Donald Trump ha annunciato dal prato davanti alla Casa Bianca il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima. Non c’erano molti dubbi su questa decisione, ma vedersela sbattuta in faccia – per tutti i partner o gli avversari globali che avevano accettato quel trattato, magari a denti stretti – è un altro segno di forte discontinuità con il recente passato, incentrato sulla “concertazione internazionale”.
Diversamente dai commentatori mainstream, non abbiamo mai visto nel trattato di Parigi un meccanismo in grado di arrestare l’aumento della temperatura globale, la deforestazione e desertificazione di ampie aree del pianeta, il peggioramento della qualità dell’aria, ecc. Troppa retorica, poca sostanza, nessuna sanzione effettiva per chi sfora (o sforava, a questo punto) i limiti, pochi controlli, troppo squilibrio tra paesi industrialmente forti e quelli più arretrati.
Un segnale di preoccupazione per l’evoluzione imposta dal modo di produzione, non certo la “soluzione” del climate change.
Comprendiamo benissimo il discorso di quanti dicono, ancora oggi, “meglio poco che niente”, ma mettere in salvo il pianeta – e dunque l’umanità – richiede cambiamenti talmente drastici da risultare intollerabili per il pilastro fondamentale di questa way of life: il profitto d’impresa.
Il trattato di Parigi, come spiegarono allora con ricchezza di dettagli una marea di scienziati, provava semplicemente a rallentare la corsa verso il baratro, non ad arrestarla e tantomeno ad invertire la direzione di marcia. Troppi interessi economici, troppe disparità (come si fa a dire a paesi arretrati “voi non dovete accedere ai livelli di industrializzazione e benessere che l’Occidente ha raggiunto”?), troppi capi di stato che non sono leader all’altezza.
Certo nessuno, neanche noi, ha fretta di morire. Ma una morte un po’ più lenta non è una soluzione se si tiene presente il normale succedersi delle generazioni. In altri termini, se il trattato di Parigi fosse (stato) rigidamente osservato da tutti i paesi firmatari, i problemi devastanti si sarebbero presentati – nella loro drammatica irrisolvibilità anche fisica, a quel punto – davanti alla prossima generazione. Ossia ai nostri figli e nipoti. E chi è quel genitore o nonno che si augura l’esaurimento della propria progenie?
La parte di capitale che ha selezionato Trump.
Quella più arretrata, persino più arretrata delle società petrolifere (che da due decenni almeno stanno investendo intensamente nelle energie alternative – sapendo meglio di tutti che le risorse sono in via di esaurimento – mentre devastano territori con la caccia allo shale oil) e che proprio non riesce a guardare al di là dei muri dei propri stabilimenti.
Non che l’altra parte – quella hi tech, social, innovativa, ecc. – sia migliore.
Elon Musk, visionario fondatore di Tesla e di cento altre iniziative futuribili, oggi è su tutti i media per due ragioni decisamente opposte: la critica radicale alla decisione di Trump (dichiarandosi pronto a lasciare il comitato degli advisor economici del presidente) e le condizioni infami in cui si lavora nelle sue fabbriche (vedi qui e qui).
Un’impresa “green” è un inferno come una old black style, insomma.
Il NO di Trump è però l’ammissione di una crisi senza soluzioni (all’interno della logica del profitto, naturalmente). Le parole con cui Trump ha giustificato la scelta sono un campionario di ignoranza, negazionismo, impotenza e dunque di ideologia sostitutiva. Non avendo soluzioni realistiche, insomma, la butta in caciara, stracciando il velo di retorica politically correct che nascondeva e nasconde le pratiche quotidiane della produzione per il profitto. Vediamone alcune:
“Gli Stati Uniti si ritireranno dall’accordo di Parigi, ma avvieranno trattative per rientrare nell’accordo o per farne uno interamente nuovo che abbia i termini giusti per gli Stati Uniti, le aziende, i lavoratori e i contribuenti“.
“Non posso in buona coscienza sostenere un accordo che punisce gli Stati Uniti, che è quello che l’accordo di Parigi fa“.
“Sono stato eletto dai cittadini di Pittsburgh, non da Parigi“.
Nazionalismo puro, senza altre ambizioni che il prevalere caso per caso, contando sul differenziale di forza (soprattutto militare) ancora a proprio vantaggio. Nessuna visione, nessuna ambizione egemonica, solo il gretto interesse innalzato a regola assoluta.
Che il capitale basato negli Usa sia arrivato a questo punto è il segno dell’impossibilità di accettare i limiti oggettivi allo sviluppo dell’attuale sistema di vita. Solo un idiota può pensare che dentro un sistema limitato e chiuso – un pianeta – si possa andare avanti accumulando all’infinito, ignorando il bilancio fisico-ambientale tra consumo e riproduzione.
Quell’idiota è il capitale. Che non è una persona né un comitato d’affari. E’ un meccanismo impersonale, una logica astratta che si manifesta in azioni concrete che appaiono razionali se analizzate una per una, ma che nell’insieme sono una manifestazione di follia. Un meccanismo impersonale che non ha coscienza e non ne vuole avere, che ignora l’esistenza dell’autocritica e soffoca qualsiasi critica. Che seleziona i suoi interpreti, li domina, li possiede e li fa parlare.
Guardate Trump e vedrete il capitale. Senza veli. Dunque senza vergogna.
Cosa accadrà ora? A meno di veloci golpe interni agli Stati Uniti (impeachment o omicidio, i precedenti sono famosi), sarà inevitabile che molti altri paesi – alla spicciolata – assumano come un fatto oggettivo che il trattato sul clima sia non più in vigore. Se il paese detentore del 20-25% della produzione globale è fuori da ogni accordo, non esiste più alcun accordo. Dapprima qualcuno comincerà a sforare i limiti, a rivedere gli standard, ingaggiando aspre contese quando “colto sul fatto”. Un po’ come avviene nel panorama industriale italiano, dove tutte le imprese si dicono rispettose dell’ambiente e tutte sversano liquami e/o rifiuti tossici là dove si risparmia di più. E poi negano quando arriva il giudice...
E’ lo scenario della competizione che lo vuole. E quando si compete a livello planetario si usa tutto, senza regole.
Vi piace, questo futuro, vero?
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