L’equivoco di fondo insito nel concetto di “sinistra” e soprattutto nella sua configurazione concreta, qui in Italia e in tutta Europa, si è manifestato come separazione assoluta tra mondo delle idee “perbene” considerate “di sinistra” e involuzione delle condizioni di vita di lavoratori, disoccupati, pensionati, precari, studenti, neet, ecc. Non più un progetto di liberazione ed emancipazione dallo sfruttamento, innervato da una lettura scientifica dell’evoluzione sociale e fatto proprio come prospettiva dalle classi sfruttate, ma un piccolo catalogo di “regole di buona creanza”, tipico di un ceto medio “riflessivo”, più o meno acculturato e sostanzialmente ben integrato nel sistema vigente.
Le classi sfruttate reali, abbandonate da quelle che fino ad un certo punto erano state le istituzioni del movimento operaio (partiti, sindacati, intellettuali impegnati in programmi di ricerca politicamente orientati, ecc), hanno perso la bussola ideologica senza però smarrire la percezione sensibile dei propri interessi. Reagendo spesso in modo distorto, incoerente, rabbioso o rassegnato.
Non è la prima volta che accade nella Storia. Ma non si può imputare alla classe di avere idee “sbagliate”. Sono insomma le avanguardie politiche, i comunisti, che devono produrre ex novo idee “giuste” e farle diventare patrimonio condiviso del blocco sociale che intendono rappresentare. E non si tratta davvero di un “percorso pedagogico”, perché questo risultato si produce solo attraverso un processo conflittuale che è – in ogni istante – “impuro”.
L’alternativa è darsi ragione da soli, persi nella terra di nessuno tra il potere e “le masse”. L’alternativa politica, insomma, è rinunciare a organizzare e rappresentare “i nostri” e lasciarli andare, passo dopo passo, in mano alla reazione mascherata da “cambiamento”.
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Chi attende una rivoluzione “pura”, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione. (V.I. Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione)
Il referendum britannico, i risultati delle recenti elezioni amministrative in Italia, il palese broglio consumato nelle elezioni presidenziali austriache, finalizzato a neutralizzare la probabile vittoria della destra nazionalista, e le imponenti mobilitazioni antigovernative in Francia mostrano come grande sia il disordine sotto il cielo. A ciò si aggiunge, e non è proprio cosa da poco, la non secondaria possibilità che a vincere le elezioni negli USA sia un personaggio quale Trump, la cui vittoria, nel caso, più che poggiare sul razzismo e sul sessismo, potrà contare sull’adesione non secondaria di proletariato e ceti medi impoveriti bianchi, attratti da un programma politico finalizzato a ridimensionare il potere della finanza e delle multinazionali, a rimettere la produzione industriale al centro delle politiche economiche statunitensi, oltre all’avvio di politiche dichiaratamente liberal in materia di welfare. Su ciò Trump ha costruito la sua fortuna, scompaginando tutti gli assetti politici repubblicani e democratici che, andando al sodo, non sembrano differenziarsi di molto gli uni dagli altri. Tutti gli eventi elencati, pur nella evidente diversità, appaiono accomunati dalla medesima aria di famiglia: l’irrompere prepotente delle masse subalterne sulla scena storico – politica. Questo, ancor prima di prendere in considerazione il modo in cui tale protagonismo si manifesta, sembra essere il nocciolo della questione.
Di fronte a questi scenari, abbiamo visto come le élite internazionali, seppur in altri contesti in guerra mortale le une con le altre, si siano unite al fine di scongiurare un ritorno sulla scena politica delle masse subalterne. Proprio questo, a conti fatti, appare il vero problema delle classi dominanti: chiudere definitivamente l’epopea delle società di massa relegando queste ultime nell’ambito dell’esclusione sociale e politica. Una linea di condotta che accompagna per intero la controrivoluzione ordoliberista diventata da tempo l’ideologia guida delle élite globali. Ma questa ipotesi ha qualche fondata realtà di imporsi come modello di governamentalità? È possibile, cioè, ipotizzare un modello sociale che, pur con tutte le tare del caso, sembra non distante dall’autocrazia? È possibile, nel mondo attuale, pensare di governare le masse subalterne come se queste fossero né più e né meno che dei servi della gleba? Ed infine, è possibile che tutto ciò avvenga senza che, tra i subalterni, sorgano movimenti di opposizione?
