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15/07/2016

Strage di Nizza: ci risiamo, ma allora, che fare?

Il copione è il solito delle stragi islamiste con le opportune varianti del caso: il solito Kamikaze che fa strage inneggiando ad Allah (questa volta con la variante del Tir in mezzo alla folla) e che poi, immancabilmente, se non si fa esplodere con una carica di tritolo, viene ucciso dalla polizia e mai che si riesca a catturarne uno vivo per capirci qualcosa. Altra variante del caso, la scelta del giorno: la festa nazionale francese.

E cominciamo da questo dato: è l’ennesimo episodio che colpisce la Francia in meno di due anni (potremmo anche comprendere nel conto il caso del Belgio che, in fondo, è un satellite della Francia). Come spiegare questo accanimento?

Si tratta solo della maggiore presenza di immigrati islamici? Sicuramente la Francia con i suoi 7 milioni circa rappresenta una delle massime concentrazioni di popolazione islamica del continente, il che rappresenta un ambiente favorevole per il terrorista che voglia mimetizzarsi e, per di più, favorisce l’innesco di una guerra civile fra autoctoni ed immigrati che è precisamente l’effetto che gli jihadisti stanno cercando. E quindi, ci sta che quello sia uno dei punti più vulnerabili del continente. Ma, a ben vedere ci sarebbero anche la Germania, l’Inghilterra e l’Italia che hanno concentrazioni numericamente equivalenti o quasi e non si registra una recrudescenza paragonabile.

Dunque, anche se questo fattore influisce, non è quello principale nella spiegazione. Si potrebbe pensare, allora, che questo abbia a che fare con le peggiori condizioni di accoglienza che, da un lato esasperano la popolazione islamica fornendo materiale umano pronto all’azione anche suicida e, nello stesso tempo, la isolano rispetto a quella dei francesi originari determinando un più difficile progetto di integrazione. Questo è già un elemento più credibile, perché in effetti in Francia le condizioni di accoglienza sono peggiori che altrove, ma anche questa non sembra una spiegazione esaustiva: in Belgio le condizioni non sono affatto negative e la strage c’è stata ugualmente, anche se si tratta di un caso particolare. Poi c’è da dire che diversi attentatori non erano immigrati ma erano giunti dal medio oriente proprio in vista dell’azione e, comunque, il fenomeno resta troppo circoscritto ad alcune decine (forse centinaia di persone) e, dopo il 2005, non sfocia in rivolte popolari, per cui il nesso fra la pretesa causa e l’effetto appare un po’ debole.

Il particolare dei terroristi venuti da fuori suggerisce l’idea di una strategia della centrale dell’Isis che vuol colpire la Francia forse per la sua crescente esposizione nei conflitti di area (Libia, Mali, operazioni aeree in Siria,ecc.). Questa è una spiegazione decisamente più plausibile, anche per l’incredibile raffica di fesserie che Hollande sta facendo, ma in questo caso si pone un problema in più: l’attentatore è un militante organico dell’Isis, legato ad una catena di comando, o un lupo solitario del tipo di quelli che fecero le stragi di Londra e di Atocha? Nel caso si tratti di un elemento organico non ci sarebbe nessuna novità da spiegare: è la prosecuzione del piano antifrancese dell’Isis e sarebbe solo la conferma dell’inefficienza dei servizi francesi che non riescono a neutralizzare la rete califfale nel loro paese.

Ma se si tratta di una riedizione della saga dei lupi solitari, il discorso cambia, perché questo (anche in connessione all’episodio di Orlando) segnala un passaggio dell’Isis dalla strategia delle cellule isolate che “assorbe” la precedente esperienza alquaedista nelle sue forme d’azione, una riprova del carattere “inclusivo” ed “anfibio” di questo che è un avversario molto più pericoloso della banda di Bin Ladin. E questo ripropone il problema del “perché in Francia?”. La scelta della data non sembra causale ed ha una forte valenza simbolica. Anche la scelta del mezzo lascia pensare. Pochi giorni fa era partito un messaggio web del Califfato che invitava ad usare ogni mezzo contro gli occidentali e faceva esplicita menzione di stragi fra la folla con un’auto lanciata a tutta velocità. Una coincidenza inquietante, anche perché, se cominciamo con la tecnica mediorientale delle autobombe, qui il clima si fa molto pesante. E quella di Nizza potrebbe essere solo l’inaugurazione di un ciclo cruentissimo.
Ancora una volta, misuriamo l’impotenza del contrasto antiterroristico sperimentato dai servizi occidentali: semplicemente non funziona.

Se queste teste di legno anziché oscurare i siti islamisti provassero a studiarli e a capire i messaggi che passano da quel canale, le evoluzioni culturali e linguistiche del fenomeno, lo spettro organizzativo che sottintendono, le forme d’azione che preparano saremmo già un bel passo avanti.

Ma, soprattutto, dobbiamo capire che per battere il terrorismo i mezzi militari e polizieschi sono necessari, ma sono del tutto insufficienti. Ripeto per l’ennesima volta che il terrorismo non finisce quando è arrestato o ucciso l’ultimo terrorista, ma quando il suo orizzonte politico collassa: quando il fine per cui ci si batte appare non più raggiungibile ed ogni sforzo inutile. Ma questo richiede che il contrasto, prima ancora che militare o poliziesco, sia di ordine politico e psicologico e questo ora manca del tutto.

A novembre scorso, la Società di psicanalisi critica organizzò un seminario sul terrorismo suicida le cui relazioni introduttive vennero tenute dal professor De Masi e dal sottoscritto, ne seguì un dibattito molto interessante e ricco di suggerimenti che sarebbe interessante riprendere, spero che la società ne curi in breve la pubblicazione degli atti, nonostante i molti impegni del suo Presidente e la limitatezza dei mezzi a sua disposizione. Magari sarà l’occasione per riprenderne a parlare.

Per ora constatiamo che sia sconfortante l’assenza anche minima di contrasto psicologico al terrorismo islamista e quanto impotente sia la risposta che ne segue.

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