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04/07/2016

Bangladesh: uno sguardo al di là della strage

Nei commenti alla strage di Dhaka, costata la vita a 20 persone – 9 italiani, 7 giapponesi, 2 bangladesi, uno statunitense e un indiano – sembra si sia volutamente taciuta la situazione sociale in cui si è sviluppata l’azione del commando terrorista. L’attività svolta in Bangladesh dalle vittime, non solo quelle italiane – quasi tutti manager o dipendenti di imprese tessili – rimanda mentalmente al posto occupato dal paese nella divisione mondiale del lavoro: centro tra i più frequentati dalle multinazionali tessili e dell’abbigliamento in cui delocalizzare le proprie produzioni, utilizzando a proprio vantaggio il supersfruttamento con cui le ditte locali estraggono plusvalore (assoluto e relativo: orari di lavoro infiniti e briciole di salario) da quella che è l’unica strada di sopravvivenza per uomini, bambini e donne bangladesi.

L’ultima volta che i media nostrani si erano occupati un po’ più diffusamente del Bangladesh – la cui industria dell’abbigliamento è valutata in 18 miliardi di $; il paese esporta anche pellami per milioni di dollari in settanta paesi, tra cui Italia, Stati Uniti, Giappone e Cina – prima della tragedia di Dhaka del 2 luglio, era stato nell’aprile del 2013, allorché il crollo di un edificio di otto piani che ospitava varie imprese tessili sempre a Dhaka, causò la morte di oltre 1.130 lavoratori. La situazione, da allora, è cambiata di pochissimo, salvo forse il tentativo dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro), l’agenzia dell’Onu che si occupa di sicurezza sul lavoro, di coinvolgere le centinaia di imprese straniere che producono in Bangladesh a spendere pochi centesimi di euro in alcuni accorgimenti strutturali negli ambienti di lavoro: uscite di sicurezza e antincendio, luci di emergenza, impianti elettrici a norma, ecc., per una spesa valutata in tre miliardi di $: cioè, considerato il volume della produzione, 8 centesimi in più per ogni capo. In quell’occasione, nel 2013, significativamente il Wall Street Journal aveva titolato “Cosa hanno in comune Armani, Ralph Lauren e Hugo Boss? Il Bangladesh”; e anche, si potrebbe aggiungere, lo stesso pugno di borghesia locale con cui fare affari sulla pelle dei “loro” operai, sia per la cosiddetta alta moda, che per quella degli indumenti meno costosi come H&M, Zara, Walmart.

Parlando del Bangladesh, non è sufficiente dire che è uno dei paesi più poveri al mondo e non basta neanche ricordare che tale povertà si esprime in un “prezzo della manodopera” tra i più bassi del pianeta, il che ovviamente alletta i capitali (soprattutto stranieri) sempre alla ricerca – ci si scusi la reiterazione dell’evidenza marxista – del massimo profitto, con condizioni di lavoro semischiavistiche. Sul sito vnavarro.org si può leggere che “il maggior problema del Bangladesh (il paese più povero al mondo assieme ad Haiti) non è la mancanza di risorse, ma il loro controllo. Nonostante la maggior parte della sua popolazione sia molto povera, il Bangladesh non è un paese povero... La causa di tanta povertà non è ovviamente la mancanza, bensì il controllo delle risorse. Il 16% dei proprietari terrieri controlla il 60% di tutta la terra, coltivata per poi esportare cibo verso i cosiddetti paesi sviluppati. I proprietari terrieri sono alleati in una casta al servizio di compagnie straniere del settore agricolo che dirigono lo sfruttamento della terra: ciò che si produce, come si produce e come si distribuisce... Questa oligarchia agricola è alleata con altri interessi domestici, a loro volta legati a compagnie straniere che producono in Bangladesh a costi bassissimi. La popolazione che fugge la miseria agricola accetta dei salari miserrimi perché non c’è altra possibilità. Questa struttura economico-politica mantiene la maggior parte dei lavoratori, in tutti i settori dell’economia incluso il tessile, senza alcuna protezione. Il settore tessile è controllato dai grandi colossi che dominano il mercato internazionale come, tra i tanti, Benetton, H&M e Mango, e da una lunga lista di catene internazionali di distribuzione e commercio, come per esempio El Corte Inglés. Queste compagnie operano in Bangladesh grazie al bassissimo costo della manodopera (0,21 euro l’ora), che lavora in condizioni miserabili, in fabbriche carenti dei requisiti minimi di sicurezza”.