Se c’è qualcosa che le èlite non sembrano avere messo in conto è proprio il manifestarsi di una simile possibilità. Per quanto denso di disordini e conflitti, tanto che da venticinque anni le guerre non hanno fatto altro che proliferare in maniera esponenziale, dal mondo che le classi dominanti globalizzate avevano in mente doveva essere del tutto espunto il conflitto tra élite e subalterni. La realtà sta dicendo cose assai diverse. Certo le dice in maniera contraddittoria e distante da quanto qualunque comunista si sarebbe augurato ma, almeno per il momento, non è questo il punto. Centrale, piuttosto, è comprendere il senso di questa opposizione. Un’opposizione che, va tenuto a mente, presenta almeno due facce. Da un lato vi è tutto ciò che, a grandi linee, possiamo chiamare il fronte dell’Islam politico, dall’altro ciò che possiamo definire come neonazionalismo. Il primo ha fatto presa sia nei paesi dell’ex Terzo Mondo, come diretta conseguenza del sostanziale fallimento della decolonizzazione, sia tra i subalterni in “pelle scura” delle metropoli occidentali globalizzate; il secondo si diffonde nel mondo occidentale come reazione ai reiterati tradimenti dei partiti operai socialisti e comunisti. Le politiche ordoliberiste, in occidente, sono state fatte proprie da tutti i partiti di sinistra mentre, nei paesi ex coloniali, le élite al potere si sono velocemente allineate alle esigenza dell’imperialismo nella sua fase globale. Nasce esattamente da qui quel fenomeno di riscatto alienato che accomuna, pur all’interno di contenitori diversi, le masse subalterne bianche e quelle in pelle scura. Tutto questo, in realtà, non sembra essere una grossa novità. In Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Marx evidenziava il duplice aspetto che l’alienazione religiosa, in quanto oppio dei popoli e gemito degli oppressi, incarnava. Si tratta di un’asserzione che non basta assumere, e ripetere meccanicamente quasi fosse un versetto biblico o coranico, bensì deve essere compresa per intero. In poche battute Marx offre un’esposizione e una sintesi non secondaria della dialettica materialista. Per un verso, nel momento in cui afferma che la religione è l’oppio dei popoli, sembra rifarsi appieno alla tradizione razionalista e illuminista, in contemporanea, però, coglie un aspetto del pensiero religioso che sfugge per intero alla teoria e alla filosofia borghese: l’altra faccia dell’oppio dei popoli è il gemito degli oppressi ovvero il bisogno di riscatto degli oppressi che, in assenza di una prospettiva storico – politica, può darsi solo in maniera alienata.
Marx, pertanto, coglie i due poli del momento religioso senza assolutizzarne alcuno, ma osservandoli nel loro movimento dialettico. In questo senso sarà tanto distante dalla critica razionalista, propria della borghesia rivoluzionaria, quanto al socialismo piccolo borghese e utopico di ispirazione cristiana. Ciò che, andando al sodo, a Marx preme evidenziare è il bisogno dei subalterni di trovare una via per l’emancipazione. Se la religione fosse solo e unicamente un oppiaceo, avrebbe ben poco di interessante per la teoria comunista e il proletariato rivoluzionario, ma se questa rappresenta anche la richiesta di emancipazione ecco che i giochi si complicano e che, verso il gemito degli oppressi, la teoria e il partito d’avanguardia devono mostrare un atteggiamento e una linea di condotta che non possono essere quelli dei filosofi borghesi. Ciò che Marx riscontra è quel eppur si muove che fa sfondo al divenire storico del quale le masse sono, per quanto spesso in maniera inconsapevole, la sola e vera forza motrice. Per quanto in maniera alienata la religione mostra pur sempre un bisogno di emancipazione radicale delle masse: questo il punto.
Quando Marx scrive queste note critiche alla filosofia del diritto di Hegel, la religione, e in particolare le diverse sfaccettature assunte dal cristianesimo (non vanno dimenticati al proposito i vari movimenti ereticali che, per lo più, fanno da sfondo alle rivolte contadine e plebee), sono l’unico orizzonte alienato all’interno del quale si ascrivono le aspirazione di redenzione dei subalterni. Siamo nella prima metà dell’Ottocento, un’epoca in cui le società di massa sono del tutto impensabili. In tale scenario l’unica “politica sociale” e ”inclusiva” concepibile per le classi dominanti poggia unicamente sulla forza delle baionette. Nella stessa Francia gli echi della Marsigliese sono stati in gran parte oscurati dalla controrivoluzione, la quale per prima cosa si è preoccupata di riporre in soffitta quell’idea di Nazione declinata in chiave progressiva e rivoluzionaria che la Grande rivoluzione aveva tenuto a battesimo. Non stupisce, pertanto, che Marx si soffermi unicamente sulla religione, senza prendere in considerazione altre forme e contenitori entro i quali il gemito degli oppressi trovi una qualche modalità, per quanto alienata, di manifestazione. Nel Novecento, però, qualcosa cambia e il nazionalismo diventa, per molti versi, il nuovo oppio dei popoli. Di ciò ne saranno ampiamente testimoni i diversi movimenti della “destra radicale” che proprio sul nazionalismo popolare e plebeo costruiranno le loro fortune. La “destra radicale” sfruttò al meglio quel ressentiment, tanto disprezzato dalle élite (basti ricordare cosa scrive Nietzsche al proposito), che portava i subalterni a osservare il mondo con rancore e dal basso, sognando, a occhi aperti, di sovvertirlo e rovesciarlo. Su ciò, come è abbondantemente noto, fecero leva i fascismi. Rancore e ressentiment trovarono nel nazionalismo la propria palingenesi.
