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04/07/2016

La strage di Dacca: allarme rosso!

Solo due giorni prima della strage di Dacca, c’era stato un analogo avvenimento ad Istambul al quale i mass media avevano prestato una moderata attenzione. Oggi i giornali dedicano intere paginate alla strage di Dacca, nonostante la coincidenza con l’eliminazione dell’Italia dagli europei. La diversità dell’atteggiamento non è dovuta ad una più attenta analisi del fatto che segnala un avvenimento più grave, ma semplicemente al fatto che buona parte delle vittime era di nazionalità italiana.

Naturalmente, trattandosi di connazionali la cosa desta più sensazione e, forse, addolora più della morte del doppio delle persone, ma di nazionalità turca o, comunque, di una pese di “selvaggi”, come non si scrive per decenza, ma si pensa in molte teste di redazione. Ma su un piano politico la notizia è molto più grave dell’eccidio di una ventina di persone che ovviamente ci ferisce e ci indigna.

Qui la notizia è che sta prendendo fuoco il sub continente indiano e la cosa è molto pericolosa. Il ministro dell’interno bengalese ha detto che il commando non è dell’Isis, ma è fonte interessata, perché il governo ha sempre smentito che ci fossero colonne jihadiste nel paese. L’isis, per la verità in modo un po’ più credibile, ha sostenuto che invece era una propria cellula. Ma anche loro sono una fonte interessata perché devono attribuirsi tutto quello che si muove sia per esercitare egemonia su tutta l’area jihadista, sia per dare una risposta all’offensiva che gli sta mettendo l’asta alla gola. Per cui prendiamo con le pinze anche questa dichiarazione.

Ci sarà tempo per capire di che si tratta, ma, in fondo è solo relativamente importante, perché il fatto grave è che la guerriglia islamista si sta estendendo a macchia d’olio. All’inizio si era trattato solo dei paesi arabi con l’appendice afghana ed il supporto pakistano, poi, man mano, sono entrati nella spirale Libia, Turchia, Mali, Somalia, Cecenia, Nigeria, ed ora stanno sbarcando in Bagladesh mentre nuvoloni assai neri si addensano sull’Indonesia. La cosa non è preoccupante ma estremamente preoccupante: si dà il caso che Pakistan e Bagladesh sono i paesi islamici più popolosi, contando complessivamente 600 milioni di persone, vale a dire quasi il quadrupolo degli arabi che, sin qui, hanno rappresentato il focolaio della guerriglia.

Anche in termini geografici la cosa è molto grave perché delinea un arco di crisi che, ormai, coinvolge tutta la “fascia dell’Islam” dall’Atlantico all’oceano Indiano con l’aggravante del terrorismo in Europa.

Ma la cosa più grave ancora è un’altra: questa esplosione rischia di riaccendere lo scontro religioso fra islamici ed hindù e, se le cose dovessero andare così, questo minaccerebbe l’esplosione del confine più caldo del mondo: quello indo-pakistano. E ricordo a tutti che sia India che Pakistan sono potenze nucleari.

Il punto è che Raqqua può anche cadere ed il Califfato essere demolito, ma questo non significa che la guerra all’Isis sia stata vinta. L’Isis tornerebbe alla guerriglia in Iraq-Siria, ma quel che è peggio, con un ascendente accresciuto dal “martirio”. Già oggi l’Isis è una formazione terroristica incomparabilmente più pericolosa di quel che fu Al Quaeda nel suo momento migliore. Bel risultato di 15 anni di guerre!

Veniamo a quel che ci riguarda più da vicino: l’attentato era diretto intenzionalmente contro gli italiani? E dunque è il segnale di un attentato in arrivo? Personalmente credo che il fatto che l’attentato sia stato consumato in un ristorante abitualmente frequentato da italiani può benissimo essere una coincidenza, ma il segnale non va ignorato del tutto.