Già tre anni fa, post.it scriveva che “la disponibilità di manodopera a basso costo ha reso il Bangladesh il secondo produttore di indumenti al mondo dopo la Cina: con un mercato da 20 miliardi di dollari all’anno, l’industria tessile bangladese nel 2012 ha garantito l’80% delle esportazioni del paese, delle quali ancora un buon 80% verso l’Unione Europea”. Germania, Gran Bretagna, Spagna, Italia sono infatti tra i paesi europei di cui un maggior numero di industrie tessili e di abbigliamento operano in Bangladesh. “Manodopera a basso costo significa anche terribili condizioni di lavoro e sicurezza a rischio”, indipendentemente dal prezzo finale di vendita della produzione, “firmata” o meno: “secondo i registri di spedizione, scrive il Wall Street Journal, Armani nel 2012 ha ricevuto quasi 10 tonnellate di magliette e biancheria intima realizzate in una fabbrica di Chittagong”.

“Una medesima t-shirt prodotta in Bangladesh per la marca G-Star Raw in un negozio di Londra costa 60 sterline”, scrive ancora post.it; “una della italiana Replay 35 sterline; una di Tommy Hilfiger quasi 40 dollari. Marchi come Tommy Hilfiger, Calvin Klein o Giorgio Armani hanno un prezzo più alto perché il marchio ha una reputazione che fa la differenza, afferma Ralston Fernandez, vice-presidente senior per le operazioni di “ZXY Apparel Buying Solutions”, società bangladese che si occupa di piazzare gli ordini dei rivenditori alle fabbriche locali. Secondo Mohammad Zulficar Ali, direttore esecutivo di una società che si occupa di curare i rapporti tra fabbriche produttrici e grandi marchi, il costo di produzione di una t-shirt di Primark sarebbe l’equivalente di 1,20 euro, 3,80 euro per una di Tommy Hilfiger e 4,60 dollari per una di G-Star Raw. Secondo i proprietari tessili bangladesi, i margini di profitto tendono a essere gli stessi indipendentemente dal cliente, e tutti tendono ugualmente ad abbassare i costi di produzione”. E lo fanno, sia tenendo i salari al di sotto del minimo di sopravvivenza, sia estendendo gli orari di lavoro oltre ogni limite.

Ancora due anni fa, il salario minimo di un lavoratore era stimato tra i 29 e i 37 euro al mese, contro una media di 200 euro in Cina. Il sito lindro.it scriveva nel 2012 della manager di un’azienda cinese di abbigliamento, secondo la quale “le fabbriche cinesi non sono piuù competitive come un tempo, a causa degli incrementi continui dei salari degli operai”, arrivati a 400-500 $, contro un salario medio mensile in Bangladesh “per gli operai del settore abbigliamento tra i 70 ed i 100” $. Dunque, “gli imprenditori cinesi del settore abbigliamento affermano che se loro si rifornissero in Bangladesh, i prezzi potrebbero facilmente scendere in un colpo solo del 10-15%”.

Ma, pur con tali salari, che attirano il massiccio trasferimento di imprese straniere, specialmente tessili, il Bangladesh ha una forte emigrazione di lavoratori, soprattutto verso paesi del Medio Oriente e dell’Asia sudorientale (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Malesia) le cui rimesse, pari a 10,9 miliardi di $ nel 2015, rappresentano oltre il 10% del PIL nazionale.

Per orientarsi un po’ nella situazione interna del paese, non è privo di interesse dare un’occhiata ai rapporti di chi, da sempre, fa di mestiere quello di mettere occhi e mani nelle cose altrui. Secondo la CIA, il Bangladesh è il 7° paese al mondo per numero assoluto di occupati: circa 82 milioni su una popolazione di poco meno di 169 milioni (luglio 2015), con una disoccupazione ufficiale al 4,9%, che lo piazza al 50° posto mondiale, dietro la Germania (4,8%), ma davanti a USA (5,2%) e molto sopra l’Italia, con il 12,2% stimato dalla CIA. Il 47% dei lavoratori è occupato in agricoltura, il 13% nell’industria e il 40% nei servizi, in una situazione in cui l’agricoltura rappresenta il 16% dell’economia, l’industria il 30.4% e i servizi il 53.6% e con circa il 40% di popolazione, sottolinea la CIA, “sottoccupata; molte persone sono occupate solo poche ore a settimana e a bassi salari” e il 31,5% di popolazione (dati 2010) oltre la soglia di povertà.