Se veniamo al presente è facile osservare come ci troviamo di fronte a qualcosa di non troppo diverso. Nei nostri mondi i movimenti radicali di destra stanno conoscendo, tra i subalterni, un non secondario successo. Liquidare tutto ciò come neofascismo tout court è quanto meno inopportuno. Più realisticamente e sensatamente, in questo caso occorre riportare alla mente ciò che sono stati i “fascismi delle origini” ossia quell’insieme di movimenti, la cui principale gestazione teorica e politica è maturata soprattutto tra l’intellettualità radicale francese. Essi si ponevano, facendo propri il rancore e il ressentiment di non secondarie quote di subalterni, l’obiettivo di sovvertire le istituzioni legittime, di qua i suoi tratti decisamente anti – sistema. I “fascismi delle origini” si ponevano l’obiettivo di superare la contrapposizione destra e sinistra, considerate entrambe parti cointeressate al mantenimento di un sistema politico e istituzionale considerato iniquo, per rimettere in sella un’idea di popolo che nella Nazione trova l’unico e fondato senso di appartenenza e identità. Sarà una Nazione che, certamente, non avrà più nulla di quel carattere progressivo e rivoluzionario proprio dell’89 (anzi saranno proprio i principi universalistici dell’89 a venir posti sotto accusa) ma che, proprio in virtù di ciò, sarà in grado di costruire un immaginario di massa, fondato sul sangue, il suolo oltre a una riattivazione mitica della tradizione (declinata sempre in chiave popolare e mai élitaria), capace di catturare entusiasmi e consensi proprio tra le parti della popolazione che occupano i gradini più bassi della società.
Movimenti eclettici e privi di solide basi teoriche, filosofiche e ideologiche i “fascismi delle origini” attinsero, senza alcun scrupolo, da tutte le teorie politiche maggiormente consolidate, finendo con il confezionare un “progetto politico” all’interno del quale, in molti, potevano trovare sempre qualcosa con cui identificarsi. Collante di tutto ciò era l’odio nei confronti di un sistema percepito sostanzialmente come Nemico. Sappiamo che questi movimenti, nonostante il seguito non indifferente di cui potevano vantare, rimasero politicamente esclusi sino a quando, in alcuni contesti come l’Italia e la Germania, le borghesie imperialiste decisero di puntare su di loro. A quel punto i “fascismi delle origini” abiurarono i loro tratti popolani e plebei, per diventare gli agenti a tutto tondo della dittatura del grande capitale industriale e finanziario. Una storia ampiamente nota della quale i fascismi tradizionali non sono in grado di liberarsi. Infatti, dal Secondo dopoguerra in poi i fascismi sono stati il braccio armato non convenzionale delle classi dominanti e ciò sembra essere quanto mai chiaro ed evidente alla maggioranza della popolazione la quale, anche nel momento in cui sono saltati tutti i contenitori ideologici, ha consegnato al limbo del minoritarismo permanente tutte le reincarnazioni neofasciste. Nel nostro paese ciò appare quanto mai evidente. Tanto i fascisti tradizionalisti come Forza nuova, quanto i fascisti “postmodernisti” di Casa Pound, per non dire della restante galassia neofascista, non sembrano essere in grado di svolgere una funzione politica di una qualche consistenza, mentre un movimento populista come il 5S, non etichettabile come neofascista ma che incarna appieno le retoriche proprie del “fascismo delle origini”, è diventato una forza politica di peso tanto da porsi come il primo partito nazionale. In Inghilterra accade qualcosa di non dissimile, mentre in Francia, il Front National, riscuote, almeno sul piano elettorale, consensi non irrilevanti proprio nel momento in cui fa interamente sue le retoriche, “né destra, né sinistra”, “popolo e nazione”, proprie di quel “fascismo delle origini” tenuto a battesimo proprio su suolo francese. Sulla Francia, in quanto paese che sintetizza e cristallizza tutte le contraddizioni dell’imperialismo globale, occorre soffermarsi.
