Diciamo che non è proprio normale. Pochi giorni dopo che Boris Johnson aveva rinunciato a candidarsi alla guida dei Tories, anche l’altro “vincitore” del fronte Brexit decide di dimettersi.
Nigel Farage, fondatore e leader dell’Ukip, partito nazionalista con forti connotazioni razziste, ha annunciato le sue dimissioni da segretario del partito. “Ho deciso di mettermi da parte come leader dell’Ukip”, visto che “la vittoria del Leave nel referendum significa che ho raggiunto la mia ambizione politica”.
Assolutamente stupefacente la motivazione ufficiale: «Sono entrato in questa lotta per l’indipendenza perché volevo che fossimo una nazione autonoma, non per diventare un politico in carriera». Di più: «Durante il referendum volevo indietro il mio Paese, adesso rivoglio la mia vita. Ho raggiunto il mio obiettivo politico».
Difficile vedere in Farage un novello Cincinnato che, vinta la guerra, si ritira in campagna. Sta di fatto che, diversamente da Johnson, popolarissimo ma poco amato dall’establishment del suo partito, Farage non aveva praticamente rivali interni. Quindi nel suo caso non può esistere alcuna ragione politico-partitica che ne giustifichi le dimissioni, perché – da che mondo è mondo – un vincitore non si ritira prima di aver assunto, o aver provato a farlo, la guida della fase per cui si è battuto. Se non altro per esser certo che il risultato non venga stravolto e rovesciato strada facendo.
I quotidiani mainstream ricordano che non è la prima volta che Farage annuncia le dimissioni. Un anno fa le aveva avanzate dopo il voto alle elezioni politiche, andato ampiamente al di sotto delle aspettative. In effetti, per le abitudini inglesi, perdere è un buon motivo per farsi da parte. In quel caso, però le aveva ritirate poco dopo su richiesta del suo stesso partito. Oggi non hanno alcun senso, dunque la motivazione personale – “rivoglio la mia vita” – era l’unica spendibile.
Giustamente i media ricordano anche la frase che pochi giorni fa, a Strasburgo, gli era stata rivolta da Jean-Claude Juncker – presidente della Commissione europea (“il governo della Ue”) – in assemblea: “È l’ultima volta che lei viene qui ad applaudire”.
Era sembrato un normale scatto d’ira di un vecchio eurocrate che vedeva concretizzarsi i fantasmi di sfarinamento della costruzione comunitaria. Dopo le inspiegabili dimissioni di Farage, però, quelle parole suonano ora come una minaccia e una profezia, lanciata da uno che sa perfettamente quali forze governino davvero questa struttura costrittiva chiamata Unione Europea, e quali e quanti mezzi di “persuasione” siano disponibili per sbarrare la strada agli ingenui o agli arruffapopolo improvvisati.
I nostri lettori sanno bene che non siamo dietrologi e ci fanno ridere i complottisti. Ma non c’è dubbio che occorre mettere in fila i fatti e definire una chiave di lettura coerente. David Cameron si è dimesso e non aveva alternative, perché era lui il principale sconfitto dal voto referendario. Boris Johnson, come detto, aveva contro il suo stesso partito, alla pari di Jeremy Corbyn, neo segretario che l’81% dei deputati laburisti ha sfiduciato.
Ora Farage. Di fatto, i vertici della classe politica britannica sono azzerati (resiste a fatica il solo Corbyn, peraltro non euroscettico ma semplicemente pro-welfare) e ne deve essere selezionata un’altra. Lo stesso Farage, nell’annunciare il suo ritiro, dà un’indicazione finale ai suoi, auspicando che la lotta al vertice dei conservatori per scegliere il successore di Cameron sia comunque un sostenitore della Brexit.
In pratica liquida l’esperienza dell’Ukip e indica nel partito conservatore il contenitore più adatto a raccogliere i suoi seguaci, purché lì prevalga un minimo di “euroscetticismo”, in qualsiasi dose.
Una vera e propria moria di leader, specie pro-Brexit, con sullo sfondo l’immagine di Jo Cox, deputata laburista assassinata da un neonazista a pochi giorni dal voto (lei era per il remain, ma tutti si aspettavano che il suo assassinio avrebbe rovesciato la maggioranza, cosa poi non avvenuta per intero).
Non ci sembra insomma dietrologia, ma semplice constatazione politica, vedere un filo nerissimo che collega questa moria e “la sollevazione dell’élite contro le masse ignoranti”, che va da una radicale messa in discussione del suffragio universale (basta riascoltare le dichiarazioni a caldo di Mario Monti e Giorgio Napolitano per averne conferma) alla riduzione generale dei diritti politici (a cominciare da quello di manifestazione, come è accaduto in Francia), alla threatening suasion verso variabili “populiste” facilmente riconducibili all’ovile.
La democrazia parlamentare borghese non è più uno strumento utile per un capitalismo in crisi. Ed è tempo che anche gli euroscettici nazionalisti capiscano che non si stratta di un gioco per improvvisatori. Chi tocca l’Unione Europea muore. O comunque è meglio che si dimetta prima...
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