caso delle amministrative 2016 il risultato del secondo turno, e non solo perché si assegna la carica di sindaco, cambierà, e non di poco, la lettura dell’intera campagna elettorale locale di quest’anno. Se lo schieramento renziano potesse vantare un 3-2 nelle grandi città, contenendo la probabile sconfitta di Roma e quella di Napoli, la lettura di queste elezioni di giugno avrebbe un significato molto meno pesante, quando non positiva, per il presidente del consiglio. In caso di manita, un secco 0-5, invece già si anticiperebbero i segni della disfatta autunnale per un presidente del consiglio che così avrebbe presto mostrato tutti i limiti di tenuta, credibilità e strategia.
Non è quindi certo un caso che Il Messaggero, testata che non si sottrae ai giochi di corridoio di Palazzo Chigi, abbia fatto circolare l’ipotesi di un governo di unità nazionale in autunno. Quando, dopo l’eventuale caduta di Renzi successiva al referendum di ottobre, ci sarebbero bersaniani, forzisti e grillini pronti a fare un governo che traghetterebbe il paese alle elezioni, riscrivendo la legge elettorale. Una boutade giornalistica, ovviamente, ma utile a far capire a Renzi che le conseguenze, in caso di mancata tenuta politica tra amministrative e referendum, potrebbero essere fatali. Oltretutto il governo ha di fronte a sé la consueta estate calda delle borse, della finanza e delle banche e una serie di emergenze sociali da governare. Sempre se non ci sarà Brexit e se questa, nel caso, sarà ordinata. Insomma, per Renzi sono arrivati i momenti duri. Persino un serio alleato nel PD come Fassino ha ammesso, come Merola a Bologna, che il calo elettorale va messo in rapporto con la crisi economica e sociale.
Renzi, siccome ufficialmente la crisi economica non esiste più, ha provato a buttarla sul fatto che il Pd non è ben organizzato facendo la parte di quello che pretende che le cose vadano meglio. Avendo la doppia carica di segretario del partito e presidente del consiglio, una rarità nella storia repubblicana, dovrebbe pretendere molto di più da sé stesso, riconoscendo le proprie responsabilità. Ma non è un gioco di quelli che piacciono a mister 80 euro. Il significato sociale, e quindi politico, del voto nelle grandi città è abbastanza chiaro. Lasciando a parte la vicenda bolognese, dove la tradizionale mediazione sociale del centrosinistra è venuta meno ma non si escludono margini elettorali di recupero, l’Italia appare davvero spaccata in due. Il traino economico degli anni pre-crisi – la sinergia tra mattone, banche e servizi – mantiene tratti di governo al nord. A Milano, dove due manager si contendono il dopo-Expo, e a Torino dove, però, il PD con Fassino fa molta più fatica ad affermarsi dopo anni di “razionalizzazioni” di un modello moneta-servizi-costruzioni che sente i morsi della crisi e di tagli al welfare.
Nel centro-sud sull’esplosione di questo modello si sono inseriti, come riflesso sociologico da leggere nel primo turno, sia la vittoria di Raggi che di De Magistris. Due esempi davvero differenti di classe dirigente del centrosud ma con un tratto comune: provare ad imporsi sulle macerie del modello precedente. Di una bolla banche-finanza-servizi governata al sud in modo peggiore che al nord. De Magistris, pur non avendo trasformato una metropoli complessa come Napoli nella Pittsburgh del Tirreno, ha dato risposte positive sul piano dei servizi. La Raggi si trova, con tutto il movimento 5 stelle, di fronte alla grande prova di governo. Qualcuno, e ci riferiamo a qualche giornalista di quel foglio anticomunista che è diventata L’Unità, ha provato a sminuire il risultato di Roma. Ma c’è poco da dire: governare Roma regala una visibilità globale, la Raggi è stata già presentata dall’Economist e dal Financial Times. Se il movimento 5 stelle si attesta lì, Renzi ha perso una battaglia strategica. Certo, il M5S deve mostrare d'avere idee molto chiare sul da farsi, e su dove mettere le mani, su cosa proporre ai romani. Roma è una metropoli globale, in crisi e complessa. Dovrà avere idee chiare sul governo delle periferie, sui servizi e su come generare economie in una metropoli che appare sfiancata. Altrimenti i contraccolpi, a livello nazionale, potrebbero essere anche violenti.
De Magistris, invece, si sta candidando come punto di riferimento nazionale per varie sensibilità di sinistra. Partendo dai territori. Non sarebbe, nel caso che questa candidatura fosse praticata fino in fondo, un percorso facile. Il rischio è quello di fare il Pisapia, l’arancione dai progetti compatibili che finisce velocemente ostaggio delle banche e delle grandi imprese, o lo Tsipras dove la resa, e la marcia indietro, è gravemente clamorosa. Naturalmente alla sinistre si chiede non solo di governare, e dal basso, ma anche di innovare, generando economie e nuovi servizi, non di fare il bertinottismo di ritorno: la tattica di una opposizione-parcheggio in attesa di una nuova alleanza di centrosinistra per redistribuire risorse che non ci sono. Se De Magistris ha chiaro questo è evidente che una sua ascesa nazionale è auspicabile. In un disastro Italia le cui dimensioni (tra caduta del pil dal 2008, della produzione e aumento della povertà) non sono chiare solo perché la connessione mediale, quella che regala unità sociale ad un paese ed è in preda alla propaganda, è stata ben attenta ad occuparsi di altro.
Potrà Renzi subire la manita? E’ difficile ma nessun risultato per Renzi è in porto. Se accadesse, probabilmente avrebbe vita dura già a giugno, altro che settembre. Anche un bel 4-1, salvando la sola Bologna (che comunque, a parte il ’99, è una piazza che per il Pd è scontata) sarebbe un risultato molto duro per il governo. Anche perdere la sola Milano, dopo l’investimento fatto con Sala presso i poteri lombardi che contano, per Renzi suonerebbe come qualcosa di sinistro. Comunque, in attesa del risultato che conta, quello del secondo turno, è evidente che il renzismo non ha attecchito nei territori. Non fosse altro perché anche a Novara e a Savona, dove si presentavano candidati renzianissimi su territori al di fuori dei riflettori, non è andata bene. Se ad un certo punto, tra i poteri che contano in Europa, ci si renderà conto che il prodotto Renzi va ritirato dal mercato non c’è da dubitare che la cura riservata a Berlusconi, nel 2011, potrebbe trovare ripetizione. Certo stiamo sempre parlando di una Europa che ripete sempre se stessa, e le proprie crisi, ma in politica le alternative si preparano. E, sul piano dell’alternativa, siamo ancora al grado zero della crisi italiana ed europea.
Redazione, 6 giugno 2016
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