Proprio in Francia, infatti, troviamo la gamma completa di tutte le forme di opposizione all’imperialismo globale. L’Islam politico che ha catturato non poco consenso tra i francesi di “pelle scura”, il Front National che raccoglie, in chiave nazionalista, il rancore di quote non secondarie di popolazione bianca e un fronte di massa anticapitalista che, a partire dalla contestazione del jobs act francese, ha mobilitato milioni di proletari e subalterni con manifestazioni che, tra l’altro, hanno posto all’ordine del giorno l’organizzazione della violenza di massa. Chi scrive non ha elementi in mano per spingersi oltre l’ambito descrittivo ed è pienamente cosciente del fatto che, nel contesto, azzardare qualcosa di più farebbe ricadere il tutto in quella panacea buona per tutte le stagioni che è la profezia. Una tentazione che è sempre bene evitare. Detto ciò qualche considerazione è pur sempre possibile fare.
In Francia ciò che sicuramente emerge è, da un lato, il sempre più alto grado di isolamento in cui versano le élite globalizzate, dall’altro la complessità, insieme alle non secondarie contraddizioni, che il fronte che possiamo definire anti – élite si porta appresso. Da un lato abbiamo l’ambito dell’Islam politico radicato soprattutto nella banlieue dove, però, non proprio irrilevante è anche la presenza dei casseur i quali, anche nelle ultime manifestazioni di piazza, si sono mostrati particolarmente attivi, nonché militarmente efficaci. Dall’altro abbiamo il Front National, la cui crescita elettorale è sicuramente considerevole, ma, al momento, non sembra in grado ad andare oltre l’ambito parlamentare il che, detto per inciso, in una situazione obiettivamente esplosiva come quella francese potrebbe condannarlo a un corposo ridimensionamento. Infine, ma non per ultimo, si assiste al riemergere di un fronte di classe dalle cui battaglie potrebbe prendere forma un movimento politico rivoluzionario in grado di catturare il consenso di quei milioni di operai e proletari ormai estranei alla politica, erodere consensi alla componente proletaria del Front National e, non per ultimo, offrire una sponda politica antagonista e rivoluzionaria a quel proletariato in “pelle scura” attratto dalle sirene islamiste. Sia come sia appare evidente che, in Francia, l’utopia reazionaria delle classi agiate globalizzate, che sognavano di archiviare le società di massa, non solo è scossa, ma pesantemente incrinata. In Francia abbiamo schierate sul campo e in maniera piuttosto agguerrita, tutte le possibili forme di opposizione al dominio delle élite, che non solo mostrano di avere numeri rilevanti in potenza – questo era quanto mai evidente da tempo osservando il distacco di massa dalle retoriche istituzionali, elezioni in primis – ma sembrano averlo, ed è ciò che alla fine conta, in maniera organizzata. Palesemente gran parte della banlieue in “pelle scura”, in un modo o nell’altro, è fuori controllo; una parte di vecchia classe operaia, pensionati e piccola borghesia impoverita e proletarizzata si è radicalizzata in chiave nazionalista anche se non è detto, e sarebbe importante avere dati al riguardo, che simpatizzi o partecipi alle attuali lotte di strada; giovani neoproletari, studenti, operai, banlieuesard hanno dato vita a un movimento il cui segno anticapitalistico è difficilmente confutabile.
In poche parole, in Francia, tutti i nodi dell’imperialismo globale stanno venendo al pettine. Come evolverà la situazione dipenderà anche da noi. Da come sapremo, in quanto avanguardie comuniste, stare dentro le contraddizioni e piegarle verso gli obiettivi storici del proletariato. Ciò apre a un dibattito e a una prassi che non può certo essere compreso in queste scarne note. Quello che però è necessario e opportuno evidenziare è l’oggettiva debolezza in cui versa il progetto reazionario delle élite globali. Le società di massa non possono essere abolite per decreto così come, la società e i mondi sociali, non possono essere cancellati attraverso un’asserzione. Questi inevitabilmente ritornano. Il fatto che ciò, in non pochi casi, assuma le vesti dell’alienazione non può essere un buon motivo, con un atteggiamento del tutto simile alla sinistra salottiera ancorché ammantato di purismo rivoluzionario, per ignorarlo o guardarlo con disprezzo. Con le contraddizioni egemonizzate dalla destra radicale e nazionalista così come, per altro verso, con quelle interne all’Islam politico occorre sapersi confrontare. La crisi delle élite globali pare evidente: lì bisogna, con ogni mezzo necessario, imparare a essere protagonisti e per esserlo è indispensabile, per lo meno, fare interamente propria quella lezione di dialettica materialista presente nella ricordata Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Ciò che è vero per la religione, vale, tanto quanto, per il nazionalismo. La dialettica materialista o è una guida per l’azione o non è. Hic Rhodus, hic salta.
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