Poco dopo la strage di Bruxelles l’Europol ed altri organismi di polizia lanciarono l’allarme su una ondata di prossimi attentati dell’Isis in Europa. Come dire che l’acqua bollente brucia e che al polo Nord fa freddo. Un’ovvietà che copre l’inefficienza della nostra intelligence nel contrasto al terrorismo islamico: da dicembre c’è stata un'ondata di attentati di quella marca nei più diversi paesi del mondo, dalla Turchia all’Indonesia, dal Burkina Faso all’Iraq, e alla Libia, che in un certo periodo ha avuto una cadenza quasi settimanale. Per quale motivo non dovrebbe succedere, in breve, in Europa, dato che non è cambiato nulla dall’attentato di Bruxelles?

Ma forse, trattandosi di attentati in paesi extraeuropei, l’Europol li considera una cosa normale e non si prende neppure cura di registrarli. In realtà il pericolo esiste ed è molto concreto: ci sono reti collegate all’Isis in tutta Europa pronte ad agire e, per di più, la nostra intelligence, sin qui, si è dimostrata in grado di prevenire attentati solo in una quantità di casi molto limitata, mentre abbiamo a che fare con un avversario diverso dal passato. Dove Al Qaeda privilegiava obiettivi grandi, ma con attentati rari e spettacolari, l’Isis punta sulla ripetizione intensiva di essi, anche se non particolarmente eclatanti. Il nuovo soggetto terrorista mira a fiaccare la resistenza psicologica dell’avversario attraverso quello che possiamo definire “un ordinario, quotidiano stato di terrore”. Dunque, è nell’ordine naturale delle cose (se non per ragioni oggi sconosciute) che in un futuro assai prossimo ci siano attentati anche nel nostro continente. Anche perché l’intelligence occidentale ha sbagliato totalmente l’impostazione di lotta e sta facendo esattamente il contrario di quel che andrebbe fatto: chiude i siti fondamentalisti anziché osservarli e studiarli, chiude le moschee “radicali” al posto di sorvegliarle per identificarne i frequentatori, si precipita ad arrestare la piccola cellula occasionalmente identificata invece di usarla per risalire a tutta la rete ecc.

Ed in Italia? Ci sarebbero ottime ragioni, per i fondamentalisti, per un attentato nel nostro paese (la presenza del vertice della chiesa cattolica, l’anno giubilare, il ruolo in Libia ecc.) però ci sono anche non poche ragioni ostative. In primo luogo, la presenza del Vaticano che è un obiettivo goloso, ma proprio per questo, tende a proteggersi utilizzando la sua sofisticatissima e capillare rete informativa.

In secondo luogo, l’Italia – soprattutto grazie all’Eni – ha una fitta rete di rapporti in medioriente ed affari e compromessi un po’ con tutti i paesi dell’area, si è costruita una sorta di ombrello di protezione targato Eni (anche se alcuno paesi come Arabia Saudita e Quatar non ci sono affatto amici).

In terzo luogo il “terreno” italiano è per costituzione sfavorevole al terrorismo per la presenza di una forte e ramificata malavita organizzata che, ovviamente, sarebbe disturbata, nei suoi traffici da misure straordinarie antiterrorismo come quelle che seguirebbero ad un grave attentato. C’è un precedente interessante, in questo senso: il terrorismo nostrano, fra i settanta e gli ottanta, fu sempre poco presente in Sicilia e Calabria, non a caso. Oggi il controllo territoriale della malavita, purtroppo, si è esteso ben oltre quelle due regioni.

E la grande malavita, peraltro ha un altro modo per ottenere che i terroristi passino per l’Italia, ma senza far danni: certamente non è estranea ai traffici di profughi, armi, foreign fighters, reperti archeologici e droga , dunque ha i rapporti di forza giusti per imporre condizioni.

Quindi, sinché questa copertura “extra istituzionale” regge, i rischi sono ridotti. Ma questo non significa che questa rete di protezione a tre (Vaticano, Eni e malavita) debba reggere in eterno, per cui conviene mettere nel conto che la probabilità di un grave attentato esiste anche per noi, anche se è minore che altrove.

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