Si tratta dell’ennesimo segnale di malcostume civico imperante in questo Paese collegato al malgoverno.
Malgoverno che si è espresso, nel corso degli anni, con i condoni, gli “scudi”, i falsi rientri dei capitali dall’estero, la tolleranza da parte dei paradisi più vari dalle Isole del Canale, al Lussemburgo (dove si trovavano i conti di Tangentopoli) alle Cayman.
Condoni, scudi, e quant’altro conditi dalle promesse (poste in bilanci, nella varie Finanziarie, DEF e quant’altro) di lotta all’evasione, elargite allo scopo di far sembrare ridotto il deficit pubblico.
Così stanno le cose per chi volesse finalmente giudicare sul serio.
Assieme all’evasione tra qualche mese, come già segnalato, ci sarà da affrontare la fine del Q.E. da parte della BCE, e di conseguenza l’esplosione della bolla che questo elemento avrà sicuramente provocato.
Intanto le condizioni materiali di vita sono peggiorate sotto tutti i profili, lo stato sociale è stato abolito, i redditi fissi super tassati hanno ridotto di gran lunga la loro capacità d’acquisto, la disoccupazione è molto superiore a quella degli altri paesi europei, mancano gli investimenti pubblici e, nel quadro dell’evasione fiscale di seguito efficacemente descritta, non è tenuto in conto il tasso altissimo di corruzione nel pubblico e nel privato e il fatto che buona parte del Paese al Sud come al Nord è in mano alla criminalità organizzata oppure ad imprese nelle quali la criminalità organizzata ha investito.
Questo ben oltre al linguaggio roboante del precedente presidente del Consiglio, a quello curiale dell’attuale e dell’eloquio da contabile del ministro dell’Economia.
Tutti dati non tanto da meditare ma da comprendere e valutare nella loro piena valenza economica e politica.
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“Una relazione del sostituto procuratore di Pistoia Fabio Di Vizio, uno dei più esperti magistrati del ramo evasione, riciclaggio e affini.
Quelle 50 pagine piene di numeri e tabelle scritte in occasione di un suo intervento alla bolognese InsolvenzFest, organizzata ogni anno dall’Osservatorio sulla crisi d’impresa, tracciano lo scenario di un Paese che in tutte le sue componenti ha coscientemente deciso che la lealtà fiscale non fa parte dei valori della convivenza civile.
Anno dopo anno (com’è raccontato da un articolo di Sergio Rizzo pubblicato da Repubblica.it), infatti, il maltolto aumenta: 107,6 miliardi nel 2012, 109,7 nel 2013, 111,7 nel 2014.
E sia pure in diminuzione i dati provvisori del 2015, contenuti nella nota di aggiornamento al Def, non fanno presagire un cambio sostanziale di rotta come ha anticipato qualche giorno fa il nostro Roberto Petrini. Il calo risulterebbe infatti di 3,9 miliardi e non c’è ancora una valutazione esatta del mancato introito Irpef dei lavoratori dipendenti irregolari, pari nel 2014 a 5,1 miliardi. Ben che vada, si tornerebbe quindi ai livelli del 2012. Una situazione tale da far dire ieri al presidente dell’Istat Giorgio Alleva che la lotta all’evasione “è strategica”. Ovvio.
Il problema è come farla. Perché il sostegno al conseguimento del risultato è corale, come fa capire.
Si scoprirebbe, per dirne una, che la propensione a evadere l’Irpef da parte del lavoro autonomo ha raggiunto nel 2014 un impressionante 59,4 per cento. Significa che entrano nelle casse pubbliche solo quattro euro su dieci delle imposte sul reddito dovute da chi esercita un’attività non dipendente. Il 3,5 per cento non viene versato, ma il 55,9 per cento neppure dichiarato. 30 miliardi e 736 milioni evaporati ogni anno, ma la cosa davvero preoccupante è che in cinque anni l’aumento di questa evasione, dicono i dati della commissione presieduta da Enrico Giovannini, ha superato il 50 per cento. Nel 2010 la calcolatrice si era fermata a 20 miliardi e 149 milioni.
Per non parlare dell’Iva. Qualche giorno fa da Bruxelles è arrivata la brutta notizia che l’Italia è il Paese europeo che detiene il record dell’evasione di questa imposta. Ma purtroppo non è una notizia nuova, perché è così da sempre. Il differenziale fra l’Iva dovuta e quella effettivamente pagata sfiora il 30 per cento: 29,7, esattamente. Altri 40,1 miliardi sfumati. Cinque anni prima erano 37,4. È colpa della crisi, deduzione ovvia. Ma fino a un certo punto. Perché la crisi da sola non spiega il fatto che l’Italia rappresenti quasi un quarto dell’evasione Iva dell’Unione europea, contro il 15,3 per cento della Francia e il 3,9 per cento della Spagna, che dalla stessa crisi non sono state certo risparmiate.
Se a quelli delle imposte dei lavoratori autonomi e dell’Iva si aggiungono i buchi sui redditi d’impresa, dell’Irap e dei contributi previdenziali, arriviamo appunto ai 111,7 miliardi cui sopra. Una cifra enorme. Che in più si riferisce per oltre due terzi alle tasse non pagate dai fantasmi: cioè da coloro che per il fisco nemmeno esistono. In media, 75 miliardi e mezzo l’anno. Somma pari al 15 per cento di tutte le entrate tributarie.
Inaccettabile il balletto che avviene fra l’accertamento e la riscossione. Dal 2000 al 2016 gli enti creditori hanno affidato a Equitalia 1.135 miliardi di euro da riscuotere: una cifra pari alla metà dell’attuale debito pubblico. Di questi, una parte è stata annullata dagli stessi creditori e una piccola fetta riscossa negli anni, con un residuo contabile che oggi ammonta a 817 miliardi. Ma 147,4 riguardano soggetti falliti, 85 i morti, 95 i presunti nullatenenti, 348 posizioni per cui si è già tentato invano il recupero, 26,2 sono oggetto di rateizzazioni e 32,7 non sono riscuotibili a causa di norme favorevoli ai debitori. Di quella enorme massa, grazie anche al contributo dei ricorsi tributari che hanno visto nel 2016 l’amministrazione soccombente in terzo grado nel 62 per cento dei casi, restano così aggredibili 51,9 miliardi, con una previsione di concreto realizzo che si riduce a 29 miliardi. Nella migliore delle ipotesi potrebbe rientrare il 3,5 per cento. Da chiarire come ciò si possa conciliare con i roboanti risultati nella lotta all’evasione (una ventina di miliardi introitati, secondo Maria Elena Boschi).
E veniamo ai controlli. Di Vizio segnala che nel 2016 gli accertamenti dell’Agenzia delle entrate sono calati del 33,8 per cento, passando da 301.996 a 199.990. Logico, perciò, che gli introiti siano diminuiti del 17,2 per cento, da 7,4 a 6,1 miliardi. Al netto, va precisato, della cosiddetta “voluntary disclosure”. Qui sta il bello. Perché dietro a quelle due paroline inglesi apparentemente misteriose si nasconde la spiegazione di dove sparisce una bella fetta dei soldi rubati al Paese. Ma questa è un’altra storia.”
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