Un dato significativo riportato dalla CIA è quello del lavoro minorile, riferito ai bambini tra i 5 e i 14 anni di età: al 2006 i piccoli schiavi erano poco meno di 5 milioni (13% di tale fascia di età): anche se è difficile accogliere il dato a occhi chiusi, dal momento che da tale “graduatoria” mancano quasi tutti i paesi cosiddetti sviluppati e per l’Europa, ad esempio, vi figurano soltanto l’Albania (12%) e l’Ucraina (7%). Ma le preoccupazioni della CIA si esprimono soprattutto a proposito della distribuzione della popolazione secondo l’età. Con una popolazione infantile in Bangladesh da 0 a 14 anni che rappresenta il 31.62% del totale (circa 54 milioni) e quella tra i 15 e i 24 anni il 18.86% (circa 32 milioni), a fronte del 6,12% di popolazione tra i 55 e i 64 anni e 5.13% oltre i 65 anni, gli “analisti” yankee sostengono che, in generale “La struttura per età della popolazione influisce sui principali problemi socio-economici di una nazione. I paesi con popolazioni giovani (alta percentuale sotto i 15 anni) devono investire di più nelle scuole, mentre i paesi con popolazione più anziana (elevata percentuale sopra i 65 anni) devono investire di più nel settore della sanità. La struttura per età può anche essere usata per prevedere potenziali problemi politici. Ad esempio, la rapida crescita di una popolazione giovane adulta in grado di trovare un lavoro può portare a disordini”. Problemi questi, che sembrano restare abbastanza lontani dal Bangladesh: i giovani e giovanissimi, se riescono a superare lo scoglio scosceso della sopravvivenza, non necessitano di scuole e lavorano nelle “galere” del capitale occidentale e locale e gli anziani lasciano presto questa terra, con un’aspettativa di vita di 70,94 anni che posiziona il Bangladesh al 151° posto mondiale. Per quanto riguarda più specificamente l’infanzia, i dati del 2011 davano il Bangladesh al poco invidiabile 5° posto mondiale per percentuale (36,8%) di bambini sotto i 5 anni considerati sottopeso.

Riguardo il grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito familiare – secondo l’indice usato dalla CIA, più alta è la disuguaglianza, più l’indice si avvicina a 100, e viceversa – il Bangladesh si situava nel 2010 al 111° posto nel mondo, con un indice di 32,1. Vale a dire, apparentemente, in una posizione molto migliore di quella degli USA, ad esempio, che occupavano la 44° posizione, con un indice 45. Anche se tale misurazione rimane approssimativa, perché non ci dà né i valori assoluti delle disparità nazionali, né le percentuali di popolazione più povera e più ricca e quale parte del reddito nazionale vada ad appannaggio degli estremi, è significativo che, ad esempio, tra i paesi europei, la Germania fosse scesa da un indice 30 nel 1994 a 27 nel 2006, mentre l’Italia sia salita dal 27,3 del 1995 al 31,9 nel 2012.

Guardando di sfuggita ai dati più freddi della situazione economica, che però possono essere indicativi del grado di sfruttamento del lavoro operato dalle élite “compradore” locali e dalle multinazionali estere, la CIA classifica il Bangladesh al 25° posto mondiale per tasso di crescita reale del PIL (6,40%) e al 63° posto per volume di esportazioni, valutate in 29.930.000.000 $, con il settore dell’abbigliamento (quasi totalmente destinato all’export) che rappresenta il 75% delle esportazioni nazionali. Il tasso di crescita annua della produzione industriale nel 2015 era del 9,40%, che posiziona il paese al 10° posto mondiale; un debito estero pari a 24,47 miliardi $, con circa 30 miliardi $ di export e 38,2 miliardi $ di importazioni e un totale di investimenti di imprese straniere di 134 milioni $, accanto a un PIL procapite di 3.600 $ che gli valgono il 179° posto mondiale.

Un paese semicoloniale insomma, la cui borghesia riesce a fare affari d’oro, d’accordo con il capitale straniero, estorcendo lavoro non pagato, nel senso letterale del termine, dalla pelle di milioni di schiavi.

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